Her,
Him, Us
Their
POV
Lei aveva la brutta
abitudine di guardarsi intorno.
Sì, si
guardava intorno, alla ricerca di qualche particolare sfuggito, di
qualche sorriso inaspettato, di qualcosa per cui sentirsi sollevata da
quella
cappa di grigio che si sentiva pesare sulle spalle da troppo tempo. Con
un paio
di cuffie bianche e arancioni perennemente nelle orecchie, le canzoni
più
disparate a spaccarle i timpani, aveva sempre il naso quasi appiccicato
ai
finestrini dei treni, a osservare il paesaggio che le si stagliava
davanti.
Lui era stanco,
stanchissimo. Stanco del lavoro, stanco dell'università,
stanco delle ragazze.
Stanco di tutto,
sì. E disilluso, ormai: ne aveva viste di tutti i colori,
di cotte e di crude, di ogni genere e dimensione. Non poteva
più sopportare
l'idea di non riuscire più a sorprendesi di nulla. E odiava
il fatto di non
avere più nemmeno il tempo di ricominciare a farlo.
Si incontrarono per
caso.
Lei era trafelata, e
in ritardo. Ovviamente.
Non riusciva a capire perché, una buona volta che era
arrivata in orario, né il
prof né i suoi compagni si fossero fatti vedere.
Che abbia sbagliato
aula?
E si era messa a
correre.
Lui era annoiato, e
rinchiuso in un minuscolo ufficio che minacciava, ogni
giorno sempre di più, di soffocarlo.
Molte persone gli
scorrevano davanti, a volte sorridendogli a volte
ignorandolo; pochi erano sinceri con lui; per i più,
comunque, era soltanto
tranquillamente invisibile. Ci aveva fatto l'abitudine, a dire la
verità. Lo
ricercava quasi, l'anonimato.
La porta si
aprì.
Lei si
guardò intorno, spaesata solo per un battito di ciglia prima
di
dirigersi a passo determinato verso il piccolo ufficio in fondo al
corridoio.
Lì avrebbe trovato qualcuno in grado di aiutarla, ne era
certa.
Sbirciando
all'interno dalla porta socchiusa, vide un ragazzo. Sembrava in
forma, ma non poteva esserne sicura perché era seduto, e non
l'aveva notata.
Indossava un maglione nero, che faceva coppia con i suoi capelli, e una
sciarpa
rossa.
Lui era chino su una
pila di fogli che le sue colleghe gli avevano
sbolognato senza troppe remore, e la suddetta pila lo osservava ostile,
come se
lo stesse sfidando a rimettere in
ordine
il marasma di documenti, quando sentì una voce chiamarlo.
«Scusami, ma oggi
c'è
lezione nell'aula L6?».
Lui
aveva alzato lo sguardo e un paio di occhi scuri lo
fissavano preoccupati.
Era
una ragazza con i capelli raccolti, praticamente
sepolta nel capotto grandissimo.
Aveva sorriso, quasi
in automatico.
Nessuno era mai
scontento
che non ci fosse lezione...
«Aspetta, controllo...».
Lui aveva
scartabellato le odiate scartoffie, quasi contento che si
rivelassero utili a qualcuno.
«Sì, ci
dovrebbe
essere il Dottor Sanchez, di spagnolo».
«Esatto! Ma non
c'è
nessuno nella sua aula!».
Era disperata.
Agitata. E di fretta.
Lo vedeva. La
invidiò, per un attimo. Ma solo per un attimo, prima di
riconoscersi in quella stessa espressione, nei suoi stessi modi: uno
specchio
perfetto di come si era sentito lui tre anni prima, quando era ancora
una
matricola, quando tutto era nuovo ed eccitante, e luccicava quasi.
Cosa darei per
sentirmi ancora così...
«Non c'è
un modo per
essere sicuri che ci sia lezione?».
«Posso provare a
chiamarlo...».
Lui lesse una
gratitudine immensa negli occhi di lei, e si decise a
comporre il numero.
Mentre la chiamava
si sviluppava, lei vide nello sguardo di lui, che teneva
il telefono contro un orecchio con l'ausilio precario della spalla, la
risposta
del prof.
