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Autore: FRC Coazze    13/03/2013    2 recensioni
La storia di un sogno. Semplicemente. Uno strano sogno... ma i sogni sono sempre strani, giusto? E a volte è difficile ricordarli, se non nelle piccole cose.
Genere: Angst, Sovrannaturale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Albus Silente, Severus Piton
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
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Ok, c'è qualcosa che non mi convince in questa storia, ma c'è sempre qualcosa che non mi sconquiffera in ciò che scrivo quindi potete tranquillamente ignorare questa affermazione :D

Il titolo è in francese, sì. Non chiedetemi perché, semplicemente mi è venuto così, lo trovavo appropriato alla storia. D’altronde, intitolarla "Il sogno di un bambino" non sarebbe stato esattamente la stessa cosa.

Buona lettura!






Rêve d’enfant

 
 

 

Correva. Correva verso quella figura lassù, stagliata contro il cielo dipinto dal vento come la macchia di una pennellata intraprendente.

Correva e sul suo volto il sorriso si allargava ad ogni passo, la gonna tenuta appena alzata che sfiorava l’erba di quel prato, in quel paesaggio onirico che le accarezzava le gote.

Quel colore indaco che invadeva il sole. Bolle d’argento che aleggiavano in quell’aria lilla come angeli raccolti. E quella figura silenziosa, il suo nero che cresceva in spirali dall’erba sfiorata dal vento, arrampicandosi nel cielo come un’edera notturna. I fiori non toccavano quelle spalle. Le polle di luce rifuggivano le linee morbide di quei capelli castani, perduti tra le moine del vento.

Non era possibile. Lui. Come poteva lui essere lì? Eppure… eppure lei correva. Correva verso di lui, gli occhi illuminati da quel nero, nel cuore e nella gola un solo nome.

«Tobias!», chiamò. La voce baciata e rubata da quel vento che tutto abbracciava.

Vide la figura nera muoversi appena. Il suo capo voltarsi lentamente ed in quel movimento abbandonare il velo nero che lo nascondeva. La luce di quel sole, di quel vento, pulirono quei lineamenti dalla fuliggine dell’ombra, ma non poterono colorare quegli occhi dove il nero si accucciava in un ringhio sommesso. Ma il sorriso che addolciva quelle labbra cancellava ogni ombra. A lei bastava. A lei bastava quel sorriso.

Lui era là, fermo, stoico… eppure sorridente, quel sorriso che riusciva nella sua lieve curva ad afferrarla con forza e trascinarla a sé, e lei si lasciava accompagnare.

La sua corsa, quel suo essere trascinata come un piccolo pesce catturato dall’amo duro e dolce del pescatore, ebbe fine di fronte a lui, su quella bassa collina. Lui la guardava in silenzio, il sorriso ancora lievemente visibile sulle sue labbra sottili. Lei lo guardò. Era strano. Conosceva quei lineamenti affilati, quegli occhi neri e profondi, li conosceva molto bene, eppure non era così che li ricordava. Quel volto, quegli occhi, sembravano essere stati strappati a forza dalla realtà e gettati malsanamente in un mondo fantastico dove anche la cosa più meravigliosa era terrificante, e la figura di quell’uomo, che lei credeva di conoscere, pareva come rapita e incollata malamente su quel paesaggio che sembrava tentare di sputarla fuori dalla tela onirica di quello strano quadro.

Eppure lui le sorrideva. Le sorrideva dolcemente.

Non capiva. Quegli occhi la guardavano come non l’avevano mai guardata. Non c’era l’amore sincero e vivace che aveva visto così tante volte sotto la luce di un sole splendente... ragazzi, sdraiati sull’erba. Il sorriso stesso era malsano. Dolciastro, non dolce, come il gusto forte del miele d’acacia... e come da quella stessa pianta esso aveva rapito i fiori bianchi e fragranti e allo stesso tempo le lunghe e imperturbabili spine.

