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Autore: morgana85    27/09/2007    7 recensioni
RIVEDUTA E CORRETTA PERCHE' NON SI VEDEVANO I DIALOGHI.
Dal testo:
(...) È un ricordo lontano, scolorito dal trascorrere degli anni. Eppure, ogni volta che si ripresenta, sempre nitido e indelebile.
Quella notte di undici anni fa, in cui la luna si nascondeva al mondo, mentre il cielo era un manto di raso blu ricamato con miriadi di stelle. La notte perfetta per le fate, proprio come raccontano fiabe e leggende.
Perché, a quel tempo, ancora ci credevo. (...)
Sono nuova di questo sito, ma ho già pubblicato con il nick di Angelmorgana. Quindi, se trovate le stesse fic ma con un nick diverso non vi preoccupate, sono sempre io!
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger | Coppie: Draco/Hermione
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Ricordi di un bambino.
Sogni mai abbandonati.
 
 
 
È un ricordo lontano, scolorito dal trascorrere degli anni. Eppure, ogni volta che si ripresenta, sempre nitido e indelebile. Quella notte di undici anni fa, in cui la luna si nascondeva al mondo, mentre il cielo era un manto di raso blu ricamato con miriadi di stelle.
La notte perfetta per le fate, proprio come raccontano fiabe e leggende.
Perché, a quel tempo, ancora ci credevo.
Non ricordo come avevo scoperto quel piccolo sentiero, in un angolo all’estremità nord del giardino del nostro castello. So solo che, con la curiosità tipica del bambino che ero, avevo iniziato a percorrerlo.
Un passo dopo l’altro, il mondo intorno a me sembrava cambiare. L’erba cresceva rigogliosa, gli alberi si facevano immensi e nodosi, come vecchie sentinelle secolari. Un tappeto di fiori dorati dai riflessi di rame si estendeva a perdita d’occhio, permeando l’aria con la scia del loro celestiale profumo.
Mi ero voltato, cercando con lo sguardo qualcosa di familiare. Ma la casa era scomparsa, il giardino diventato foresta e nessun rumore, tranne il lieve sussurro della brezza tra le foglie.
Mi ero perso.
Perso in una realtà che appariva come lo stralcio di un sogno.
Avevo iniziato a correre a perdifiato, mentre le ombre lentamente si allungavano, apparendomi ostili e minacciose. L’eco dei miei passi era profondo, spaventoso, quasi il ruggito di un essere demoniaco.
Poi, improvvisamente, una forte luce mi aveva investito. Mi ero riparato gli occhi con una mano, cercando sostegno poggiandomi contro un albero lì vicino.
Avevo sbattuto più volte le palpebre, mentre i miei occhi faticavano a tornare a vedere. Quando tutto aveva cominciato ad assumere nuovamente contorni definiti, ciò che avevo scorto mi aveva lasciato a bocca aperta.
Splendide fanciulle alonate di luce argentata danzavano, tenendosi per mano e sorridendo allegre. I loro meravigliosi abiti, un intreccio di veli, fiori e foglie intessuti di vento e stelle, frusciavano al ritmo dei loro passi cadenzati. Si muovevano leggiadre, ogni singolo movimento accompagnato dallo scampanellio di invisibili campanelli e schiudersi di ali. Una musica lieve ed armoniosa risuonava lontana, quasi proveniente da un altro mondo.
Il suono di un’arpa, le note antiche fluivano ovattate e incantevoli. Pericolose da ascoltare come il canto delle sirene.
Ero rimasto ai margini della piccola radura circondata da candide betulle, dove quegli esseri incantati rendevano grazie ai loro dei, per un tempo che era parso infinito.
Finché qualcosa non aveva attirato la mia attenzione.
In un angolo tranquillo una bambina accarezzava con dolcezza il muso di un meraviglioso unicorno, gli occhi gioiosi e uno splendido sorriso a dipingerle le labbra.
Avevo pensato che nessun essere umano potesse toccare quei leggendari animali, tranne coloro che avessero un’anima completamente pura.
Ma forse non era umana. Era talmente bella che avevo pensato fosse anche lei una fata.
