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Autore: Lies_Of_My_Mind    12/03/2013    0 recensioni
La nostra porta d’ingresso è piccola e scrostata e dai buchi nel legno non si riesce a scorgere niente di niente poiché dall’altro lato, quello che dà sullo sgabuzzino dei signori Leinmark, è stato posto un grande scaffale di metallo, pesante come venti uomini.
In casa nostra non si può parlare durante il giorno, se non quando, dalle due ed un quarto del pomeriggio fino alle quattro, la signora Leinmark si dedica alle pulizie, quando il rumore dei mobili spostati e delle suppellettili della cucina coprono il suono delle nostre voci
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali, Olocausto
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* Storia partecipante al concorso, a livello scolastico, "Arte di Parole". Traccia "L'attesa".

 

 

 

 

Tempo per Vivere, Tempo per Piangere

 

 

 

 

È un piccolo appartamento il nostro. Una sola stanza per ospitare una famiglia di tre persone, ma non c’è da lamentarsi.

Al numero 10 di StellinStraße, all’angolo con BorkumStraße, risiediamo in un alto palazzo dai colori cupi e l’intonaco rovinato dal tempo.

Non è una casa normale la nostra: per entrarvi non si deve passare da un portone né suonare ad un citofono.

Non abbiamo finestre se non un piccolo oblò nell’angolo in alto a destra dello stretto cubicolo che funge da bagno. È proibito passarci davanti e la tendina deve sempre rimanere tirata.

La nostra porta d’ingresso è piccola e scrostata e dai buchi nel legno non si riesce a scorgere niente di niente poiché dall’altro lato, quello che dà sullo sgabuzzino dei signori Leinmark, è stato posto un grande scaffale di metallo, pesante come venti uomini.

In casa nostra non si può parlare durante il giorno, se non quando, dalle due ed un quarto del pomeriggio fino alle quattro, la signora Leinmark si dedica alle pulizie, quando il rumore dei mobili spostati e delle suppellettili della cucina coprono il suono delle nostre voci.

Zelda Leinmark ci impiega sempre moltissimo a fare le pulizie di casa, e quando lava i piatti fa sempre in modo di metterci più foga possibile, e per questo noi le siamo grati.

La musica ormai è un lontano ricordo e la radio non viene accesa da quasi tre settimane.

Non ci arriva posta e mia madre ed io non andiamo a fare la spesa da un mese, mentre mio padre non è più andato al lavoro da quando siamo stati costretti a nasconderci.

Pankow è sempre stato un quartiere allegro, con tanti piccoli negozi colorati lungo tutta la via principale, giardini verdeggianti vicino alla scuola elementare ed una chiesa sempre gremita di persone sorridenti che chiacchieravano.

Nella mia stessa via abita la mia migliore amica Karole e ricordo che adoravamo percorrere tutto l’isolato in bicicletta o rincorrendoci facendo impazzire le anziane signore a cui sfrecciavamo di fianco. Sono ormai tre mesi che non vedo Karole, perché lei ha avuto la fortuna di nascere da padre e madre tedeschi, e non da un commerciante di tele ed un’insegnante ebrei.

Ho smesso di andare a lezione molto tempo fa, quasi nello stesso momento in cui mia madre è stata cacciata dalla sua scuola e mio padre ha dovuto scrivere a caratteri enormi “giudeo” sulla vetrina del negozio.

 

Abitiamo in questa stanza ormai da qualche tempo e mi sembra che le pareti divengano più basse e che si avvicinino ogni giorno di più, rendendo lo spazio sempre più angusto e soffocante.

Mamma e papà dormono su di un materasso, pieno di buchi e duro come il marmo, che i signori Leinmark hanno trovato nella discarica qua accanto.

Per me è stata riservato una vecchia brandina del cane di Mark, il loro figlio maggiore, con sopra un suo vecchio materasso. È molto più piccolo di quello dei miei genitori, ma anche più comodo, e papà ha insistito perché lo tenessi io.