«Capisco... Si
rimetta presto, Dottore».
La
guardò, e rimase colpito nel vedere il dispiacere immenso
che le
intristiva l'espressione.
«Mi dispiace, ma
è
influenzato... Ha detto che ha dovuto interrompere la lezione prima a
metà
perché non smetteva di starnutire».
«Ok...».
A quel punto, lei
aveva esaurito tutte le sue possibilità. Non le andava di
restare a deprimersi di fronte a quel ragazzo così gentile,
non le andava
nemmeno di prendere il treno e tornare a casa.
Sospirò,
rassegnata, ma riuscì a rivolgere a lui un sorriso. Lui non
meritava di risentire della sua sfortuna, ancora meno del suo stato
d'animo
ballerino: l'aveva davvero aiutata, in fondo. Il risultato non era
stato quello
sperato, ma questo non poteva di certo essere attribuito alla mancanza
di buona
volontà da parte sua.
«Grazie lo stesso e
scusa per il disturbo... Buona serata!».
«Anche a te».
Era rimasto a
guardarla voltare i tacchi e andarsene, lasciando dietro di
sè solo il suo cuore accelerato.
Lo aveva
ringraziato, nonostante avesse avuto solo brutte notizie per lei.
Non se lo aspettava.
E per questo, era stupito.
... Era stupito.
E tanto
bastò a riempirgli il cuore.
Il suo viso e quel
sorriso così caldo si impressero nella sua mente.
Grazie.
Sorrise, e non
riuscì a smettere di farlo per tutto il weekend.
---
Her’s
POV
Andare o non andare?
È questo
il mio dilemma.
Proseguire,
intentare, o lasciar perdere, procrastinare, in attesa che
un'altra si faccia avanti al mio posto?
Che bel modo di
rivisitare le più famose frasi del più famoso
melodramma
shakespeariano.
Davvero. Patetico.
Sono in piedi, sotto
un portico. Dietro di me, il Cortile dei Pini, uno
degli innumerevoli spazi che si aprono come piccoli giardini riservati
alla
popolazione studentesca.
Davanti a me, il
centro linguistico d'università.
Al contempo torva -
perché mi rendo conto di essere una perfetta codarda,
vigliacca e quant'altro si addice alla mia situazione di forzato stallo
- e
serena - perché finché non glielo chiedo, sono in
una botte di ferro foderata
di morbida gommapiuma in cui mi piace, più
del dovuto, rimanere accoccolata -, fisso la porta di vetro
smerigliato che
mi separa dal piccolo ufficio d'amministrazione in cui so che lui sta
facendo
una delle 150 ore pagate dall'università.
Diamine.
Lui.
Diamine.
Lui, il gigante di
due metri con il sorriso smagliante e la sciarpa rossa
che mi ha ossessionato fin da subito - visto e considerato che genere
di sogni
è stata in grado di produrre la mia mente perversa,
ispirandosi a quel
maledetto pezzo di stoffa brillante - mi sorrideva se incrociava il mio
sguardo, ma l'idea di rivolgermi la parola di sua sponte non gli
attraversava
nemmeno l'anticamera del cervello.
Un sorriso. Il mio. «Ciao».
Un sorriso di
risposta. Il suo. «Ciao».
Non dovrebbe essere
così difficile, proprio no.
Dovrebbe essere
semplice. Così maledettamente semplice che dovrei ridere,
per il fatto di non riuscirci.
Insomma, in
discoteca si rimorchia che è uno sballo, e io non sono
capace
di spiccicare quattro parole in croce a un ragazzo, nel mondo reale.
Che poi in discoteca
sia l'alcool a parlare, è un'altra storia: il discorso
rimane lo stesso.
Sono un'idiota.
Dio, sono un'idiota!
Dovrebbe essere
così fottutamente semplice, cosa devo fare, in fondo?!
Bussare, entrare, e
con un sorriso - possibilmente non inebetito - domandargli:
«Ti va di prendere un
caffè quando stacchi?».
Tre azioni e
un'espressione facciale in tutto.