Cercando di fare meno rumore possibile mi ero avvicinato, restando solo a pochi passi da lei, ancora nascosto tra le fronde basse degli alberi. Indossava un abitino bianco che le arrivava alle caviglie, le corte maniche leggermente a sbuffo fermate da un sottile nastro di raso rosso ricamato con piccole lune di filo d’argento. Aveva i capelli dal colore delle foglie autunnali, adornati da un’incantevole corona di quei fiori dorati che mai avevo visto, in nessun giardino. Il viso mostrava i lineamenti semplici di una bambina, le mani delicate che sfioravano il serico manto dell’animale.
Ma sopra ogni cosa, i suoi occhi.
Iridi di miele e ambrosia, impreziosite da lamine di oro cesellato e pagliuzze di rame. Così stranamente profondi e saggi per appartenere ad un essere così giovane. Sembravano conoscere ogni cosa del mondo, ogni arcano e oscuro segreto. Sapevano leggerti l’anima con un solo sfiorarsi di sguardi.
Quando i nostri occhi si erano incontrati, un moto di paura mi aveva colto improvviso. Ma lei mi aveva rassicurato con un sorriso, salutandomi con un cenno della mano.
Mi ero avvicinato, ancora titubante, fermandomi proprio accanto a lei.
«Vuoi accarezzarlo anche tu?», la sua voce era incredibilmente dolce e vellutata, spruzzata di allegria.
«No, non posso», avevo risposto insicuro.
«E perché non puoi?», mi aveva guardato con aria dubbiosa, quasi dispiaciuta.
«Perché sono un bambino cattivo. E gli unicorni non si fanno toccare dai bambini cattivi», o per lo meno, mio padre mi aveva sempre ripetuto quelle parole.
Sei un bambino cattivo, sei un bambino cattivo.
«Io non ci credo che sei cattivo», mi aveva sorriso nuovamente, prendendomi la mano e avvicinandola all’animale. Avevo cercato di ritrarla, ma la sua presa sembrava così sicura e decisa che mi ero lasciato andare. Ricordo di aver chiuso gli occhi, aspettandomi qualcosa di brutto. Ma non era successo nulla. La mia mano era lì, a contatto con il corpo caldo dell’unicorno, e lui non se ne era andato. Al contrario, aveva accolto con piacere le mie carezze.
Allora non ero un bambino cattivo.
L’anima ancora bianca e innocente come un giglio fiorito in un antico giardino.
«Visto? Avevo ragione io!», la sua risata cristallina aveva pervaso l’aria, mentre saltellava intorno a me.
La dolce ingenuità di un bambino negli occhi, nei gesti, nei pensieri.
Contagiato dalla sua allegria mi ero lasciato condurre dalle sue mani, intrecciate alle mie, mentre cercava di insegnarmi passi di una danza solo nostra.
Infine, stanchi e ancora sorridenti, ci eravamo seduti sull’erba morbida e profumata guardando quelle ancestrali dame impegnate in affascinanti balli.
«Hai visto come sono belle?», aveva un tono eccitato, sognante.
«Si», ma non riuscivo a guardare che lei, la mia giovane mente ancora incapace di capire il perché. «Sei una fata anche tu?».
Aveva scosso il capo, facendo ondeggiare i suoi lunghi boccoli. Avevano un buon profumo. Biancospino e mandorle.
Biancospino. Soave e leggero, innocente.
Mandorle. Dolce ma non intenso, avvolgente come un abbraccio.
Inclinando leggermente il viso mi aveva guardato, sorridendomi ancora. «Non vedi? Io non ho le ali», aveva spiegato, con aria saccente.
«E allora perché sei bella come loro?».
Aveva semplicemente alzato le spalle in risposta, senza imbarazzo o malizia, forse non capendo il significato di quelle parole.
Ancora troppo bambini, per capire parole da grandi. Parole dette con la sincerità nella voce. Quella sincerità che si nasconde in un cassetto dell’anima quando si cresce, troppo orgogliosi e timorosi di apparire deboli.
La notte era trascorsa veloce, come un ladro che corre furtivo verso il suo rifugio.