La verità però è che nessuno riesce mai a dormire di notte.

L’aria estiva ha iniziato a farsi sempre più afosa, ed il fatto che non ci siano finestre rende l’ambiente ancora più invivibile.

La notte per le strade sentiamo abbaiare i cani pastori delle guardie notturne, ed a volte anche le loro voci sbraitare frasi sconnesse e minacciose. Le notti più terribili si sentono anche grida di uomini e donne catturati.

Spesso sento i miei bisbigliare fra loro nel buio della stanza; la mamma quando crede che io dorma, scoppia in lacrime e continua a singhiozzare fino al mattino.

Anche io a volte non riesco a trattenere il pianto, ma cerco sempre di non farmi sentire, soprattutto da papà, perché so che starebbe ancora peggio nel vedermi soffrire.

Sappiamo che è solo questione di tempo prima che qualche vicino si accorga del cesto di vimini pieno di cibo che la signora Leinmark porta ogni due giorni sul retro della palazzina, facendolo sparire in un buco nel muro dietro la scala antincendio del secondo piano, esattamente dove ci siamo noi.

Sappiamo che prima o poi qualcuno si accorgerà che dietro allo scaffale di ferro, nello sgabuzzino dell’appartamento del secondo piano del numero 10 di StellinStraße, c’è una porta scrostata dietro la quale abitano tre ebrei nascosti.

Sappiamo che prima o poi qualcuno inizierà a farsi delle domande.

“Dove sarà finito il signore distinto e sempre ben vestito che aveva il negozio di tessuti proprio all’angolo vicino alla chiesa?” “Come è possibile non essersi accorti, quando i poliziotti sono venuti a prenderli?” “Forse non sono mai stati trovati?”

È un’attesa lunga e terribile e ad ogni scricchiolio del legno vedo mia madre tendersi come una corda e le orecchie di mio padre quasi farsi più grandi per udire il più piccolo rumore.

In quei momenti tutto si ferma e noi smettiamo quasi di respirare.

Odio quei momenti. Odio questo vecchio legno che scricchiola notte e giorno e ferma il battito dei nostri cuori per interminabili minuti.

Odio le mie giornate passate a chiedermi cosa ne sarà di me nel momento in cui verremo catturati e a cercare di ricordare l’ultimo argomento studiato a scuola durante le lezioni di storia della signorina Hahn, rendendomi conto che a nessuno importerà mai se ricordo ancora le date di inizio e di fine della rivoluzione Francese, perché è solo questione di giorni e finirò a lavorare in un campo isolato e freddo, senza alcuna speranza di un domani.

Ma dopo tutto, chi ha ancora speranza di questi tempi? Io, la mia, ormai l’ho perduta da tempo.

Forse nel momento in cui ci hanno obbligato ad indossare la stella di David sugli abiti, o forse nel momento in cui al rabbino Caffaz è stato proibito di recarsi alla sinagoga per recitare la Minchah e leggere la Torah.

Forse quando la kippot di mio padre era stata bruciata da un ragazzino che era entrato nel suo negozio, qualche giorno prima che venissimo obbligati a nasconderci, o quando la mia Tanakh mi era stata rubata a scuola, l’ultimo giorno che avevo passato lì.

Era antica e di piccole dimensioni; mio nonno me l’aveva regalata quando ancora ero piccola e da allora l’avevo sempre usata per le mie preghiere senza mai utilizzare quella più nuova che usavano mia madre e mio padre. Aveva la copertina in pelle scura e le scritte erano vergate in oro, come il filo delle pagine.

Il giorno stesso in cui me la rubarono ne trovai i resti bruciati nel pomeriggio, proprio nel cortile davanti alla mia classe. La copertina era stata barbaramente strappata e gettata lontano, verso le cancellate.

