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Autore: BlackBlueSoul    13/03/2013    2 recensioni
Un ufficio, due ragazzi, un ciondolo e una sciarpa rossa.
Lei. Lui.
Semplice, dite voi.
Dal testo:
"Non dovrebbe essere difficile. Dovrebbe essere semplice. Così maledettamente semplice che dovrei ridere, per il fatto di non riuscirci.
Insomma, in discoteca si rimorchia che è uno sballo, e io non sono capace di spiccicare quattro parole in croce a un ragazzo, nel mondo reale.
Che poi in discoteca sia l'alcool a parlare, è un'altra storia: il discorso rimane lo stesso.
Sono un'idiota.
Dio, sono un'idiota!
Dovrebbe essere così fottutamente semplice, cosa devo fare, in fondo?!
Bussare, entrare, e con un sorriso - possibilmente non inebetito - domandargli: «Ti va di prendere un caffè quando stacchi?»."
Buona lettura.
Genere: Comico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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Her, Him, Us

 

 

 

 

 

 

Their POV

 

 

 

Lei aveva la brutta abitudine di guardarsi intorno.

Sì, si guardava intorno, alla ricerca di qualche particolare sfuggito, di qualche sorriso inaspettato, di qualcosa per cui sentirsi sollevata da quella cappa di grigio che si sentiva pesare sulle spalle da troppo tempo. Con un paio di cuffie bianche e arancioni perennemente nelle orecchie, le canzoni più disparate a spaccarle i timpani, aveva sempre il naso quasi appiccicato ai finestrini dei treni, a osservare il paesaggio che le si stagliava davanti.

Lui era stanco, stanchissimo. Stanco del lavoro, stanco dell'università, stanco delle ragazze.

Stanco di tutto, sì. E disilluso, ormai: ne aveva viste di tutti i colori, di cotte e di crude, di ogni genere e dimensione. Non poteva più sopportare l'idea di non riuscire più a sorprendesi di nulla. E odiava il fatto di non avere più nemmeno il tempo di ricominciare a farlo.

Si incontrarono per caso.

Lei era trafelata, e in ritardo. Ovviamente. Non riusciva a capire perché, una buona volta che era arrivata in orario, né il prof né i suoi compagni si fossero fatti vedere.

Che abbia sbagliato aula?

E si era messa a correre.

Lui era annoiato, e rinchiuso in un minuscolo ufficio che minacciava, ogni giorno sempre di più, di soffocarlo.

Molte persone gli scorrevano davanti, a volte sorridendogli a volte ignorandolo; pochi erano sinceri con lui; per i più, comunque, era soltanto tranquillamente invisibile. Ci aveva fatto l'abitudine, a dire la verità. Lo ricercava quasi, l'anonimato.

La porta si aprì.

Lei si guardò intorno, spaesata solo per un battito di ciglia prima di dirigersi a passo determinato verso il piccolo ufficio in fondo al corridoio. Lì avrebbe trovato qualcuno in grado di aiutarla, ne era certa.

Sbirciando all'interno dalla porta socchiusa, vide un ragazzo. Sembrava in forma, ma non poteva esserne sicura perché era seduto, e non l'aveva notata. Indossava un maglione nero, che faceva coppia con i suoi capelli, e una sciarpa rossa.

Lui era chino su una pila di fogli che le sue colleghe gli avevano sbolognato senza troppe remore, e la suddetta pila lo osservava ostile, come se lo stesse sfidando a rimettere  in ordine il marasma di documenti, quando sentì una voce chiamarlo.

«Scusami, ma oggi c'è lezione nell'aula L6?».

Lui aveva alzato lo sguardo e un paio di occhi scuri lo fissavano preoccupati.

Era una ragazza con i capelli raccolti, praticamente sepolta nel capotto grandissimo.

Aveva sorriso, quasi in automatico.

Nessuno era mai scontento che non ci fosse lezione...

«Aspetta, controllo...».

Lui aveva scartabellato le odiate scartoffie, quasi contento che si rivelassero utili a qualcuno.

«Sì, ci dovrebbe essere il Dottor Sanchez, di spagnolo».

«Esatto! Ma non c'è nessuno nella sua aula!».