Sì e no,
un miliardesimo dello sforzo che mi serve per sopportare un blocco
di quella noiosa snob della prof di storia contemporanea.
Sì e no,
un miliardesimo di emozioni in più confuse, confusionarie e
conturbanti di quante potrebbe mai, in tutta la vita e anche in quella
prossima, provocare in me quella noiosa snob della prof di storia
contemporanea.
Che angoscia.
E se lasciassi
perdere?
Come hai fatto tutte
le altre volte che ti interessava qualcuno, intendi?
Oh, rieccoti, vocina
della mia testa. Quasi mi mancavi.
Davvero?!
Ho detto quasi.
Ah.
Sai, è
una bella sensazione zittirti. Mi risolleva il morale.
Bene, e tu sai
un’altra
cosa? Sei una codarda e una vigliacca, oltre che una gran maleducata.
... Questo
è giocare sporco.
Che era esattamente
quello che hai fatto anche tu.
Ma tu non dovresti
essere dalla mia parte?!
Io lo sono! Per
questo motivo ti sto facendo incazzare. Così, per zittirmi,
farai esattamente
come dico io.
La tua logica fa
acqua da tutte le parti.
La classe non
è
acqua.
E questo che diavolo
c'entra?!
Non cambiare
discorso! Vai lì dentro e chiedigli di uscire. Tanto,
cos'hai da perderci? Solo
la faccia.
Eh, certo, vocina
mentale del cazzo. Tanto la faccia non è la tua, ma
è la
mia, che tra parentesi lui vede tutte la santissime sacrosante mattine
mentre
lo spio dallo spiraglio che la porta socchiusa mi concede per
assicurarmi che
la mia tabella mentale dei suoi turni sia stata rispettata; e se mi
dice no, grazie sarà
sempre e comunque mia la faccia che
continuerà a vedere
fino alla fine di questo stramaledetto anno accademico.
Appunto.
Diamine, vaffanculo,
stronza.
Wow. Tre parolacce,
e hai detto tutto. Stai migliorando. E sì, sono sarcastica.
Ma all'ennesima
potenza, però.
Grazie.
Beh, prego.
Sembra piccata, la
vocina. Forse l'ho indispettita. Beh, affaracci suoi.
No. Affaracci tuoi
vorrai dire.
Pensavo di essermi
liberata di te.
Hai cantato vittoria
troppo presto, carina.
Sbuffo. Carina?!
É
riuscita nel suo intento. Mi ha fatta incazzare sul serio, la maledetta.
E il bello,
è che sono incazzata con me stessa.
Proprio una cotta
con il segretario del centro linguistico dovevo
prendermi?!
Beh, se le premesse
implicano una certa lingua...
Vocina del cazzo,
giuro su ogni divinità che esiste e non che mi
libererò
di te, dovessi sradicarmi il cervello con un uncino dal naso, come
facevano gli
egizi nel processo di imbalsamazione.
Qual violenza a
cotanta intelligenza.
Non sono dell'umore
per fare il paio alle tue rime falsamente poetiche. E,
giusto per anticiparti, non sono tantomeno dell'umore per gli occhi a
cuoricino, oggi.
Nemmeno ieri. E
neanche il giorno prima. Tiriamo a indovinare sul perché,
carina?
La mia sadica vocina
sembra fare un sorriso da stronza smaliziata, mentre
io macchino disperatamente un modo per cancellarla dalla faccia
della... mia
mente.
E così,
prendo la decisione.
Senti. Entro, va
bene? E glielo chiedo. Ma tu devi sparire. Devi
assolutamente sparire o non riuscirò mai a concentrarmi e a
non balbettare o a
non tremare.
... Vuoi farlo
seriamente?
Sì. Credo.
... No, si impunta lei. Non mi basta!
Se potessi, urlerei
volentieri.
Dio, che cosa
stancante, avere una vocina nella testa che ti rema contro
ogni pensiero che ti capita di fare.
Non fare finta che
io non esista. Ti sento benissimo.
Anche io, per mia
sfortuna. E ora, taci.
Faccio un passo e
prendo un grosso respiro, prima di bussare e aprire la
porta.
Cosa..? Non ci
credo!
