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Autore: SenBreeze93    11/03/2013    2 recensioni
Tutti i mondi sono collegati ad un unico Centro, in cui creature di varie galassie si incontrano per mettersi alla prova e proclamare la razza "suprema". Un mondo ai nostri occhi impossibile, in cui creature da noi ricordate come "mitologiche" esistono e vivono esattamente come noi facciamo tutti i giorni, magari in modo un po' meno civile. Il nome di questo luogo: Vhalmàr.
Tre ragazzi, amici d'infanzia, si ritrovano dopo anni di separazione. Ancora non sanno che presto verranno messi dinnanzi alla prova più dura di tutta la loro vita.
Felce, Antel e Joe si vedranno obbligati a lottare per riuscire a trovare una via di ritorno, per poter riabbracciare le proprie famiglie e, soprattutto, il loro pianeta: la Terra.
Felicità, tristezza, gelosia, dolore, insicurezza, amore.... inizia qui il viaggio dei tre "prescelti".
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Trascloco

 

Il sole filtrava dalle tende della stanza rendendo la polvere presente nell'aria un unico fascio di pagliuzze dorate.

La stanza era un ammasso di scatoloni e ante degli armadi aperte. In un angolo vi era un letto formato dal solo materasso senza coperte e delle macchie rettangolari sul muro mostravano la vecchia presenza di quadri.

La porta si aprì e dalla soglia entrò una donna alta e un po' rotonda. Si diresse verso l'armadio e controllò che non vi fosse più niente all'interno, portandosi i corti capelli castani dietro l'orecchio con la mano.

Quando fu sicura di non avere dimenticato niente chiuse le ante, chinandosi per prendere uno degli scatoloni e uscendo dalla stanza.

L'intera casa era un cumulo di scatoloni e mobili nudi o imballati.

Un uomo alto e magro dai capelli neri e corti stava imballando con il nastro isolante uno dei tanti pacchi quando la moglie entrò posando il suo carico.

    • Hai controllato che non ci sia più nulla? – chiese lui.

Lei annuì stiracchiandosi – Sì, è tutto imballato.– e si sedette sul divano avvolto nel cellophane.

Lui mise i pacchi sul tavolo della cucina e li contò.

    • Allora non ci rimane che caricarli sul camion. – constatò.

Lei si alzò e si guardò intorno. C'era fin troppa calma. Come mai non c'era il chiasso di sempre?

    • Tesoro? –

    • Mmm? –

    • Dov'è Felce? –

 

Le gambe correvano veloci tra gli alberi e i cespugli del bosco. Alcuni arbusti le graffiavano le gambe nude, ma Felce non se ne curava.

Prima di partire doveva assolutamente salutare qualcuno.

La cosa era stata parecchio improvvisa. Suo padre aveva ottenuto una promozione a lavoro e ora il suo orario era più rigido. Erano stati costretti

a trovare una sistemazione in città.

Quando glielo avevano detto non le era piaciuto per niente. Trasferirsi voleva dire lasciare i suoi amici e tutto quello che aveva conosciuto in quei brevi otto anni di vita.

Aveva protestato, urlato e scalpitato, ma la decisione era stata irremovibile. Quando aveva informato della notizia i suoi due migliori amici non l'avevano presa per niente bene.

All'inizio si erano messi a ridere, pensando a uno scherzo, ma quando avevano capito la serietà dell'amica il loro sorriso era scomparso.

Aveva avuto tre giorni scarsi per salutare tutti e radunare le sue cose.

Aveva cercato in ogni modo di ritardare la partenza, ma la strigliata che i genitori le avevano dato era stata più che sufficiente per farle cambiare idea.

Ora mancavano due piccoli amici all'appello e li stava cercando da quasi un ora, setacciando quasi l'intero bosco.

Corse tra le radici, saltando, aggrappandosi da un ramo all'altro come una scimmia e, infine, li trovò: erano in riva al laghetto e giocavano vicino alla loro mamma. Il muso peloso e grigio, le orecchie a punta, i dentini aguzzi e gli occhi ambrati.