Era disperata. Agitata. E di fretta.

Lo vedeva. La invidiò, per un attimo. Ma solo per un attimo, prima di riconoscersi in quella stessa espressione, nei suoi stessi modi: uno specchio perfetto di come si era sentito lui tre anni prima, quando era ancora una matricola, quando tutto era nuovo ed eccitante, e luccicava quasi.

Cosa darei per sentirmi ancora così...

«Non c'è un modo per essere sicuri che ci sia lezione?».

«Posso provare a chiamarlo...».

Lui lesse una gratitudine immensa negli occhi di lei, e si decise a comporre il numero.

Mentre la chiamava si sviluppava, lei vide nello sguardo di lui, che teneva il telefono contro un orecchio con l'ausilio precario della spalla, la risposta del prof.

«Capisco... Si rimetta presto, Dottore».

La guardò, e rimase colpito nel vedere il dispiacere immenso che le intristiva l'espressione.

«Mi dispiace, ma è influenzato... Ha detto che ha dovuto interrompere la lezione prima a metà perché non smetteva di starnutire».

«Ok...».

A quel punto, lei aveva esaurito tutte le sue possibilità. Non le andava di restare a deprimersi di fronte a quel ragazzo così gentile, non le andava nemmeno di prendere il treno e tornare a casa.

Sospirò, rassegnata, ma riuscì a rivolgere a lui un sorriso. Lui non meritava di risentire della sua sfortuna, ancora meno del suo stato d'animo ballerino: l'aveva davvero aiutata, in fondo. Il risultato non era stato quello sperato, ma questo non poteva di certo essere attribuito alla mancanza di buona volontà da parte sua.

«Grazie lo stesso e scusa per il disturbo... Buona serata!».

«Anche a te».

Era rimasto a guardarla voltare i tacchi e andarsene, lasciando dietro di sè solo il suo cuore accelerato.

Lo aveva ringraziato, nonostante avesse avuto solo brutte notizie per lei.

Non se lo aspettava. E per questo, era stupito.

 

 

 

... Era stupito.

 

 

 

E tanto bastò a riempirgli il cuore.

Il suo viso e quel sorriso così caldo si impressero nella sua mente.

 

 

 

Grazie.

 

 

 

Sorrise, e non riuscì a smettere di farlo per tutto il weekend.

 

 

 

 

 

 

 

---

 

 

 

 

 

 

 

Her’s POV

 

 

Andare o non andare?

È questo il mio dilemma.

Proseguire, intentare, o lasciar perdere, procrastinare, in attesa che un'altra si faccia avanti al mio posto?

Che bel modo di rivisitare le più famose frasi del più famoso melodramma shakespeariano.

Davvero. Patetico.

Sono in piedi, sotto un portico. Dietro di me, il Cortile dei Pini, uno degli innumerevoli spazi che si aprono come piccoli giardini riservati alla popolazione studentesca.

Davanti a me, il centro linguistico d'università.

Al contempo torva - perché mi rendo conto di essere una perfetta codarda, vigliacca e quant'altro si addice alla mia situazione di forzato stallo - e serena - perché finché non glielo chiedo, sono in una botte di ferro foderata di morbida gommapiuma in cui mi piace, più del dovuto, rimanere accoccolata -, fisso la porta di vetro smerigliato che mi separa dal piccolo ufficio d'amministrazione in cui so che lui sta facendo una delle 150 ore pagate dall'università.

Diamine.

Lui.

Diamine.

Lui, il gigante di due metri con il sorriso smagliante e la sciarpa rossa che mi ha ossessionato fin da subito - visto e considerato che genere di sogni è stata in grado di produrre la mia mente perversa, ispirandosi a quel maledetto pezzo di stoffa brillante - mi sorrideva se incrociava il mio sguardo, ma l'idea di rivolgermi la parola di sua sponte non gli attraversava nemmeno l'anticamera del cervello.

 

 

 

Un sorriso. Il mio. «Ciao».

Un sorriso di risposta. Il suo. «Ciao».

 

 

 

Non dovrebbe essere così difficile, proprio no.

Dovrebbe essere semplice. Così maledettamente semplice che dovrei ridere, per il fatto di non riuscirci.