«Eileen», pronunciò il suo nome lentamente, la voce che raschiava contro un invisibile muraglia di rovi che lo separava da lei. «Ricordi questo posto?», le chiese poi tranquillamente, eppure con una strana amarezza a macchiargli la voce profonda.

Lei aprì le labbra, ma nessuna voce ne uscì.

«Ricordi?», la incalzò lui, ed i suoi occhi scintillarono al di là di quello strano velo che li divideva. Lei lo guardò ed improvvisamente ebbe paura: quello era suo marito? Perché quell’ondata di caldo deturpava il suo volto? Perché quegli occhi scuri galleggiavano in una macchia di colore informe che si dibatteva nell’aria come una medusa morente?

«Sì», rispose e sentì la sua voce tremare mentre lasciava il caldo rifugio delle sue labbra, «ma è così diverso...»

Distolse un attimo lo sguardo dall’uomo e lasciò che i suoi occhi raggiungessero il sole. Non aveva mai visto quel sole, non era il sole che conosceva. Vide il bagliore indaco che lo pervadeva sfumare lentamente in un nero tetro e l’oscurità scendere sui campi sterminati oltre la collina, come un’orda di cavalieri dell’inferno nati dall’inchiostro della stele del tempo.

Il vento, prima gioioso e ribattente, si levò con un grido gelido, e prese battere le schiene curve degli steli d’erba con un flagello di cenere. Presto, tutto intorno a loro divenne grigio.

Eileen tremava per il freddo. Si strinse forte le braccia intorno al corpo in cerca di un po’ di calore. Ebbe paura.

«Tobias?», fece titubante.

Si voltò verso di lui. Le dita del freddo si insinuavano nei suoi occhi e ne strappavano le lacrime una ad una. Sentiva le guance bruciare per gli schiaffi sempre più violenti del vento. Il cuore soffocava nella cenere del crepuscolo, laggiù, dentro di lei.

Rimase sconcertata. Forse era la calotta di ghiaccio che le invadeva gli occhi ad ingannarle la vista... forse era quel vento che odorava di morte... o la luce nera e opaca di quel sole di carbone... eppure, quell’uomo che ora stava guardando non era Tobias, seppure ci somigliasse molto. Sembrava molto più giovane e allo stesso tempo molto più vecchio. L’immagine di un giovane magro con i lunghi capelli neri si sovrapponeva a quella di un vecchio, curvo per gli anni e le fatiche. Erano due eppure uno solo. E guardavano ad ovest, lontano, verso quel mefistofelico sole che pareva irriderli e allo stesso tempo chiamarli.

Eileen si portò una mano agli occhi cercando di scacciare quelle lenti illusorie che il vento si ostinava a porle sugli occhi. O che, per lo meno, lei lo credeva.

«Chi sei?», disse, ma la sua voce era un sussurro divorato dal ruggito erubescente del vento. Un’interrogazione a sé stessa, quando i suoi occhi non sapevano darle risposta.

Lui le rivolse un sorriso sghembo, una luce zampillò nei suoi occhi neri. «Non lo sai?»; sembrava amareggiato dacché la donna di fronte a lui gli aveva posto quella domanda.

Lei lo guardò, spaesata, mentre attorno a loro il mondo precipitava nella follia del vento, incapace di trattenerne il fragore. Il sole si deformava nel cielo come una polla d’acqua sospesa nell’aria, in quel colore oscuro che tutto dipingeva di paura e morte. Eppure, in quel vortice di terrore, il ragazzo di fronte a lei sembrava inalterabile, la sua presenza la preservava dal mondo alterato e disgustoso che li circondava. Quei suoi occhi neri erano gli ingressi di un sentiero verso la luce.