Felce corse verso di loro e notò la madre irrigidirsi, per poi tornare ad accucciarsi una volta capito chi era l'ospite. I due cucciolotti corsero verso di lei e le saltarono addosso, mordicchiandole le dita e le orecchie.

    • Ahio! Ehi, fate piano! –.

Quando i due lupacchiotti si furono calmati, la bambina li accarezzò dolcemente, affondando le dita nel loro morbido e folto pelo grigio.

Gli occhi le divennero umidi: sapeva che non li avrebbe più rivisti per molto tempo.

Una lacrima le scivolò sulla guancia e parve che uno dei due cuccioli se ne accorse, perché sollevò una zampina uggiolando, leccandole la guancia bagnata.

    • Grazie, Klay. Ma non piango perché mi sono fatta male... –.

Klay uggiolò ancora, stavolta insieme al fratello. Felce li accarezzò di nuovo, stringendoli a sé.

    • Dovrò stare via per un po' di tempo, ma vi giuro che un giorno o l'altro tornerò e

andremo di nuovo insieme a caccia di scoiattoli, come abbiamo sempre fatto! – disse mentre le lacrime cominciavano a scenderle veloci giù per le guance.

Anche loro avevano cominciato a guaire in coro e la lupa si era alzata a guardarli con occhi che parevano impassibili.

Felce abbracciò ancora una volta i cuccioli, per poi alzarsi in piedi e voltarsi. Stava cercando di tornare a casa, ma i lupi la mordevano alle calze, cercando di trattenerla e guardandola con occhi quasi disperati.

Sentì il cuore scoppiarle. Con che coraggio sarebbe scappata da loro senza voltarsi indietro? Sarebbe stato come tradirli, rattristarli. Non poteva farlo, non ce la faceva.

    • Vi prego! Klay, Liko! Lasciatemi andare! Non rendete le cose più difficili di

quanto non lo siano già! – singhiozzò.

Quasi avesse capito la sua difficoltà, la lupa si avvicinò e prese per la collottola i due cuccioli, togliendoglieli dai piedi. Lo sguardo comprensivo che le indirizzò la trapassò, mozzandole quasi il fiato, ma facendole capire che era il momento giusto per andarsene.

Così lo fece. Si voltò e si mise a correre, più veloce che poté, cercando di non ascoltare gli uggiolii disperati di Liko e Klay.

 

Svoltando da dietro un tronco, andò a sbattere contro qualcuno, che ruzzolò a terra insieme a lei.

Rimase per terra a piangere e solo quando una mano le si poggiò sulla spalla alzò lo sguardo: un bambino, forse di un paio d'anni più di lei, con liscissimi capelli neri e brillanti occhi verde chiarissimo. La stava osservando con un misto di stupore e preoccupazione.

    • Antel!! – strillò e lo abbracciò forte, senza smettere di piangere.

Avrebbe dovuto lasciare anche lui. Lo conosceva da quando aveva due anni e lo considerava un fratello, forse l'unica persona che la conosceva davvero, com'era veramente. Con lui si era sempre confidata ed era l'unico che le era vicino nei momenti difficili.

    • Fel, che cosa è successo? – le chiese preoccupato.

    • Klay... Liko... io non... volevo.... –

    • Ah, ora ho capito... è stato meglio così, non credi? È stato meglio

che tu ce lo abbia detto, invece di sparire, no? –

Felce si sentiva scoppiare. Sapeva che Antel aveva ragione, ma il ricordo dei cuccioli uggiolanti faceva troppo male e la faceva sentire un verme.

Antel si alzò e la aiutò a farlo. La squadrò da capo a piedi e sorrise.

In effetti, non era nelle migliori condizioni, anche se, per lui, era uguale a sempre: una canottiera più larga della sua misura, un paio di pantaloncini corti, scarpe da ginnastica luride e scucite, gomiti, viso e ginocchia sporchi di terra e il solito berretto con la visiera rivolta all'indietro.

Un vero e proprio maschiaccio!

Camminarono uno di fianco all'altro per un po', finché non raggiunsero il giardino di Joe.

Lo trovarono seduto sull'erba a contemplare le nuvole.

Joe aveva due anni in meno di Felce, i capelli castano scuro e gli occhi due pozzi neri. Appena vide i due amici sedersi al suo fianco, la sua espressione si aprì in un largo sorriso.