Insomma, in discoteca si rimorchia che è uno sballo, e io non sono capace di spiccicare quattro parole in croce a un ragazzo, nel mondo reale.

Che poi in discoteca sia l'alcool a parlare, è un'altra storia: il discorso rimane lo stesso.

Sono un'idiota.

Dio, sono un'idiota!

Dovrebbe essere così fottutamente semplice, cosa devo fare, in fondo?!

Bussare, entrare, e con un sorriso - possibilmente non inebetito - domandargli: «Ti va di prendere un caffè quando stacchi?».

Tre azioni e un'espressione facciale in tutto.

Sì e no, un miliardesimo dello sforzo che mi serve per sopportare un blocco di quella noiosa snob della prof di storia contemporanea.

Sì e no, un miliardesimo di emozioni in più confuse, confusionarie e conturbanti di quante potrebbe mai, in tutta la vita e anche in quella prossima, provocare in me quella noiosa snob della prof di storia contemporanea.

Che angoscia.

E se lasciassi perdere?

Come hai fatto tutte le altre volte che ti interessava qualcuno, intendi?

Oh, rieccoti, vocina della mia testa. Quasi mi mancavi.

Davvero?!

Ho detto quasi.

Ah.

Sai, è una bella sensazione zittirti. Mi risolleva il morale.

Bene, e tu sai un’altra cosa? Sei una codarda e una vigliacca, oltre che una gran maleducata.

... Questo è giocare sporco.

Che era esattamente quello che hai fatto anche tu.

Ma tu non dovresti essere dalla mia parte?!

Io lo sono! Per questo motivo ti sto facendo incazzare. Così, per zittirmi, farai esattamente come dico io.

La tua logica fa acqua da tutte le parti.

La classe non è acqua.

E questo che diavolo c'entra?!

Non cambiare discorso! Vai lì dentro e chiedigli di uscire. Tanto, cos'hai da perderci? Solo la faccia.

Eh, certo, vocina mentale del cazzo. Tanto la faccia non è la tua, ma è la mia, che tra parentesi lui vede tutte la santissime sacrosante mattine mentre lo spio dallo spiraglio che la porta socchiusa mi concede per assicurarmi che la mia tabella mentale dei suoi turni sia stata rispettata; e se mi dice no, grazie sarà sempre e comunque mia la faccia che continuerà a vedere fino alla fine di questo stramaledetto anno accademico.

Appunto.

Diamine, vaffanculo, stronza.

Wow. Tre parolacce, e hai detto tutto. Stai migliorando. E sì, sono sarcastica. Ma all'ennesima potenza, però.

Grazie.

Beh, prego.

Sembra piccata, la vocina. Forse l'ho indispettita. Beh, affaracci suoi.

No. Affaracci tuoi vorrai dire.

Pensavo di essermi liberata di te.

Hai cantato vittoria troppo presto, carina.

Sbuffo. Carina?!

É riuscita nel suo intento. Mi ha fatta incazzare sul serio, la maledetta.

E il bello, è che sono incazzata con me stessa.

Proprio una cotta con il segretario del centro linguistico dovevo prendermi?!

Beh, se le premesse implicano una certa lingua...

Vocina del cazzo, giuro su ogni divinità che esiste e non che mi libererò di te, dovessi sradicarmi il cervello con un uncino dal naso, come facevano gli egizi nel processo di imbalsamazione.

Qual violenza a cotanta intelligenza.

Non sono dell'umore per fare il paio alle tue rime falsamente poetiche. E, giusto per anticiparti, non sono tantomeno dell'umore per gli occhi a cuoricino, oggi.

Nemmeno ieri. E neanche il giorno prima. Tiriamo a indovinare sul perché, carina?

La mia sadica vocina sembra fare un sorriso da stronza smaliziata, mentre io macchino disperatamente un modo per cancellarla dalla faccia della... mia mente.

E così, prendo la decisione.

Senti. Entro, va bene? E glielo chiedo. Ma tu devi sparire. Devi assolutamente sparire o non riuscirò mai a concentrarmi e a non balbettare o a non tremare.

... Vuoi farlo seriamente?

Sì. Credo.

... No, si impunta lei. Non mi basta!

