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Autore: crimsontriforce    30/09/2007    5 recensioni
[ICO, post-game] Tornando a casa in un mondo che non le è mai veramente appartenuto. Fino alla fine.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Scritta nell’ultima settimana di settembre per il concorso estivo Storie Inquietanti di Harriet. Puntualità portami via, lo so. U_u

È a tutti gli effetti due storie: una in quanto fanfiction di ICO, l’altra in quanto quasi-original. Spero che nella seconda ottica, quella per cui è nata, inquieti almeno un pochettino; della validità come pacioso scorcio post-game nella prima sono già più convinta.




La via di casa





È arrivata una ragazza oggi al villaggio. Viene dalla via sud, da giorni di cammino nella foresta, scalza e senza averi. Si è presentata ai cancelli senza proferire verbo e ora vaga di strada in strada, talvolta decisa come a trovare un non so che, talaltra incantandosi ad osservare le più piccole cose. La sua veste non è intessuta dei bei filati di questa regione, ma ben si adatta alla sua figura che è esile e slanciata e si potrebbe definire bella, ma meglio ancora sarebbe se esistesse un termine per una bellezza da spirito, diversa da quella delle creature della terra.
I suoi capelli color cenere e la pelle candida attraggono più di uno sguardo: le ragazze con le gote riarse dal sole la invidiano; le loro madri la compatiscono, povera giovane costretta a viaggiare senza un marito né un cavallo ad aiutarla; alcuni uomini, è evidente, stanno pensando che se solo si fermasse potrebbero essere loro, quel marito. Guardano, ma non vedono: le rivolgono espressioni gioviali, offrono di condividere con lei pane e carne essiccata. Ciechi! I loro occhi non possono comprendere il chiarore che emana dal corpo della giovane, come se lei tutta fosse fatta di luce e di etere puro, né riescono a scorgere il suo lugubre seguito ombroso.


Nulla di questo è precluso al mio sguardo. Il mio nome è Voc e sono lo sciamano di questa gente, come mio padre e suo padre prima di lui, e prima ancora della maschera rituale che copre il mio viso è la Vista a conferirmi questo ruolo, la Vista acuta che dona saggezza e sa riconoscere senza indugio gli spiriti e il loro agire nel nostro mondo di uomini. E certo non è umano quello che da questa mattina si aggira per le strade del luogo che ho giurato di proteggere. Conosco già quella creatura e, assieme a me, dovrebbero ricordarla anche alcuni degli anziani se i loro pensieri non fossero offuscati dal vino, dalla vecchiaia e da tutte le sciocchezze con cui riempiono le loro vite.


Accadde un giorno d’inizio estate di tanti anni fa, non dissimile da oggi: un forestiero si era fermato al villaggio per alcuni giorni, divenendo in breve il fulcro di ogni nostro discorso e chiacchiera: il suo volto era gioviale, ma portava sempre il capo coperto con un cappuccio, delle bende o altro. Alcuni sospettavano per questo che fosse un demone e che nascondesse così le sue corna malefiche; io, che al tempo ero solo un ragazzino, tendevo a non dar credito a quelle voci e lo straniero mi sembrava solo un viaggiatore stanco e non più giovane che desiderava godere per un poco della pace che le nostre quattro case potevano offrirgli.
Quasi a voler confermare le voci sul suo conto, però, di notte non si fermava mai a dormire nella nostra locanda ma usciva dai cancelli e si ritirava nei boschi vicini, tornando solo il mattino seguente. Le storie che non si erano inventati su di lui! Oggi un demone che la notte vola via a compiere nefandezze, domani un re giunto in incognito a visitare le sue terre più lontane. Alcuni guerrieri sostenevano di aver seguito le sue tracce fino alla radura in cui si accampava e di aver scoperto il suo segreto tesoro: una donna bellissima, pallida come il latte, attendeva paziente il suo ritorno. "Ora è chiaro perché non vuole stare qui da noi", spiegavano agli altri con la sicumera tipica di chi vuol dare a intendere di saperla lunga, "ha paura che qualcuno gliela porti via!" E scoppiavano a ridere, trascinando nell’ilarità tutta la loro piccola platea.


