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Autore: Nike93    10/03/2013    3 recensioni
Aspettati qualunque cosa, da parte sua. Aspettati sentimenti irrazionali. Aspettati che non voglia più lasciare la tua mano.
Nessuno mi aveva mai detto: aspettati di non voler più lasciare
la sua mano.
Nessuno mi aveva avvertito.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il tempo che resta

 
 
Mi aiuterai, vero?
 
Io credo che la vita sia un’eterna ricerca di salvezza.
È come se ci sentissimo costantemente in gabbia, prigionieri di emozioni che non siamo stati noi a desiderare o a creare. Un po’ come diceva Shakespeare, “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”: ho imparato a interpretarlo come se fossero i sogni a creare noi.
Avevo pensato che sarebbe stato facile, o che, se non altro, mi sarei destreggiato senza riportare ferite troppo dolorose. In fondo, i sogni sono parte del mio campo d’azione e spesso mi aiutano in situazioni disperate. La psicologia non avrebbe ragione d’esistere, né come disciplina né tanto meno come idea, senza l’inconscio. E i sogni sono come i fiori di questo immenso e fertilissimo campo che è proprio l’inconscio: sbocciano un po’ qui e un po’ là, senza che nessuno possa sapere in anticipo dove si potrà andare a coglierli, che sfumatura abbellirà i loro petali, quanto tempo riusciranno a resistere in un vaso prima di appassire.
Avevo sempre pensato che quel vaso fosse la mente umana, e che i fiori dei sogni fossero destinati al ruolo di passeggeri dentro di essa. Dovevo aver sbagliato qualche calcolo.
 
Non… non era questo che volevo.
 
Salvezza, dunque. Salvezza dagli incubi, perché gli incubi angosciano e ti fanno svegliare sudato e impaurito e con il cuore che scoppia. Salvezza dai sogni, soprattutto quelli troppo felici, perché fanno di peggio: ti riempiono il cuore esattamente di ciò di cui avevi bisogno e poi te lo strappano via, lasciandoti dentro una voragine che sembra destinata a non colmarsi mai più.
Salvezza. Come se ci sentissimo eternamente in colpa verso qualcuno, come se la vita fosse una strada da percorrere di corsa, per sfuggire a quel demone che ci sta inseguendo.
Avevo imparato – avevo capito – che, quando ti rendi conto di essere inseguito da qualcosa, l’unica cosa da fare è fermarti, girarti e andargli incontro: perché in realtà, fin da quando hai iniziato a correre, non l’hai mai guardata in faccia, quella cosa. Sei solo sfuggito a un’ombra.
Poi finalmente la guardi, e capisci che il problema non era l’ombra, ma tu stesso. Se non puoi combatterla, quella cosa, devi assorbirla. Perché è semplicemente una parte di te che lottava per essere accettata: non c’è nient’altro da fare.
Sembra molto semplice e metafisico, come concetto, ma non ho mai avuto a che fare con niente di più difficile e concreto, e posso dirlo tranquillamente, perché ho dovuto metterlo in atto io stesso prima di aiutare i miei pazienti a fare altrettanto. Del resto, è stato proprio concludendo un processo del genere che ho deciso di laurearmi in psicologia.
 
Tu devi aiutarmi! Non posso farcela da solo! Non riguarda più soltanto me!
 
Insegnarlo agli altri è stato così facile. Tirarli fuori dai propri traumi, dalle fobie, dagli incubi… Era la mia vita, mi rendeva una persona tranquilla e fiduciosa, esattamente quello che ogni uomo vorrebbe essere. Non avevo calcolato che anche io, un giorno, di nuovo, avrei avuto bisogno che qualcun altro facesse lo stesso per me. Non dopo dieci anni di carriera alle spalle. Non dopo aver già combattuto la mia crociata ed esserne uscito sanguinante, ma vivo.
 
Terapia! Hai ancora il coraggio di chiamarla terapia?!
 
