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Autore: LeFleurDuMal    29/09/2007    25 recensioni
“Diamond Dust!” Gridò Camus, con la sua voce limpida e fredda, come a evocare quella nebbia d’argento e averla per sé. Hyoga la guardò e la trovò stupenda. Come luna sbriciolata. Come diamanti ridotti in polvere.
Il ghiaccio si incrinò. Il ghiaccio infrangibile della Siberia. Sotto la Polvere di Diamanti creata da Camus.
Poi, scricchiolando, si spezzò in due.

Neve è un tributo amorevolissimo a Hyoga e a tutta la “Siberian Family”, tirando dentro anche Milo che la completa, pur restandone nella sua Atene. Copre il periodo dell’addestramento del Saint di Cygnus in Siberia con Camus e Isaac - e con Milo che si intrometterà, appunto, qualche volta - dal suo arrivo fino al ritorno a Tokyo.
Di tanto in tanto capiteranno capitoli Shonen Ai / Yaoi più espliciti. Non mi sembra il caso di cambiare il rating generale della storia, poiché episodi simili saranno molto rari ( l'unico Shonen-Ai/ Yaoi previsto riguarda la coppia MiloxCamus, quindi, considerata la presenza marginale di Milo, si tratta di una percentuale davvero scarsa sulla fanfiction ), ma li indicherò laddove si presenteranno, capitolo per capitolo.
[Unica considerazione forzata: si parla del regista Evgenij Bogratjonovic Vachtangov. In realtà Vachtangov muore mel 1922, quindi diversi anni prima della nascita di Hyoga. Gli ho DECISAMENTE allungato la vita. A voi, ora, decidere se ne è valsa la pena.]
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aquarius Camus, Cygnus Hyoga, Kraken Isaac, Scorpion Milo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO: Come a Mosca

PERSONAGGI: Hyoga.  Poi: Natassia e altri.

IN PROPOSITO: Arrivo di Hyoga in Siberia dal Giappone. Aspetta di incontrare quello che sarà il suo maestro, intanto, ovviamente, viene assalito dai ricordi.

 



Adesso la stanchezza gli gravava addosso come un cappotto pesante e fu senza accorgersene che si piegò sul tavolo di legno lucido, sporco di macchie di birra scura, forte, per incrociare i polsi pallidi sotto la fronte. Prima guardava la neve che scendeva fuori dalla finestra, in una danza muta e ovattata. Come quella di Mosca. Poi si era stancato.

Non alzò la testa nemmeno quando una ciotola di brodo caldo gli venne posata davanti e una mano di donna, intenerita, affondò tra i suoi capelli.

Percepì le proprie labbra sillabare, senza suono: “Mama…” e poi basta.

La donna che non era sua madre non sentì, ma come una madre gli rispose: “Mangia e scaldati, bambino mio.”

Poi lei si allontanò, ma senza staccare gli occhi da lui. Già per la terza volta Avrora si era avvicinata al fratello, che da vent’anni gestiva con lei la locanda di famiglia e gli aveva indicato il bambino al tavolo, quel bambino biondo e insignificante tra tutti gli uomini che cantavano canzoni sconnesse nell’allegria e nel calore del locale, quel bambino febbricitante piegato sul tavolo vicino alla finestra.

”Lascia che lo porti di sopra, Rudolf. Lascia che lo metta a letto e che possa riposare per un po’.”

“Lo sai che non è possibile. Deve aspettarlo qui.”

“Ma potrebbe arrivare tra ore.”

“Non importa. Hai già fatto quello che dovevi e anche di più. Non ci sarai quando rischierà la vita: così fai del male a lui e a te.”

Avrora tornò con lo sguardo al bambino biondo e febbricitante, piegato sul tavolo di legno lucido vicino alla finestra e si tormentò le mani. Avrora aveva una bambina più o meno della stessa età che l’aspettava a casa.

“Avrora. Non affezionarti.” Rudolf le aveva parlato con affetto, le aveva preso le mani, imponendo loro di non tremare, e l’aveva guardata con i suoi occhi buoni e tristi. “Non affezionati, Avrora. Non sono cose per te, ne hai solo da soffrire. Pensa alla tua piccola Katja e non ad altri.”
Aurora si lasciò convincere di malavoglia e almeno per i dieci minuti successivi non avrebbe tormentato Rudolf con altre richieste, probabilmente. Raccolse i boccali vuoti dai tavoli e li portò al bancone e ogni volta che coglieva l’immagine del bambino seduto al tavolo vicino alla finestra pensava alla sua piccola Katja e non ad altri.


L’odore del brodo si era fatto invitante e, poco a poco, aveva scalfito la barriera di dolore e stanchezza insinuandosi tentatore.

Hyoga alzò la fronte quel tanto che bastava per scrutare la ciotola davanti a lui.

Oltre il bordo fumante, l’allegria della locanda era quasi offensiva e faceva male alle orecchie. Troppo rumore. Troppa luce.

Allungò le mani e tirò a sé la ciotola, immergendovi il cucchiaio.