Non ho mai provato grande interesse per questi discorsi di donne e men che meno allora, quando avevo passato sì e no dieci inverni. Ma ero curioso e vivace come tutti i ragazzetti del vasto mondo e quei racconti avevano solleticato la mia fantasia come mai prima di allora. Così, prima che lo straniero con tutti i suoi misteri decidesse di sparire per sempre dalla mia portata, decisi che avrei scoperto la verità con questi stessi occhi. Non potevo seguire le sue tracce come un cacciatore esperto ma, pensavo, ero abbastanza piccolo e agile da seguire direttamente lui senza farmi scoprire.


Con fanciullesca leggerezza invocai gli spiriti dell’aria perché attutissero il rumore dei miei passi. Se mai mi udirono, possano oggi perdonarmi! Credo che mai preghiera ria stata rivolta loro per un motivo tanto futile. Fatto sta che riuscii a superare con facilità l’assonnata guardia all’ingresso – niente di miracoloso, fin lì, né di nuovo, dato che il limitare del bosco era il rifugio segreto di tutta la mia generazione e, sospetto, anche dell’attuale – e mi appostai al riparo degli alberi, avendo cura di non perdere di vista il sentiero. Lo straniero sarebbe potuto arrivare in ogni momento ed era impensabile, pensavo, affidarmi al solo udito: tutto quello che sentivo era il mio cuore che batteva all’impazzata.


Pure, quando lo vidi arrivare su per il sentiero, stava fischiando una melodia con una tale pace dipinta in volto che mi parve mirabile sia per un demone, sia per un re, sia per qualunque possibilità intermedia fosse la sua vera natura. Iniziai a seguirlo studiandone ogni passo, ogni cambio di postura, senza risultato. L’avrei voluto come nonno uno così, mi ritrovai a pensare, non come segreto di cui vantarmi coi coetanei. Mi chiesi in seguito se in quel momento non fossi già caduto in una rete d’incantesimi, se anche lui non fosse parte cosciente del piano di cui tendevo a pensarlo un semplice schiavo. Oggi non sono certo di nulla. Fatto sta che mi affezionai a quel viaggiatore dalla pelle olivastra più che a un amico, mi pareva di essere arrivato a conoscerlo così nel profondo che un suo gesto era un mio gesto e non c’erano segreti fra di noi. Tanto che, quando sciolse il turbante che quel giorno gli adornava il capo per meglio godere della fresca aria del bosco, dapprima non mi stupii nemmeno.
Ai lati della testa spuntavano due grosse corna spezzate, grandi ognuna quanto un pugno chiuso. Nulla di strano: si toccava così spesso la testa, sistemando la stoffa, controllando che non un capello ne fuoriuscisse, e quella era la spiegazione. Un paio di corna! Del tutto logico. Ci misi un po’ a risvegliarmi dal torpore mentale in cui ero caduto e a rendermi conto della perversione cui stavo assistendo. Nonostante tutto, non era un demone: avevo visto i suoi occhi, nei giorni precedenti, e anche da moccioso inesperto posso giurare che l’avrei riconosciuto come tale. Ma non era neanche un uomo, non come me e voi. Come a confermare i miei pensieri lanciò un grido, un richiamo in una lingua straniera che forse era un nome. Gli rispose una voce femminile, dalla direzione del tramonto, e seppi di essere arrivato.