È una delle prime cose che ti insegnano al tirocinio: tu tenderai la tua mano verso qualcuno che è caduto in un precipizio, e quel qualcuno vedrà in te un eroe, un dio, magari vedrà in te qualcuno che non sei veramente. Aspettati qualunque cosa, da parte sua. Aspettati sentimenti irrazionali. Aspettati che non voglia più lasciare la tua mano.
Nessuno mi aveva mai detto: aspettati di non voler più lasciare la sua mano.
Nessuno mi aveva avvertito.
Magari te l’aspetti, quella infatuazione. Ti aspetti che dietro la facciata della professionalità esploda un sentimento controverso, ma te l’aspetti in un modo tutto particolare, in un modo che puoi trovare spiegato su un libro universitario, e che quindi segua una regola e contempli una soluzione.
Non ti aspetti che quel sentimento, invece di esplodere, semplicemente fiorisca. Non ti aspetti che lo faccia come un qualunque altro sentimento, nel cuore di qualunque altra persona. E nel momento in cui te ne rendi conto, fai la più dolce e la più lacerante delle scoperte: non puoi farci nulla. Dovresti applicare il principio di “fermarsi, andare incontro e accettare”, ma com’è possibile, quando non hanno fatto altro che insegnarti a tenere le distanze?
Non bisogna essere empatici, per guarire una persona, non bisogna immedesimarsi, o tutto il lavoro ne uscirà distrutto, e magari quella persona non riuscirà più a guarire: è quello che insegnano, è così che si ripara un cuore o un cervello.
È quello che ho cercato di imparare da capo quando quell’uomo dagli occhi come carboni ardenti e il cuore come un fiore calpestato mi ha chiesto aiuto, quando si è aggrappato a me per non cadere di nuovo nel precipizio che aveva già inghiottito sua moglie e che continuava a chiamarlo come in una cantilena.
 
Io ho paura, dottor Harrison…
Lo so, davvero…
No, no, lei non può… non sa… Non lo sa cosa vuol dire, è come avere un’eco in testa che continua a ripeterti le parole che vuoi dimenticare, come una pellicola infinita con le immagini che non vuoi più rivedere… E non si ferma, non si ferma mai!
Non deve fermarsi.
Impazzirò… impazzirò…
Non si fermerà.
Perché?
Perché devi assuefarti alla sua presenza.
Non posso. Non posso!
Devi.
 
Lo so, non deve, devi.
Con la stessa invidiabile fermezza ne avevo guariti tanti prima di lui, anche da traumi peggiori. Vite spezzate di cui avevo avuto la pazienza di raccogliere e ricomporre i tasselli.
Mentre Alan, l’uomo dagli occhi come carbone, andava in frantumi giorno per giorno, e la sua anima si riduceva in granelli impossibili da ricostruire nel modo giusto. Aveva perso la moglie in un incidente ed ora era solo, con due figli, costretto a sopravvivere, ma smarrito in una dimensione a metà tra una realtà troppo dura e un trance ipnotico, dove il trauma si ripeteva ogni giorno, ogni ora, togliendogli il fiato. Pazienti come lui ne avevo incontrati pochi: di solito, mio compito era sollevarli per qualche attimo da una realtà crudele o trascinarli via dalla dimensione onirica che li aveva rapiti. Con Alan era più difficile, perché non riuscivo mai a trovare il punto mediano in cui farlo fermare, ma finivo sempre col tirarlo troppo oltre la linea di confine tra i due mondi che se lo contendevano.
E a forza di trascinarlo da una parte e dall’altra, in quel limbo ci sono caduto anche io.
 
Non c’è niente di coraggioso nel dimenticare, Alan. La vera sfida è imparare a convivere con quella cosa che ora ti fa stare male. Se tenti di cancellarla, prima o poi tornerà dentro di te e ti distruggerà senza che tu possa opporre resistenza.
 
Mi sembrava di essere ritornato adolescente, ai tempi in cui avevo scoperto quale effetto mi facesse lo sguardo, anche fugace, di un altro ragazzo. La notte, ripensando a quegli sguardi, premevo la faccia sul cuscino quasi come se avessi voluto soffocarmi, e invece volevo soffocare solo quello scomodo pezzetto di me che, già lo sapevo, mi avrebbe impedito di vivere la vita tranquilla che tanto desideravo. Avevo cercato di debellarla, come una malattia, senza capire che le malattie, prima o poi, nonostante cure e vaccini, si ripresentano.
Era la stessa cosa che tentavo di insegnare a lui: non pensarla come una malattia, o non guarirai. E lui credeva che lo dicessi tanto per dire, per dovere professionale, e  che non avessi idea di cosa significasse convivere con la parte di te che odi.
 