Se potessi, urlerei volentieri.

Dio, che cosa stancante, avere una vocina nella testa che ti rema contro ogni pensiero che ti capita di fare.

Non fare finta che io non esista. Ti sento benissimo.

Anche io, per mia sfortuna. E ora, taci.

Faccio un passo e prendo un grosso respiro, prima di bussare e aprire la porta.

Cosa..? Non ci credo!

«Ciao», inizio, diventando immediatamente rosso peperone.

E no, stavolta non riesco a sorridere.

«Ehm, ciao», fa lui, senza sorridere perché, appunto, non c’è nessun sorriso a cui rispondere. «Ti serve qualcosa?».

Sì. No. In realtà, mi piacerebbe che tu vada a quel paese, per quanto mi stai rendendo le cose impossibili, e nemmeno te ne accorgi!

«Ecco, io...». Mi fermo. Prendo un altro respiro.

Non mi devo fermare. Se mi fermo è finita. Non mi devo fermare. Se mi fermo...

Difficile. Troppo difficile. Usare la scusa che mi sono studiata nel caso le cose fossero finite in questo modo ridicolo è allettante, invece. Decisamente troppo allettante.

Il silenzio che si frappone tra di noi come un muro mi impedisce di ragionare con calma, e vado nel panico.

E quando vado nel panico...

«Io... Scusa. Ti sto disturbando. Non volevo disturbarti. Scusa. Io... Vado. Ci vediamo», spiccico, veloce come una scheggia, e altrettanto rapidamente sparisco oltre la porta del suo ufficio, il senso di imbarazzo e vergogna a prendermi violentemente a schiaffi in faccia... Non sarei in grado di spiegarmi perché, altrimenti, mi sento andare a fuoco.

Sono scappata.

Dio, con che faccia mi posso di nuovo far vedere da lui?

Con la stessa di sempre, sussurra piano la vocina, senza malignità.

Cerchi di consolarmi, ora? Sei una doppiogiochista!

«Ehi!».

E allora mi infurio.

Come osi alzare la voce con me, patetica versione psicopatica del Grillo Parlante?!

Veramente, io non ho aperto bocca. In tutti i sensi.

Fermo i piedi, che dalla rabbia avevano cominciato a fare tanti, tanti passi, uno più veloce dell'altro, e il resto si blocca, paralizzato.

Il respiro, il cuore, la corrente elettrica che corre ininterrottamente nelle sinapsi da quando sono nata.

Tutto fermo.

Solo il sangue, circola. Furioso, pure lui.

Altrimenti non mi spiego perché mi sento andare ancora più a fuoco di prima.

La conosco, quella voce.

Ma non può essere lui.

Ti prego. Fa che non sia lui.

Mi volto.

Cazzo.

Sono finita all'inferno, non c'è altra spiegazione.

«Ehi», mi raggiunge, e sorride. Sorride. «Cavolo, sei una scheggia! Per un attimo ho creduto che non ti avrei raggiunta...».

È proprio lui.

No, questa non è la vita reale.

Questo è un mondo parallelo. Evidentemente, devo aver inconsciamente attraversato un portale dimensionale. Non può avermi seguito, mollando incustodito l'ufficio, solo per...

«Due settimane fa, ho trovato questa nell'aula del centro linguistico...», continua lui. «Era per terra».

Solo ora mia accorgo che ha il fiatone. Probabilmente ha corso, per raggiungermi.

Realizzo la frase che ho appena dedotto, e non sono più paralizzata, no.

Sono pietrificata.

Lui, ignaro, porge delicatamente quella che sembra una catenina, di quelle formate da piccole palline tonde. Vedo il pendente, e sbianco.

Ora, sono una statua bianca, e pietrificata.

Una statua di sale.

È la mia collana.

La cerco da giorni.

La collana che mi ha regalato mio fratello, il mio meraviglioso fratello.

Mi sono sentita persa, senza quella addosso.

«Come... Come..?», balbetto.

«Le altre ragazze dell'ufficio mi hanno detto che per cercarla nella classe, fuori orario, hai fatto il diavolo a quattro», risponde alle mie parole, intuendo anche quelle che restano impigliate tra cervello e lingua, perse in qualche limbo di solitudine e incompiutezza che ogni santa volta che provo a parlare con lui contribuisco a ingrandire. «Ce l'hai per vizio, di scatenare il panico nel mio ufficio», dice.