Mi sembrò di precipitare nell’oscurità. Poco a poco, i sensi del mondo ritrovarono l’accordo con quelli della mente e riconobbi un piccolo spazio nella vegetazione, troppo minuto per essere chiamato radura. Tutto il bosco intorno era ricoperto da un velo, un velo d’ombra finemente merlato che si stendeva a decine di passi di distanza e, al suo centro, una figura abbagliante che di tutta l’ombra pareva farsi un manto. Innaturale bellezza e orrore! Chiusi gli occhi per pararmi da quel sacrilegio; quando li riaprii la Vista vera si era acuita e desiderai di non averlo mai fatto.
Ciò che in una visione sfocata e parziale mi era parso uno strato di buio gettato sul luogo, come se vi fosse caduta una neve nera e fumosa, era in realtà uno stuolo d’ombre che si avvicendava, tetro corteo, attorno alla bianca figura seduta. Lei era giovane e bella, bella come il vento in mezzo al grano, ma innaturale. E attorniata da spettri. Questi la servivano e la osservavano, si inchinavano di fronte a lei, uniti per mano le giravano attorno ballando. Erano tanti, ne contai dieci volte cinque più tre, ognuno alto come un ragazzino e con il capo fumoso ornato da corna. Solo gli occhi erano luminosi e quando incrociavano il mio sguardo mi gelavano il sangue nelle vene. Lei invece era immobile e persa in altri pensieri, il viso rivolto al cielo. I corti capelli color cenere erano l’unico contrappunto al suo candore, che sembrava rilucere anche lontano dal sole. Eppure, memore degli insegnamenti di mio padre sui pericoli della bellezza, finì per sembrarmi più marcia degli altri, il centro da cui l’infezione ombrosa dilagava. Fu allora che mi ricordai della fiaba della Regina d’ombra e quel poco di coraggio che mi rimaneva mi abbandonò. Che stolto ero stato a crederla solo uno spauracchio per mocciosi, proprio io che avrei dovuto sapere quanto gli spiriti amino agire sui destini mortali. Non poteva che essere lei l’apparizione che avevo di fronte, attorniata dai fantasmi di tutti quei bambini che erano stati così cattivi che sulla loro testa erano spuntate le corna di un demone e che a terra avvizziva al loro passaggio.
Mi tastai il capo per accertarmi che la mia scappatella non mi avesse condannato; sembrava ancora tutto normale. O forse mi sarebbero spuntate solo fra le sue grinfie, dato che mi aveva attirato fin lì con le sue arti magiche per rendermi per sempre suo schiavo. Come doveva essere successo allo straniero, che dedussi essere il suo unico servitore vivente nel mare di ombre. Era stato anche lui un bambino con le corna… per quali colpe non seppi mai.


In quel momento la regina chinò il viso e volse lo sguardo a terra nella mia direzione.
"Malatta ke, ti yo ti?", disse a voce bassa.


Sentii troppo tardi un rametto spezzarsi dietro di me: la mano dello straniero era già calata sulla mia spalla. Quando parlò, il sorriso e il suo tono cordiale mi sembrarono stridere incredibilmente con la realtà.
"Ma guarda un po’ chi abbiamo qui!", disse. "Qual è il tuo nome, piccolo?"


Non mi premurai di rispondergli. Mi divincolai come un’anguilla e corsi via con tutto il fiato che avevo in corpo. Che altro potevo fare? Provare a esorcizzarli? Solo per finire sopraffatto? Ero un bambino. Scappai e scappai sugli alberi, sul sentiero, nel sottobosco fitto; inciampai e sentii un dolore sordo al ginocchio e continuai lo stesso a correre, terrorizzato. Ogni ramo, ogni cespuglio era un’ombra pronta a ghermirmi e osai voltarmi indietro solo quando toccai il familiare legno della palizzata.
Quella sera non aprii bocca. Faticai anche a mandar giù qualche boccone, il che poteva aver insospettito quella donna saggia e capace che era mia madre. Fortunatamente ci pensarono gli schiamazzi dei fratelli a tenerla occupata altrove, lasciandomi libero di stare solo con i miei pensieri. Questi sfumarono presto in un sonno pesante e senza sogni o, forse, costellato sì di sogni, ma tutti d’ombra e così fitti da sembrare nulla del tutto.
Non ne feci mai parola ad anima alcuna: per timore di punizioni, certo, ma prima di tutto per un terrore solo intimo e personale che mi avrebbe segnato per sempre.
Ero una persona cambiata, probabilmente in meglio.
Il visitatore non si fece più vedere.