Si guardavano sospesi in un una bolla di silenzio dove le urla blasfeme del vento non erano che i lamenti di un animale morente. Ma quell’animale morente era il giovane che aveva di fronte. Eileen lo vide appassire lentamente, come un fiore colto e lasciato a marcire là dove quel sole ghignava divertito dalle danze e dalla violenza del vento di fuoco. Gli occhi del giovane brillarono, mentre il vento lo afferrava con forza, dilaniandone le membra mentre creature dell’ombra si facevano avanti strisciando deliziate dall’odore del sangue.

Severus vide sé stesso sorridergli, mentre i soldati mostruosi del sole oscuro lo trafiggevano.

«Perdonami...» disse il giovane, «non dimenticare chi sono».

Severus guardò sconvolto quell’unica lacrima lasciare l’occhio di sé stesso mentre il sorriso ancora risplendeva su quel volto, un sorriso di speranza, un sorriso fiducioso. Vide la spada di quel sole terribile calare dal cielo e trafiggere il petto del giovane. E poi luce. Una grande luce.

Severus chiuse gli occhi, incapace di sopportarne il furore. Un dolore lancinante gli squarciava il petto mentre fiotti d’indaco scaturivano dalla ferita. Urlò. Urlò ancora fino a che le sue grida sovrastarono quelle del dolore. Poi... silenzio e carezze.

Sensazioni bussarono alle sue palpebre e lui rispose. Il vento macellaio era svanito, un nuovo vento soffiava. Un vento dolce, gentile, nuovo. L’erba umida gli accarezzava le ginocchia e leniva il suo dolore con acqua cristallina. Il sole sorrideva benigno dal cielo su quelle colline fresche, giocando con gli acheni bianchi che facevano piroette nell’aria.

Gli occhi di Severus erano umidi. Rugiada sonnecchiava tra le sue palpebre coccolata dal silenzio. L’indaco era scomparso. Il nero lo aveva seguito. Ogni colore era nuovo alla luce di quel sole.

Severus alzò gli occhi verso l’orizzonte. Non v’era più dolore in lui, né incertezza, né rabbia solo una immensa, dolcissima calma. Si chinò a terra e le sue dita strapparono con delicatezza una piccola margherita che brillava d’argento tra l’erba. Il vento gli sussurrò il suo nome.

Severus...

«Severus...»

«Severus, svegliati!»

I suoi occhi si aprirono di scatto. La sua schiena scattò ritta con forza, spezzandogli il respiro.

«Severus, piano...»

Riprese lentamente fiato, respiri profondi che massaggiavano i suoi polmoni doloranti. I suoi occhi rimasero puntati sulla coperta che copriva le sue gambe. Era confuso... dov’era il sole? Dov’era l’erba? Dove... guardò la sua mano destra e la trovò vuota. Vuota... no... dov’era? Cominciò a cercare furiosamente tra le pieghe della coperta, ma... una mano gli sfiorò tiepidamente la spalla. Severus si fermò. Sentiva le lacrime pizzicargli gli occhi, mentre la disperazione lentamente, con deferenza, lo lasciava.

«Severus...»

Il giovane deglutì e si prese il volto tra le mani, mentre la presa sulla sua spalla si faceva più ferma. Respirò profondamente. Il prato era svanito per lasciare il posto ad un morbido divano. La freschezza del vento si era congedata di fronte al calore di uno scoppiettante caminetto. E la margherita... la margherita non c’era più, ma accanto a lui c’era qualcuno alla fermezza della cui mano poteva appoggiarsi.

«Albus...» disse con voce roca, alzando il volto verso il vecchio mago seduto sul divano di fianco a lui.

Silente gli sorrise dolcemente, come non si tratteneva mai di fare di fronte a lui. «Lieto di riaverti tra noi, ragazzo», disse.

Severus non gli rispose. Aveva la bocca impastata e la mente troppo lontana per dar voce ad una risposta. Silente parve comprenderlo e, con un lieve gesto della bacchetta, fece comparire un bicchiere di acqua fresca sul tavolino da tè.  La passò a Severus con un sorriso.