…Perché, cosa avresti cercato di dimenticare, tu?
La mia omosessualità, per esempio…
 
Gliel’avevo detto.
Così.
 

Non te lo dico per il gusto di raccontartelo. Voglio che tu capisca.
 
Finché non sono arrivato a chiedermi: e se invece avessi mentito? Se glielo avessi detto proprio per il gusto di raccontarglielo? Dio, che essere spregevole, che razza di professionista, che lurido incapace! Cosa dovevo fare? Interrompere subito la terapia? Non ci sarei mai riuscito, non avrei potuto perdonarmi di aver lasciato un paziente da solo, nel bel mezzo di una salita così ripida, soltanto perché non ero riuscito a controllarmi. Ma proseguire sarebbe stato ancora peggio: cosa sarebbe successo se quella piccola sbandata si fosse trasformata in un impedimento per la sua guarigione?
Improvvisamente, eravamo in due a dover guarire.
La verità è che mi sono innamorato di Alan senza volerlo, ma senza neanche pensare di non averne il diritto: non mi era mai capitato niente del genere. Avrei tanto voluto trovare una spiegazione medica a questo mio errore, ma la verità era la più semplice e la più frustrante: mi ero innamorato dell’ultima persona che avrei potuto permettermi di amare. Era capitato e basta. Tutto quello che dovevo fare era tenere a bada quella sciocca cotta e fare in modo che restasse tale, in modo da non compromettere la mia professionalità e la guarigione del mio paziente.
Credevo di potercela fare. Credevo di essere capace di fermarmi ad un rapporto amichevole, appena poco oltre il professionale.
Ma la verità è che Alan mi faceva sentire indispensabile, al punto che, in un fugace picco di follia, arrivai a chiedermi se, sotto sotto, non sperassi che non si rimettesse mai, per poter essere sempre al suo fianco nel momento in cui l’ennesimo flashback dell’incidente lo avesse pugnalato. Per poterlo afferrare, stringere, per infondergli il mio calore. La mia unica speranza era che, un giorno, il suo viso si illuminasse di quella serenità che prova qualcuno che dopo una traversata nel deserto è arrivato a un’oasi: che si rendesse conto da solo di essere guarito e di non aver più bisogno di me.
La terapia durò più di due anni, anche se già negli ultimi mesi si avvertiva il sapore di qualcosa di diverso. Man mano che passava il tempo, Alan aveva sempre meno sogni da raccontarmi, sempre meno domande da pormi, e occhi sempre più ansiosi.
 
C’è… c’è qualcosa di cui vuoi parlarmi?
Mh? Oh… No. No, nulla.
I bambini stanno bene?
Sì… Faccio del mio meglio perché sia così.
 
E poi silenzio. Minuti interi di nient’altro che respiri.
Forse avrei dovuto dirglielo una volta per tutte. Rivelargli che avevo imparato a riconoscere i suoi passi da quello degli altri pazienti e che questo mi faceva andare il cuore a mille, confessargli che quando mi parlava di sé lo avrei pregato di dirmi tutto, ancora e ancora, e intanto carezzargli il viso e dirgli sono qui. Magari sarebbe inorridito, o avrebbe semplicemente riso, per poi dirmi qualcosa come scusami, non ci siamo capiti, ora è meglio che cambi terapista.
Ma Alan sosteneva il mio sguardo e arrossiva leggermente. E io sapevo che questo – solo questo – sarebbe stato sufficiente a rovinare tutto. Avevo fatto il possibile per non lasciar trapelare i miei sentimenti nei suoi confronti, dunque non restava che affrontare quell’ultimo piccolo ostacolo, rimetterlo in piedi senza stampelle e poi lasciarlo andare per la sua strada.
Ma senza accorgercene eravamo arrivati proprio sull’orlo del famoso precipizio. E nessuno dei due era più disposto a lasciar andare la mano dell’altro.
 