«Ciao», inizio, diventando
immediatamente rosso peperone.
E no, stavolta non
riesco a sorridere.
«Ehm, ciao», fa lui, senza
sorridere perché, appunto, non c’è
nessun
sorriso a cui rispondere. «Ti serve qualcosa?».
Sì. No.
In realtà, mi piacerebbe che tu vada a quel paese, per
quanto mi
stai rendendo le cose impossibili, e nemmeno te ne accorgi!
«Ecco, io...». Mi fermo. Prendo
un altro respiro.
Non mi devo fermare.
Se mi fermo è finita. Non mi devo fermare. Se mi
fermo...
Difficile. Troppo
difficile. Usare la scusa che mi sono studiata nel caso
le cose fossero finite in questo modo ridicolo è allettante,
invece.
Decisamente troppo allettante.
Il silenzio che si
frappone tra di noi come un muro mi impedisce di
ragionare con calma, e vado nel panico.
E quando vado nel
panico...
«Io... Scusa. Ti sto
disturbando. Non volevo disturbarti.
Scusa. Io... Vado. Ci vediamo», spiccico, veloce
come una scheggia, e altrettanto rapidamente sparisco oltre la porta
del suo
ufficio, il senso di imbarazzo e vergogna a prendermi violentemente a
schiaffi
in faccia... Non sarei in grado di
spiegarmi perché, altrimenti, mi sento andare a fuoco.
Sono scappata.
Dio, con che faccia
mi posso di nuovo far vedere da lui?
Con la stessa di
sempre, sussurra piano la
vocina, senza malignità.
Cerchi di
consolarmi, ora? Sei una doppiogiochista!
«Ehi!».
E allora mi infurio.
Come osi alzare la
voce con me, patetica versione psicopatica del Grillo
Parlante?!
Veramente, io non ho
aperto bocca. In tutti i sensi.
Fermo i piedi, che
dalla rabbia avevano cominciato a fare tanti, tanti
passi, uno più veloce dell'altro, e il resto si blocca,
paralizzato.
Il respiro, il
cuore, la corrente elettrica che corre ininterrottamente
nelle sinapsi da quando sono nata.
Tutto fermo.
Solo il sangue,
circola. Furioso, pure lui.
Altrimenti non mi
spiego perché mi sento andare ancora più a fuoco
di prima.
La conosco, quella
voce.
Ma non
può essere lui.
Ti prego. Fa che non
sia lui.
Mi volto.
Cazzo.
Sono finita
all'inferno, non c'è altra spiegazione.
«Ehi», mi raggiunge, e
sorride. Sorride. «Cavolo, sei una
scheggia! Per un attimo ho creduto che
non ti avrei raggiunta...».
È proprio
lui.
No, questa non
è la vita reale.
Questo è
un mondo parallelo. Evidentemente, devo aver inconsciamente
attraversato un portale dimensionale. Non può avermi
seguito, mollando
incustodito l'ufficio, solo per...
«Due settimane fa, ho
trovato questa nell'aula del centro linguistico...», continua lui. «Era per terra».
Solo ora mia accorgo
che ha il fiatone. Probabilmente ha corso, per
raggiungermi.
Realizzo la frase
che ho appena dedotto, e non sono più paralizzata, no.
Sono pietrificata.
Lui, ignaro, porge
delicatamente quella che sembra una catenina, di quelle
formate da piccole palline tonde. Vedo il pendente, e sbianco.
Ora, sono una statua
bianca, e pietrificata.
Una statua di sale.
È la mia
collana.
La cerco da giorni.
La collana che mi ha
regalato mio fratello, il mio meraviglioso fratello.
Mi sono sentita
persa, senza quella addosso.
«Come... Come..?», balbetto.
«Le altre ragazze
dell'ufficio mi hanno detto che per cercarla nella classe, fuori
orario, hai
fatto il diavolo a quattro», risponde alle mie
parole, intuendo anche quelle che restano impigliate tra cervello e
lingua,
perse in qualche limbo di solitudine e incompiutezza che ogni santa
volta che
provo a parlare con lui contribuisco a ingrandire. «Ce l'hai per vizio,
di scatenare il panico nel mio
ufficio», dice.