Il giovane aveva le mani tremanti e riuscì a stento ad afferrare il bicchiere di vetro, ma il freddo di un primo sorso parve riuscire a riscuoterlo completamente, risvegliando la sua mente con numerosi schiaffi alla gola ed allo stomaco.

Bevve mezzo bicchiere, lasciando che l’acqua lavasse via la paura e l’angoscia e portasse nuova chiarezza nella sua mente. Ogni sorso una nuova realizzazione. Era nel suo salotto, si rese conto. Nel suo salotto, nei sotterranei di Hogwarts, sdraiato sul suo divano e scaldato dal suo caminetto. La sua camicia bianca era madida di sudore e si appiccicava fastidiosamente alla sua pelle. Anche la fronte era madida di sudore. Sentì la mano di Silente scostargli le ciocche di capelli bagnati dalla pelle.

Dopo un ultimo, breve sorso, Severus alzò gli occhi verso di lui.

«Perché sono qui?» gli domandò, spaesato.

Le sopracciglia cespugliose di Silente fecero un balzo sulla sua fronte rugosa. «Ah, dovresti dirmelo tu», gli rispose prendendo il bicchiere dalle sue mani e riponendolo sul tavolino.
«Io...» disse Severus, con una smorfia, «non mi sento molto bene».

Silente sorrise di sghimbescio accendendo la lucina divertita nei suoi occhi azzurri. «In tredici anni, Severus, in cui ho potuto beneficiare dei tuoi talenti didattici non mi è mai accaduto di trovarti sdraiato febbricitante sul divano alle sette di sera. Quindi suppongo di sì: non ti senti molto bene».

Severus lo guardò cupo. Gli sembrava di avere la testa in una bottiglia e i brividi di freddo, lentamente, cominciavano a prendere possesso del suo corpo. Ebbero, però, la strana facoltà di risvegliare in lui i ricordi delle ore precedenti. Non particolarmente piacenti ricordi.

Ricordò di aver passato il tardo pomeriggio a correggere i compiti e poi di essersi sentito male. Collegamento causa effetto particolarmente lineare e logico, trattandosi dei compiti dei Grifondoro e dei Tassorosso del quarto anno. In ogni caso, ricordò di aver messo da parte quelle pergamene e di essersi trascinato verso l’armadietto dove teneva le pozioni di più frequente o necessario uso e di aver bevuto qualcosa contro la nausea e di aver poi cercato di trascinarsi verso il bagno, inutilmente perché era riuscito appena a buttarsi sul divano prima di svenire.

«Conoscendoti, mi sono trattenuto dal chiamare Poppy. E mi sono preso la libertà di accomodarti meglio», gli disse Silente, come se avesse seguito passo a passo i ragionamenti nella sua mente. «Anche se ho paura di non essere riuscito ad accomodare quel che hai nella testa. Hai urlato poco fa».

Severus abbassò un attimo lo sguardo. Il dolore lancinante di quella spada che gli perforava il petto gli invase i pensieri. Un’ondata di nausea lo squassò e fu costretto a piegarsi in due in avanti. Silente gli afferrò prontamente le spalle. La sua mano cominciò a massaggiare adagio la schiena di Severus che, lentamente, si rilassò, la nausea che sfumava via ad ogni cerchio fatto dalla mano del preside. Anche il ricordo di quel dolore svanì a poco a poco, imbavagliato e smussato dal calore di quella mano.

«Puoi raccontarmi?» Albus domandò tranquillamente, quasi in un sussurro. I suoi occhi sondavano il giovane senza fretta, senza durezza, invitandolo semplicemente a parlare.

Severus scosse appena il capo.

«Non...» disse, «non ricordo...». Ed era vero, per quando cercasse di collegare logicamente le immagini che si dibattevano come gatti selvatici nei vicoli della sua mente, non ci riusciva.
Albus gli sorrise. «Parlami di ciò che ricordi», lo invitò dolcemente.