Io… ritengo che sia meglio interrompere la terapia, Alan. Allo stato attuale, non è…
Terapia! Hai ancora il coraggio di chiamarla terapia?!
Credimi, è meglio non chiamarla in nessun altro modo.
 
Avrei dovuto dirgli che preferivo farmi trascinare dentro al precipizio con lui, piuttosto che lasciarlo andare e poi voltargli le spalle. Mi sono chiesto più volte se non fosse meglio fargli del male, una sola volta, affinché fosse lui stesso a tirarmi giù, a lasciarmi cadere e poi andarsene, dimenticandomi. Non sapevo se fossi disposto a mandare all’aria due anni di lavoro e, insieme, tutta la mia carriera. Non mi sentivo degno del mio ruolo, sedermi nel mio studio mi faceva sentire solo colpevole e ipocrita. Arrivai a dire ad Alan che non credevo davvero a tutto quello che avevo cercato di inculcargli, e che dimenticasse ogni singola parola che gli avevo detto. Ma avevo tirato la corda troppo a lungo e adesso non potevo più aspettarmi che si spezzasse: mio malgrado, ne avevo già testato la resistenza.
 
E se non restasse più tempo?
Cosa?
Se ti dicessero che il tuo tempo con me è finito, che hai avuto due anni per rimettermi in piedi, e sapessi che dopo di questo non ci rivedremmo più… Allora mi ameresti?

Anche solo per un giorno?
Non… non possiamo sapere quanto tempo ci resta.
Lo so. È per questo che voglio amarti.
 
Sarebbe bastato?
 
Non ti amo come un alcolizzato ama la bottiglia. Ti amo come un naufrago ama la terraferma. Non ho più paura del mare, ma non voglio cercare barche… Voglio restare a terra, Ben.
 
Basterà…?
 
Puoi… puoi anche esserti pentito. Puoi dirmi che non credi più a quello che mi hai detto. Ma ormai lo hai fatto, quelle cose le hai dette. E io ho smesso di scappare, Ben. Sto tornando indietro per venirti incontro.
 
A volte penso che le mie teorie psicologiche fossero tutte una scusa, un sogno distratto e bizzarro per farmi arrivare al punto in cui mi trovo ora. Uno scherzo per farmi rendere conto del punto in cui dovevo fermarmi. Ma non avrei mai potuto convincermene da solo se Alan non avesse trovato le parole giuste, come se io stesso gliele avessi suggerite per cavarmi fuori dalla pozzanghera nella quale mi ero impantanato.
 
Tu mi hai rincorso per tutto questo tempo, ma io non ti avevo mai visto in faccia. Mi hai rincorso perché tornassi indietro e ti facessi diventare parte di me. Lo so che è così. Me l’hai insegnato tu. Non mi interessa se ci credi ancora. Me l’hai insegnato e io l’ho capito.
 
E ancora mi chiedo: sono dunque io l’oggetto delle mie stesse elucubrazioni?
È come se mi fossi rincorso io stesso, non per due, ma per molti più anni. Come in un sogno.
Magari è proprio per questo che ho sempre cercato di liberare i miei pazienti dai sogni: perché li consideravo una prigione sconosciuta, perché non si sa mai come vadano a finire.
Ma forse – forse – sto imparando a considerare il tempo che resta come la migliore opportunità, e non come una minaccia scura. Adesso mi piace credere che sia proprio questo finale sconosciuto a rendere i sogni degni di essere gustati finché il corpo non decide che è ora di svegliarsi.
Magari non ci sveglierà affatto, se ne vale davvero la pena.
 
 
 

So if tomorrow never comes
From living fast and dyin’ young
I hope the best is yet to come
In the time that remains for you
(Three Days Grace, Time that remains)

 
 
 
 


 
 
Note: Non è una vera e propria storia, più un flusso di coscienza per dare forma a un nuovo personaggio e per tenermi in esercizio con la scrittura. I personaggi appartengono a me e DelicataRosa, e quanto narrato è completamente frutto di fantasia.
  
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