«Ora devo tornare a casa». Come le fate poco prima erano tornate a nascondersi nella foresta, ora anche lei stava per andarsene. Mi aveva dato un piccolo bacio sulla guancia, incamminandosi poi tra l’erba folta ancora scintillante di magia.
«Aspetta!». Si era fermata al suono della mia voce, voltandosi nuovamente mentre la raggiungevo, «Facciamo una promessa: torneremo qui a giocare tutte le volte che non ci sarà la luna».
I suoi occhi brillavano e un sorriso le illuminava il volto, «Promesso», aveva annuito con vigore.Per suggellare la promessa, mi aveva lasciato uno dei piccoli nastri di raso del suo vestitino. Io, non avendo niente da darle, avevo raccolto uno di quei magnifici fiori dorati. Quando lo avevo posato tra le sue mani, la magia che permeava ogni cosa in quel luogo si era sprigionata, trasformandolo in un piccolo topazio a forma di stella dei venti. Ricordo ancora la sua faccia meravigliata quanto la mia.
Mentre ripercorrevo il sentiero che sapevo mi avrebbe condotto a casa, mi ero accorto di non sapere il nome di quella bambina. Con una scrollata di spalle, avevo pensato che avrei potuto chiederglielo quando ci saremmo rivisti.
Nessuno dei due, a quel tempo, aveva sospettato che quella promessa non sarebbe mai stata rispettata.
 
Non so perché questo ricordo sia ricomparso tra i miei pensieri proprio questa notte.
Forse, perché è uguale a quella notte. Senza luna, con le stelle divenute padrone del cielo, come polvere su un vecchio mobile. C’è solo una piccola differenza. Ora, non credo più nelle fate.
Pensieri di chi è stato per troppo poco tempo un bambino, di chi ha visto dolore e odio troppo presto.
Stringo il calice d’argento tra le dita, facendo oscillare il liquido purpureo all’interno prima di berne un generoso sorso. È speziato e caldo, dall’aroma inebriante.
Non vedo l’ora di potermene andare da questa insulsa festa in costume per il calendimaggio, dove tutti sembrano eccitati in maniera imbarazzante per l’arrivo della primavera. Lascio vagare lo sguardo sulla sala dove ragazze in abiti troppo succinti e appariscenti cercano, in maniera decisamente penosa, di rappresentare le fate e le ninfe dei boschi, mentre ragazzi provano ad attirare la loro attenzione con assurdi corteggiamenti.
Disgustato da questa improponibile calca di idioti mi dirigo verso il giardino, accertandomi di non essere seguito, esigendo un angolo di tranquillità. Cammino lentamente, godendo del vento tiepido che mi sfiora il viso, come una carezza. Socchiudo gli occhi, ascoltando nient’altro che il silenzio. Mentre cerco nelle tasche una sigaretta, scorgo qualcosa cadere a terra. Chinandomi per raccoglierlo, quasi mi viene da sorridere.
Un nastro di raso rosso, ricamato con piccole lune d’argento.
Ricordo di qualcosa che non era un sogno, custodito dalle domande altrui con gelosia e indifferenza, tranne che ai suoi occhi bramosi di ritrovare quel bambino che era stato.
Lo conservo da quella notte. Non so precisamente il perché, non sono quel genere di persona. Eppure non riesco a separarmene.
Un rumore lieve e cadenzato mi giunge alle orecchie, mentre un’ombra scura e dai contorni labili si avvicina, con lentezza. Prima che riconosca chi sia, uno strano scintillio cattura il mio sguardo. È il bagliore delle stelle riflesso dal ciondolo che quella persona porta al collo.
Il respiro si esaurisce quando lo riconosco.
Non è possibile.
Non può essere.
Un topazio a forma di rosa dei venti. Solo una persona può avere quel cristallo.
Ed è impossibile che sia qui.
Quando infine vedo il suo volto il cuore perde un battito, forse due, mentre un brivido freddo percorre le mie membra.
Paura della verità. Non per codardia, ma perché giunta implacabile. Letale.
«Granger», il solito ghigno dipinto sul volto, scudo ideale per mascherare ogni emozione.
«Malfoy», la mia presenza le giunge decisamente inaspettata.
Non riesco a fare altro che guardarla, proprio come allora.