Felce pensò che fosse fortunato. Aveva solo sei anni e ancora non poteva capire che cosa voleva dire “molto tempo”. La guardava raggiante, come sempre. Forse nemmeno sapeva che fosse proprio quello il giorno della partenza.

Antel la guardò, rivolgendole un triste sorriso. Lui, invece, capiva benissimo.

Felce era consapevole di quanto sarebbe stato difficile allontanarsi da loro due. Erano sempre stati un trio, fin da quando poteva ricordare. Erano cresciuti come fratelli e la gente del posto sorrideva sempre quando li vedeva passare.

Sapere che non sarebbe stato più così, le apriva un buco nel cuore.

    • Hai pianto? –

La domanda arrivò tanto improvvisa, quanto inattesa. Si asciugò in fretta gli ultimi residui di lacrime e si girò sorridente verso Joe. La guardava con aria curiosa e ingenua.

    • No, no! È il polline... – rispose, pensando che doveva avere gli occhi rossi.

Joe parve cascarci, perché sorrise sollevato. Magari nemmeno sapeva cosa fosse il polline.

Felce si guardò le ginocchia: erano nere di terra e piene di graffi rossi.

Pensò che non si poteva presentare a casa in quello stato, altrimenti la mamma chi l'avrebbe sentita?!

Una voce la chiamò dall'altro capo del prato, dietro di loro. Girandosi vide sua zia agitare un braccio, facendole segno di seguirla.

Era arrivato il momento. Doveva andare. Si alzò in piedi, ma una folata di vento la investì strappandole il berretto dalla testa. Una lunga cascata di capelli castani le ricadde sulla schiena, fino all'altezza del fondo-schiena.

Rimase a osservare il capello volteggiare nell'aria, mentre i capelli le turbinavano intorno al viso, ma non cercò di prenderlo.

Anzi, rise e sollevò un braccio, agitandolo. – Va bene, vento! Tienilo come mio ricordo, così avrai la certezza che un giorno ritornerò per riprenderlo! –.

Si girò verso i due amici e li salutò. – Ora devo andare... –.

Antel e Joe si alzarono e le presero ognuna una mano, avviandosi insieme verso zia Zara.

 

Arrivati davanti alla casa, vide che era venuto l'intero vicinato a salutarli.

Senza che ci potesse fare niente, si ritrovò in mezzo a una marea di gente che l'abbracciava e le baciava le guance, scompigliandole i capelli. Non aveva avuto tempo di rassettarsi e vide di sottecchi la madre fare una smorfia.

Erano le tre del pomeriggio e tutto era pronto. Il camion dei traslochi era già partito e i genitori erano in macchina che l'aspettavano.

Abbracciò forte Antel e Joe, cercando di non piangere assolutamente.

    • Cerca di tornare presto, ok? – le disse il primo.

    • Va bene, An. Cercherò di fare del mio meglio. –

    • Dove vai? – le chiese Joe.

    • Vado in città per un po'. –

    • Ma poi torni? –

Si sforzò di sorridere. – Certo, sciocchino! –.

Il clacson della macchina suonò. Era proprio ora di muoversi.

Li salutò ancora e salì, chiudendo la portiera. Quando partirono, vide distintamente i bambini correre dalla parte opposta, giù per un sentiero di sterpaglie.

La macchina sterzò a sinistra, in fondo all'incrocio, immettendosi nella strada principale. Poco più avanti videro sbucare sulla carreggiata i due bambini, che continuavano a correre nella loro stessa direzione.

Felce abbassò il finestrino e quando l'auto li superò, lanciò un unico, lungo grido. – CIAAOOO!!! –.

Li vide continuare a correre, agitando la mano verso di lei, finché non divennero due puntini all'orizzonte.

Due lacrime, le ultime, le rigarono le guance.

Vide la campagna allontanarsi sempre di più, insieme ai boschi, il lago, i lupi e tutti quelli che conosceva. Un giorno sarebbe tornata.

Lo aveva giurato. Sapeva che l'unico posto che poteva definire “casa” era quello.
 

  
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