Fu costretto a sollevarsi dal tavolo per compiere quell’operazione e si guardò intorno furtivo, augurandosi che la donna non lo vedesse. Si sentiva a disagio nell’accettare quel dono, perché non sapeva come ricambiare.

Destino volle che Aurora passasse tra i tavoli proprio nel momento in cui Hyoga infilò il cucchiaio in bocca e gli rivolgesse un sorriso caldo.

Hyoga assunse un interessante color prugna.

Il viaggio da Tokyo era stato lungo ed estenuante. A ripensarci adesso riusciva a mettere in fila solo poche immagini dell’aereo che lo aveva portato lì e delle facce che nel viaggio lo avevano accompagnato. Si voltò a guardare la donna che passava tra i tavoli, come a volerla ricordare, perché anche il suo viso gli si sbiadiva nella mente con troppa velocità.

Gli aveva fatto togliere il cappotto pieno di neve, quando era arrivato, scortato dal copilota dell’aereo che era ripartito immediatamente. Gli aveva sorriso e gli aveva portato il brodo caldo.

Il volto di sua madre si era sovrapposto a quello di Avrora e per un momento, per un momento soltanto, era stato come tornare indietro ai suoi primi anni, quando consumava i suoi poveri pasti con lei, nelle cantine e nei seminterrati di Mosca.

 

“Natassia! Vieni che è caldo!” l’amica la chiama e Natassia prende per mano Hyoga e lo porta giù per le scale di metallo e di legno. Hyoga fa attenzione perché anche se conosce quelle scale, ha solo cinque anni e i gradini sono molto alti.

Sa che gli amici della mamma sono già seduti sui grandi cuscini rossi intorno al tavolo basso e che la cena è calda e gli piacerà, ma vuole restare di sopra sulle assi di legno a giocare con i costumi e le scenografie. Hyoga ci vuole giocare perché il regista, il vecchio Vachtangov, gli ha detto che non le deve toccare e un divieto rende le cose più gustose.

Il vecchio Vachtangov è malato e stanco, ma Natassia no, e il brillio negli occhi del figlio non gli sfugge. Chiede a Vachtangov se c’è una parte per il bambino nel suo teatro sperimentale. Il vecchio Vachtangov tossisce forte e sorride. Più avanti, Natassia bella, più avanti, le dice.

Hyoga fa i capricci, vuole giocare adesso, come la mamma e i suoi amici quando nelle sere fredde di Mosca la gente li viene a vedere recitare.

Natassia ride forte, coprendosi la bocca con la mano e se lo carica sulle spalle, correndo giù per i gradini di metallo e di legno e il vecchio Vachtangov segue più lentamente. Ride anche Hyoga e si tiene forte, e i suoi capelli biondi si confondono con quelli lunghi e bellissimi di sua madre. Ha nel naso il suo profumo.

Si siede tra lei e Igor e mangia la zuppa. Igor gli piace, perché lo fa giocare nel cortile, con la neve che scende in una danza muta e ovattata. Igor piace anche a sua madre e questo a Hyoga piace un po’ meno. Mentre mangia la zuppa, Igor si sporge sopra di lui e bacia Natassia all’angolo della bocca. Natassia ride e Hyoga si appoggia a lei. C’è la musica e contrasta con il silenzio ovattato di Mosca, fuori dal teatro.

 

Si morse il labbro inferiore a quel ricordo e spinse via la ciotola con tanta violenza da versare gran parte del brodo sul tavolo. Si sentì subito in colpa e si assicurò che Avrora non l’avesse visto.

Poi pianse perché aveva versato il brodo.

Pianse perché aveva pensato a sua madre.

E a Igor. E al vecchio Vachtangov.

Ma soprattutto pianse per sua madre. E pianse finché gli occhi non gli fecero male e non poté più guardare la neve morbida e fredda che scendeva, fuori dalla finestra, in una danza muta, ovattata.

Come quella di Mosca.

Pianse fino a quando non si addormentò, sul tavolo di legno lucido, sporco di macchie di birra scura, forte, e del brodo che aveva rovesciato lui. Sognò di Igor, di Vachtangov che non voleva fargli toccare le scenografie e di sua madre, che rideva e lo prendeva sulle spalle. Sognò di essere ancora a Mosca. Sognò che ci fosse anche Avrora a portargli il brodo caldo e a toccargli la testa come aveva fatto.

Quando la porta si aprì, lasciando entrare l’aria gelida della Siberia nel nucleo tiepido e dorato che era la taverna, Hyoga dormiva piegato sul tavolo già da qualche ora, i capelli biondi sparsi sul viso a nascondere le labbra socchiuse e le palpebre incollate dalle lacrime e dai sogni crudeli. Non si accorse dell’uomo che entrò e che pretese, senza chiederla, l’attenzione di tutti.

Non vide Rudolf chinare il capo e tornare al bancone, né sentì il chiacchiericcio spegnersi e l’atmosfera farsi pesante. Non seppe che Avrora era uscita con passo svelto dalla stanza, per salire alle camere, e aveva pianto per la sua sorte oltre la soglia, cercando di pensare alla sua piccola Katja e non ad altri.

   
 
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