Troppo bella per un semplice mortale, la grazia di una sacerdotessa e l’ingenuità di una fanciulla.
Un elegante intreccio di veli e velluto ricopre il suo corpo armonioso, creando un lungo abito semplicemente stupendo, le ampie maniche intessute con ricami d‘oro e luce. Tra i morbidi boccoli porta una corona di fiori dorati. Quei fiori.
Regina delle fate, oggi come quella notte, le ali nascoste con un abile incantesimo. Maestosa e algida, eppure ancora come quella bambina, pura e semplice.
Ed esattamente come molti anni fa, i suoi occhi.
Occhi cercati quasi con disperazione nei volti senza nome delle ragazze che gli scaldavano le lenzuola, mai trovati.
Non sono cambiati. Ancora innocenti e sinceri nonostante lo scorrere del tempo, risplendenti come fuoco purificatore e liquidi come oro colato. Così diversi dai miei, semplici specchi d’argento brunito dietro i quali celare tenebre e sofferenze. Mi rendo conto solo ora di quanto sia stato stupido a non riconoscerli sette anni or sono, in una ragazzina saccente e goffa.
Forse stanca del mio silenzio mi volta le spalle, tornando sui suoi passi. Ma qualcosa la ferma, prima che possa farlo io. Vedo il suo sguardo fisso sulle mie mani, senza capirne il motivo. Abbasso il viso, notando con fare quasi distratto il nastro rosso intrecciato tra le mie dita. «Malfoy, dove hai trovato quel nastro?», la sua voce ha uno strano tono, un misto di insicurezza e incredulità.
«Non lo ricordo, sarà sicuramente caduto ad una delle ragazze che visitano la mia stanza». le sorrido malizioso, mentre cerco di nascondere quella piccola striscia di stoffa, ormai inutilmente.
«Non cercare di prenderti gioco di me! Dimmi dove lo hai preso».
«Non sono affari che ti riguardano Mezzosangue».
«Oh, si invece», con rapidi movimenti si avvicina, strappandomi il tessuto dalle mani. «Riconosco questo nastro. L’avevo donato undici anni fa ad un bambino, come sigillo di una promessa».
«Ed è stata mantenuta questa promessa?», domando a bruciapelo.
La sua decisone sembra vacillare. «No», un sospiro accompagna quelle parole.
Qualcosa di lontano che pensava di aver dimenticato. Ma la delusione è la stessa, lacrime trattenute che lasciano un retrogusto amaro tra i ricordi.
«Malfoy, per favore, dimmi dove lo hai trovato».
Questa volta non rispondo. Perché sarebbe troppo difficile spiegare, troppo doloroso far risorgere le speranze nate in quella notte. Troppo difficile ammettere di non essere più riuscito a trovare quel sentiero nascosto. Perché la mia anima non era più quella di un bambino, ma dannata dal rancore provato verso persone che mi avevano promesso potere e gloria, quando io non volevo altro che un abbraccio.
Una musica lenta e leggera risuona improvvisamente, ma non proviene dalla festa. Sembra giungere da un luogo lontano, reale e al tempo stesso dalla consistenza dei pensieri, trasportata dal vento di primavera.
Melodiosa armonia di sospiri del tempo, sussurri fra terra e cielo, incontri tra vento e notte.
Sperando forse in una conferma, nella certezza che anche lei senta quella musica, quella musica, mi volto per cercare lo sguardo della Mezzosangue. Ma lei ha gli occhi chiusi, un’espressione tranquilla sul viso, dimentica del mondo ormai distante.
No, non mi sono sbagliato. Anche lei la sente.
«Vorresti concedermi questo ballo?».
«Cosa?», la mia voce sembra ricondurla alla realtà, facendole sgranare gli occhi. «Malfoy, ti è per caso dato di volta il cervello?».
Senza risponderle mi avvicino, porgendole la mano. Avverto le sue iridi dai colori del sole al tramonto sondare ogni angolo del mio spirito, ancora indecisa se potersi fidare. Infine le sue dita si intrecciano alle mie, in maniera così naturale da lasciarmi sorpreso. L’attiro a me, passandole un braccio attorno alla vita sottile. Una strana sensazione mi invade nel sentire il suo calore tra le mie braccia, quasi avessi ritrovato qualcosa che pensavo di aver perso per sempre.