Severus alzò allora gli occhi verso di lui. Non sapeva esattamente cosa dire... era stato tutto così strano... tutto così... incomprensibile.

«Io...», cominciò, «c’era un prato». Si fermò, pensieroso, ripercorrendo con la mente i sentieri del sogno.

«Vai avanti», lo spronò incuriosito Silente.

«Io... ero mia madre e c'era mio padre, ma poi... poi lui è diventato me... me più giovane e tutto ha cominciato a diventare oscuro, il sole era come fosse malato e il vento spazzava tutto. Io e me stesso eravamo come sospesi in un vortice... io ero io e non più mia madre», Severus poggiò il viso alle sue mani come a cercare di ordinare con le dita bianche i pochi tasselli chiari che quel sogno gli aveva lasciato. Silente tacque, le rughe del suo viso si approfondirono nella concentrazione. «Ho visto me stesso morire, ma in realtà ero io a morire...», continuò Severus.

«Mi ha chiesto scusa, di non dimenticare chi fosse... il dolore e poi... poi il prato, e tutto era fresco, era bello allora. Non lo so... non ricordo altro. Ho raccolto una margherita, poi mi sono svegliato». Severus alzò gli occhi verso Albus e il preside parve vedere quelle pupille nere focalizzarsi di nuovo sulla realtà dopo essere state perdute nei meandri dell’onirico.

«Era quella margherita che cercavi, prima?», gli domandò Silente.

Gli occhi di Severus si fecero allora cupi e la sua lingua si impastò di veleno: «Non è divertente, Silente», gli disse.

Silente parve divertito da quelle parole. Ridacchiò e gli disse: «Non temere, non dirò a nessuno che ti sei svegliato tutto sudato cercando una margherita».

Severus lo fulminò con lo sguardo. Era troppo stanco e si sentiva troppo male per rispondere a tono a quell’osservazione. Il senso di nausea continuava a premere contro la sua gola lanciando grida di furore che rimbombavano nelle sue tempie. I brividi di freddo sembravano rispondere ubbidienti alla chiamata della febbre. Albus sorrise e tacque, riconoscendo che il ragazzo aveva bisogno di stare tranquillo e di riposare... almeno per un po’.

«Riposa, Severus», gli disse allora, «i sogni sono parte di ognuno di noi, dovremo sempre farci i conti, anche se, mea culpa, ti ho rovinato il finale. É così?».  Sorrise.

Severus lo guardò di traverso e fece una smorfia: «Tu rovini sempre i finali, Albus», gli disse acidamente. La vista cominciava a farsi pesante, mentre il sonno avanzava per riprendere possesso di quelle schegge di notte che credeva gli appartenessero.

«Oh lo so, Severus. Lo so...», Silente sorrise.

«Ti sarei grato se andassi a rovinare i finali a qualcun altro, ora», gli disse Severus, invitandolo con non molta finezza a lasciarlo.

Albus annuì soltanto. Si alzò, quindi, e, in silenzio, si allontanò dal giovane. Un ultimo buonanotte fu il suo unico congedo e Severus lo osservò allontanarsi. Attese che la figura del preside fosse svanita oltre la porta del soggiorno e che il clac leggero della serratura si fosse fatto sentire alle sue orecchie, come a confermare che il vecchio mago se ne fosse davvero andato.
E allora, Severus si coricò di nuovo, appoggiando il capo sul cuscino del divano. Non aveva né la forza né la voglia di spostarsi nel letto.

Il buio lo colse di nuovo, ma quel prato e quel sole non tornarono. Sprofondò in un sonno silenzioso, che guardava con sospetto ed ira i piccoli sogni che osavano avvicinarglisi tremebondi. Sebbene, però, non si possa ricominciare a vivere un sogno, la pace di quelle colline non morirà nel ricordo e un giorno, chissà, potrebbe capitare di risvegliarsi in quel prato con una margherita in mano.

Buonanotte, Severus. 

 
  
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