Karole mi aveva detto di non preoccuparmi, che si trattava solo di stupidi scherzi fatti da ragazzini ignoranti ed irrispettosi, ma i piccoli scherzi di cattivo gusto via via si trasformarono in abusi e soprusi difficili da sopportare, ed ora noi ci ritroviamo qua, nascosti in un buco come topi impauriti, aspettando l’ora della nostra dipartita.

È strano come ti appaia così desiderabile una vita normale e tranquilla come quella che vivevi prima, una volta che essa ti è stata tolta. È strano come i dettagli più insignificanti ora mi appaiano così importanti e preziosi da ricordare, affinché non vada perso ciò che finora ho vissuto.

Una cioccolata con la mamma in Mühlenstraße il venerdì pomeriggio, o le passeggiate lungo il fiume Panke assieme alla zia Smyma e le lezioni di flauto con lo zio Jabneh.

Tutto sembra così lontano da apparire quasi sfocato, come se quei ricordi non facessero parte della mia vita, come se non li avessi vissuti io.

Eppure in questo momento mi sembra che l’unica cosa che sia possibile fare sia ascoltare le grida della gente, gli spari delle pistole o le raffiche delle mitragliatrici, gli allarmi antiaerei e il suono sordo e angosciante degli stivali di pelle che calpestano con rabbia e decisione il cemento duro della strada. Come potrei attaccarmi a dei ricordi così belli quando il presente incombe su di noi così vividamente, con tutti i suoi orrori?

Lo stesso suono che ora rimbomba nelle mie orecchie e sento distintamente arrivare dalla casa dei Leinmark. Sento la signora Zelda parlare concitatamente con qualcuno che non vuol sentir ragioni, qualcuno che si avvicina sempre più alla nostra porta scrostata.

Non mi serve volgermi verso mia madre per sapere che le lacrime hanno iniziato a scorrerle lungo le guance, che le sue mani tremanti hanno aperto con fretta la Tenakh per iniziare a leggere disperatamente una preghiera con voce rotta dal pianto.

So già che mio padre le ha circondato le spalle con un braccio per stringerla e darle forza e capisco  dal suo sguardo che vorrebbe abbracciare anche me, ma sa che farlo significherebbe rendere reale ciò che sta accadendo. Le loro voci, unite in preghiera, si alzano in singhiozzi stremanti come si alzano in grida le voci che risuonano al di là della porta e dello scaffale.

Non c’è tempo per piangere, non c’è tempo per pregare, non c’è tempo nemmeno per guardarsi negli occhi un’ultima volta, perché il tempo per vivere è ormai giunto al termine.

La porta si apre con violenza e con un boato infernale, le urla di mia madre di mio padre e della signora Zelda si fondono assieme ed è divenuto quasi impossibile distinguere l’una dall’altra.

L’abbaiare dei cani, gli ordini gridati e una sicura disattivata, tutto mi appare confuso ed i suoni rimbombano nelle mie orecchie come ovattati. Tutto accade in un solo secondo come in un film che scorre veloce.

Qualcuno mi stringe forte un braccio e mi sento strattonata verso l’uscita.

Non so se sentirmi presa in trappola o liberata: è tutto molto strano.

Volgo lo sguardo rimanendo incatenata a due occhi freddi come il ghiaccio, del colore del cielo in tempesta, ed in un attimo capisco che la mia preghiera è stata esaudita.

In quegli occhi leggo che finalmente tutto è finito, che finalmente non devo più temere gli scricchiolii infernali del legno del pavimento, i nostri sussurri troppo alti o le molle del mio materasso quando mi ci sdraio.

Niente più oblò con tende tirate o bagni in un catino d’alluminio, dove ogni goccia provoca un suono atroce che sembra possa sentirsi anche dall’altro lato dell’isolato.

Niente più vita segreta, niente più vita da reclusi o da fuggitivi, ma forse sarebbe meglio dire niente più vita e basta.

 

Finalmente l’attesa è finita perché, Rebekah Kach, sono venuti a prenderti.

 

 

  
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