Il tocco di un angelo che risveglia i sensi, il risorgere di quel bambino quasi disperso a causa di una realtà troppo pesante per le sue giovani spalle.
Ci muoviamo lenti, i nostri sguardi incapaci di sciogliersi, oro e argento cesellati in splendidi intrecci da un abile orafo celeste. Senza che me ne renda veramente conto, sento la sua fronte posarsi contro la mia spalla e il suo corpo abbandonarsi contro il mio. È un gesto che mai mi sarei aspettato da lei. È qualcosa che però sembra placare il mio animo inquieto, pervadendolo di una strana pace.
«Forse a quel bambino è stato impedito di mantenere la vostra promessa», è quasi un sacrilegio interrompere il silenzio che ci circonda con inutili parole. Vorrei poterla semplicemente tenere così, cullandola e ascoltando il suo respiro. Ma deve sapere, deve capire.
«O forse per lui era una promessa vuota», la sua voce è intrisa di amarezza e delusione.
«No, io credo proprio di no».
«Ma davvero? E tu cosa ne sai?». Torna ad essere l’indiscussa Regina dei Leoni, pretendendo rispetto per le sue convinzioni.
La osservo per qualche istante, prima di avvicinarmi al suo orecchio, quasi un cospiratore pronto a svelare un arcano segreto. «Perché conosco il dolore di quel bambino, la mia pelle ne porta ancora i segni», poco più di un sussurro, flebile come lo sbattere delle ali di una farfalla. «Perché conosco il desiderio di quel bambino di poter tornare in quella radura, arrabbiato con se stesso per non riuscire più a ricordare la strada», sento il cuore battere come mai in vita mia. «Perché quel bambino ha conservato questo piccolo nastro di raso per undici anni, come unico ricordo di qualcosa che era entrato a far parte della sua anima».
Con gesti improvvisi si libera dalla mia stretta, indietreggiando di qualche passo. Sembra smarrita e confusa, gli occhi umidi di lacrime che splendono come ambra preziosa. «Tu», sfiora con le dita il ciondolo che porta al collo. «Eri tu».
«E tu, sei una fata?», le chiedo, sperando che anche lei ricordi veramente.
La vedo sorridere, proprio come quella volta. Scuote il capo, inclinando leggermente il viso mentre mi guarda. «Non vedi? Io non ho le ali», la stessa aria saccente.
«E allora perché sei bella come loro?». Colta di sorpresa, la vedo abbassare lo sguardo. Senza malizia, solo timido imbarazzo.
Quelle stesse parole, ma con un significato diverso. O forse, con lo stesso significato di un tempo, solo reso evidente nei loro occhi.
Mi avvicino, passandole due dita sotto il mento per poter osservare ancora una volta quelle iridi d’ambrosia, dalle quali sono inconsciamente divenuto dipendente. Accosto il viso al suo, i nostri respiri uniti, ma prima che riesca a sfiorarle le labbra voluttuose, la sua mano mi ferma.
«Facciamo una promessa», i suoi occhi hanno la stessa luce di quella notte, «Promettimi che non sarà solo questa notte».
«Promesso», le sorrido, con la stessa goffaggine di chi non lo fa da molto tempo.
«Non ho nastri da darti. Come suggelliamo la promessa?».
«Io un’idea l’avrei…», stringo la presa sulla sua vita, attirandola ancora più vicina, prima di catturare le sue labbra in un bacio che non ha bisogno di parole. La sento rilassarsi contro di me mentre schiude le labbra, lasciando incontrare le nostre essenze, che si cercano con delicatezza e rispetto. Il suo profumo mi inebria i sensi. Anche quello non è cambiato. Biancospino e mandorle.
Una promessa suggellata con l’innocenza dei bambini, che nel cuore ancora non sapevano di provare un sentimento profondo come le fondamenta della Terra, non può essere infranta nemmeno dal lento logorio del tempo.
Perché è proprio il destino a tessere quel sottile nastro di raso rosso, spesso invisibile ad occhi mortali, con cui congiunge due anime per l’eternità.
  
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