E ora, il suo sorriso, mi sparaflesha.

Se lo ricorda.

Dio.

La mia faccia.

Se la ricorda.

Dio.

«Io... Io...», balbetto, di nuovo. Vorrei dire qualcosa di più. Vorrei essere più forte. Vorrei trovare il coraggio di chiedergli di uscire con me. Lo vorrei. Davvero.

«Mi dispiace», mi riprendo, alla fine, mortificata come mai in tutta la mia vita.

Con lui, e con me stessa.

Scusa, vocina.

Niente, vigliacca. C'é domani. E dopodomani.

Invece di farmi nuovamente incazzare, la sua affermazione stranamente mi rincuora.

«Ehi, tranquilla, sono cose che succedono!», lui nel frattempo cerca di consolarmi, ridacchiando però.

Mi sento sprofondare.

Due figure di merda in poco meno di cinque minuti.

No, nemmeno io reggo la vergogna, in questi casi.

Peggio di così non potrebbe andare.

«Bene, allora io vado», mormora lui, recependo che dalla mia parte non c'è tutto il divertimento che ha smosso lui. «Torno in ufficio. Altrimenti sarebbero di nuovo capaci di non pagarmi l'ora...». Sembra seccato, ora, mentre non mi fissa e assume un'espressione insofferente. «Ci vediamo», mi saluta, infine con la mano e con un altro sorriso, ma sembra abbastanza triste, questo sorriso.

«Grazie...», biascico. Non riesco a fare di meglio.

Patetica. E io odio essere patetica.

«Figurati!», esclama mentre si allontana.

E si allontana.

E si allontana.

E si allontana.

 

 

 

... Non credo ci sarà un domani, vocina. Probabilmente neanche un dopodomani.

Lo avevo intuito, carina, sospira lei.

Sicura, vocina del cazzo?

 

 

 

 

 

 

«EHI!», urlo.

 

 

 

 

Lui si volta, e mi fissa sorpreso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«... Ti va di prendere un caffè quando stacchi?!».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Ahhh ora sì che mi sento meglio :3 si sente che è giunta la primavera anche per me? XD

 

Cretinate a parte, mi sono divertita parecchio a scrivere questa lunga lunga one shot. È la prima che scrivo con una limitazione del genere e concludo volutamente così: con un finale totalmente aperto.

E, lo dico in anticipo, NON ci sarà un seguito, né un continuo, né uno svolgimento né nient'altro che assomigli vagamente a un altro capitolo di questa... Storia?... finché anche io non uscirò da quella botte di ferro in cui mi trovo così comoda e al sicuro.

Non so quanto ci vorrà, sinceramente.

Non é per deludere o perché sono sadica quanto la vocina, ma vorrei solo che si capisca che la mia protagonista e io condividiamo lo stesso difetto: finché non siamo messe alle strette, non agiamo di nostra iniziativa.

Finché lui non prende le distanze, lei non agisce.

Finché lui non si avvicina, lei non agisce.

La one shot non é puntata sulla risposta di lui, è puntata sul fatto che lei supera il suo blocco; quanto le sia difficile, alla fine, ci riesce.

Sfortunatamente, nella vita reale, è un po' più complicato, anche se, in fondo, dovrebbe essere tanto semplice quanto lo è stato per la mia protagonista - che poi, per inciso, sarei io.

Sono stata autobiografica al massimo.

Sia per il ragazzo, sia per la sciarpa, sia il per il ciondolo - che davvero mi è stato regalato da mio fratello, ma che non ho perso e Dio me ne salvi dalla possibilità che succeda mai -, sia per il panico nella sua segreteria.

E ovviamente anche per le figure di merda.

Le ultime due sono ovviamente inventate, però le figure di merda le faccio, indipendentemente dalla persona che ho davanti o da dove mi trovi.

Sbadataggine, mi dicono che si chiama.

 

Sfigatezza cronica, la chiamo io.

 

 

 

Fatemi sapere che ne pensate :D

  
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