È arrivata una regina oggi al villaggio, una regina luminosa con un perverso seguito di fumosi spettri. Nove volte sei. E le corna dell’ultimo sono spezzate.
Perché è di nuovo in movimento? Mi chiedo, sta cercando me? Vuole finire oggi quel che iniziò tanto tempo fa? No, mi rispondo poi, quel che è strano è che torni solo ora a vagare per queste terre. Nella verità oltre alla leggenda, che da allora ho così a lungo ricercato, è da almeno tre generazioni che nessun bambino nasce più con le corna, non solo qui al villaggio ma in tutta la regione. Non lo sa, questo? Deve aver fame di sacrifici, cerca il suo nuovo servo e non lo trova. Ha perso! Qualunque maledizione lei e la sua genia avessero gettato in passato sui nostri figli è vinta. Se ne vada. Temo però che al posto del sacrificio porti con sé un bambino innocente e non posso permetterlo, sul mio nome e sul mio giuramento. Scendo in piazza per affrontarla.
Le ombre, stranamente, non si oppongono e anzi fanno ala al mio passaggio. Le sono davanti e fronteggio assieme a lei le mie paure d’infanzia. Infine incrocio il suo sguardo e ogni ardore mi abbandona, la lascio andare, perché non potrei fare altra cosa più giusta nel vasto mondo. Povero vecchio stolto.
Non parlerò più di lei, ché non ne ho diritto. Che altri racconti la dignità con cui si è allontanata dal cancello nord, seguita dalla sua scura processione, giù per la strada che dopo i colli porta alla scogliera. Per la seconda e ultima volta, mi ha levato la parola. Buon ritorno.



***




Yorda si inginocchia sulla sabbia candida e rivolge uno sguardo che par triste al groviglio che cresce, ormai rigoglioso, al riparo della scogliera: non è stagione di cocomeri, non ancora, peccato. Le sarebbe piaciuto.
Lo sciabordio delle onde sulla battigia la ammalia e la tranquillizza, ultima propaggine di quel mare che non avrebbe mai dovuto conoscere e che invece l’ha sempre attirata così tanto, fin da quando l’ha sentito infrangersi per la prima volta sulle fondamenta rocciose del castello, mentre i suoi piedi scalzi si dibattevano cercando un appoggio nel vento e una mano amica, la prima e l’unica, la riportava alla sicurezza. Abbagliata dal riverbero cerca nuovamente quell’isola, da qualche parte all’orizzonte, e la trova dapprima con gli occhi della memoria: enigmatica, sfuggente, brulla, per sempre persa nella nebbia di un giorno che non ha mai fine. Sbatte le palpebre e vede solo degli scogli inondati dal sole, patria dei gabbiani.
Le ombre che si stringono a lei sono state gentili e discrete compagne di viaggio in un mondo estraneo e Yorda deve molto a ognuna di loro, non solo all’ultima dalle corna spezzate che sarà sempre la più vicina al suo cuore a ai suoi ricordi. Non è mai stata brava con le parole e se ne rincresce, ma fa del suo meglio. "Mada", dice. Grazie.
L’attimo dopo la spiaggia è vuota.



The island bathes in the sun's bright rays

Distant hills wear a shroud of grey

A lonely breeze whispers in the trees

Sole witness to history





Morale: non sempre i film mentali sono corretti. Amen. XD
Far stare in piedi un’impalcatura così paradossale (Yorda minacciosa? Ma neanche in un universo allo specchio, piccina… ç_ç) è stato interessante, spero che sia rimasta credibile dato il punto di vista del tutto esterno ai due amabili protagonisti. Per inciso, e a parte le ombre dei cornuti predecessori di Ico che eran qui giusto per requisito di concorso (credo in verità che siano in pace, simboleggiate dallo stormo di uccelli neri che si alza in volo nel finale), questa è più o meno la vita che immagino per loro: vagabondaggio sereno ai margini della società, contenti semplicemente l’uno dell’altra. Prima e più evidentemente di Wander e Mono, loro sono due ‘diversi’ e a giocare a maritino e mogliettina in un qualche villaggio non ce li vedo manco morti. Per la longevità di Yorda e il suo aspetto anche in vecchiaia ho guardato alla Regina, chiaramente; le due frasi in gamespeak invece sono traslitterate alla meno peggio dalla sua prima cutscene e dal ritorno al Main Gate. E, sì, la telecamera ci odia tutti ma io l’ho odiata più forte e le tombe sono effettivamente 54 in totale. XD

Poi, che altro dire… boh, Colossi e prosperità. °=° Era da tanto che volevo scrivere su ICO e sono felicissima che se ne sia presentata l’occasione!

   
 
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