E ora, il suo
sorriso, mi sparaflesha.
Se lo ricorda.
Dio.
La mia faccia.
Se la ricorda.
Dio.
«Io... Io...», balbetto, di
nuovo. Vorrei dire qualcosa di più. Vorrei
essere più forte. Vorrei trovare il coraggio di chiedergli
di uscire con me. Lo
vorrei. Davvero.
«Mi dispiace», mi riprendo, alla
fine, mortificata come mai in tutta
la mia vita.
Con lui, e con me
stessa.
Scusa, vocina.
Niente, vigliacca.
C'é domani. E dopodomani.
Invece di farmi
nuovamente incazzare, la sua affermazione stranamente mi
rincuora.
«Ehi, tranquilla,
sono cose che succedono!», lui nel frattempo
cerca di consolarmi, ridacchiando però.
Mi sento sprofondare.
Due figure di merda
in poco meno di cinque minuti.
No, nemmeno io reggo
la vergogna, in questi casi.
Peggio di
così non potrebbe andare.
«Bene, allora io vado», mormora lui,
recependo che dalla mia parte non c'è
tutto il divertimento che ha smosso lui. «Torno in ufficio.
Altrimenti sarebbero di nuovo capaci di non pagarmi l'ora...». Sembra seccato,
ora, mentre non mi fissa e assume un'espressione
insofferente. «Ci vediamo», mi saluta, infine
con la mano e con un altro sorriso,
ma sembra abbastanza triste, questo sorriso.
«Grazie...», biascico. Non
riesco a fare di meglio.
Patetica. E io odio
essere patetica.
«Figurati!», esclama mentre si
allontana.
E si allontana.
E si allontana.
E si allontana.
... Non credo ci
sarà un domani, vocina. Probabilmente neanche un
dopodomani.
Lo avevo intuito,
carina, sospira lei.
Sicura, vocina del
cazzo?
«EHI!», urlo.
Lui si volta, e mi
fissa sorpreso.
«... Ti va di
prendere un caffè quando stacchi?!».
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Ahhh ora
sì che mi sento meglio :3 si sente che è giunta
la primavera anche
per me? XD
Cretinate a parte,
mi sono divertita parecchio a scrivere questa lunga
lunga one shot. È la prima che scrivo con una limitazione
del genere e concludo
volutamente così: con un finale totalmente aperto.
E, lo dico in
anticipo, NON ci sarà un seguito, né un continuo,
né uno
svolgimento né nient'altro che assomigli vagamente a un
altro capitolo di
questa... Storia?... finché anche io non uscirò
da quella botte di ferro in cui
mi trovo così comoda e al sicuro.
Non so quanto ci
vorrà, sinceramente.
Non é per
deludere o perché sono sadica quanto la vocina, ma vorrei
solo
che si capisca che la mia protagonista e io condividiamo lo stesso
difetto:
finché non siamo messe alle strette, non agiamo di nostra
iniziativa.
Finché
lui non prende le distanze, lei non agisce.
Finché
lui non si avvicina, lei non agisce.
La one shot non
é puntata sulla risposta di lui, è puntata sul
fatto che
lei supera il suo blocco; quanto le sia difficile, alla fine, ci riesce.
Sfortunatamente,
nella vita reale, è un po' più complicato, anche
se, in
fondo, dovrebbe essere tanto semplice quanto lo è stato per
la mia protagonista
- che poi, per inciso, sarei io.
Sono stata
autobiografica al massimo.
Sia per il ragazzo,
sia per la sciarpa, sia il per il ciondolo - che
davvero mi è stato regalato da mio fratello, ma che non ho
perso e Dio me ne
salvi dalla possibilità che succeda mai -, sia per il panico nella sua segreteria.
E ovviamente anche
per le figure di merda.
Le ultime due sono
ovviamente inventate, però le figure di merda le faccio,
indipendentemente dalla persona che ho davanti o da dove mi trovi.
Sbadataggine, mi dicono che si
chiama.
Sfigatezza cronica, la chiamo io.
Fatemi sapere che ne
pensate :D