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Autore: Flami Destrangis    13/03/2013    2 recensioni
"Oggi il cielo risplende in maniera così opaca da sembrare quasi inconsistente. E' di un color granito evanescente, si perde tra un bianco e un grigio senza forma, le nubi ci sono ma sembrano non esserci, fanno tutt'uno, fanno il cielo. E il cielo non c'è più."
Andrej Pushkin è un soldato dell'Armata Rossa alla caccia di Berlino. La sua è una marcia lungo la Polonia, tra il freddo dell'inverno 1944-1945. Una marcia tra paesi sventrati dalle bombe, vite abbandonate, combattimenti per sopravvivere un giorno in più. Una marcia alla ricerca del senso di una guerra incomprensibile, dalla Russia fino al campo di Auschwitz.
"Io voglio arrivarci alla fine di questo schifo. Voglio arrivare fino al giorno della vittoria o della resa. Voglio combattere l'ultima battaglia, e poi salire in alto sulla cima del mondo, osservare le nazioni in putrefazione e chiedermi che senso abbia avuto tutto questo. Forse allora sarò in grado di darmi una risposta."
Per tutti coloro che non hanno la fortuna di essere liberi.
Genere: Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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...Nunca estuviste en el cielo
eres de los que no vuelan
presidiario del silencio frio,
frio que la sangre hiela...”

(Estopa, “Te vi Te vi”)

 

Se un Dio ha creato il mondo, io non vorrei essere quel Dio: l'estrema miseria del mondo mi strazierebbe il cuore.”

(Schopenhauer)

 

La libertà rende liberi

 

 

 

Oggi il cielo risplende in maniera così opaca da sembrare quasi inconsistente. E' di un color granito evanescente, si perde tra un bianco e un grigio senza forma, le nubi ci sono ma sembrano non esserci, fanno tutt'uno, fanno il cielo. E il cielo non c'è più.
Questa mattina ha cominciato a nevicare. E ha continuato, senza smettere. Per terra gli anfibi sprofondano di già, e le dita iniziano ad intorpidirsi. Ci siamo quasi, ancora un'oretta, forse due, e sentirò l'odiosa sensazione di non sentirle più. La sensazione più fastidiosa è non provare più alcuna sensazione. L'ho sempre detestato. Almeno finché sento so di essere vivo. Ma poi, oltre la sensazione, cosa c'è? Niente. Noi siamo senso, con un pizzico di anima sbriciolato sopra. Il paesaggio è piatto e bianco. La neve è fredda, l'aria è fredda, e io sto gelando. Il freddo mi punzecchia le ossa come un'ape che non perde mai il pungiglione e più vado avanti più insiste. Non riesco a scaldarmi, questa Polonia è un deserto di ghiaccio. Tutto è uguale, tutto non cambia mai. E potrei essere in Germania, in Inghilterra, in Norvegia, in Siberia, non cambierebbe assolutamente nulla. La neve russa ci è amica, ma in fin dei conti è uguale alla neve tedesca: l'anima ce la spezza lo stesso. A tratti alzo lo sguardo e lancio un'occhiata a Dimitri che cammina accanto a me. Si trascina avanti come una marionetta a cui hanno tagliato i fili. Continua a bisbigliare qualcosa, come se stesse pregando. Forse lo sta facendo sul serio. Più di una volta l'ho sorpreso intento a chiedere al suo Dio la forza per andare avanti; e poi mi guarda sempre e mi dice: “Non dirlo a nessuno.”
Non vuole che si sappia che sia credente. Ha paura che possano considerarlo un debole. L'Armata Rossa è senza Dio. Beh, se il Dio di cui tutti parlano è quello delle uniformi tedesche, allora io sono ben felice di non stare dalla sua parte. Un Dio che combatte non è un Dio. La guerra è umana, e se Dio la permette allora le soluzioni sono due: o non esiste, o dell'uomo non gliene può importare di meno. A me non interessa. Mi basta arrivare alla fine di questa fottuta guerra. E' da più di un anno che mi spacco la vita tra spari e urla, tra imboscate e camminate infinite. Ma la cosa peggiore non è il giorno, non è il combattimento. La parte più infida e bastarda è la notte, quando hai paura di addormentarti perché sai, in fondo, che potresti non svegliarti più: un'imboscata notturna, il troppo freddo, il più piccolo equivoco e puf, sparisci come se non fossi mai esistito. No. Io voglio arrivarci alla fine di questo schifo. Voglio arrivare fino al giorno della vittoria o della resa. Voglio combattere l'ultima battaglia, e poi salire in alto sulla cima del mondo, osservare le nazioni in putrefazione e chiedermi che senso abbia avuto tutto questo. Forse allora sarò in grado di darmi una risposta.
Dimitri continua a bisbigliare. Io non ho la forza di dirgli niente. Ho paura di aprire la bocca, non voglio dare a questo stramaledetto freddo un'altra via d'accesso al mio corpo. Cammino con tutto il plotone. Siamo una lunga fila, a tratti ci allunghiamo, a tratti ci riavviciniamo. E Dimitri continua a sussurrare, e io a non capire quello che dice. Povero Dimitri, non ha neanche vent'anni. Con i miei venticinque mi sento un veterano in confronto a lui. Si è arruolato senza nemmeno sapere cosa fosse un fucile, e ora se lo ritrova lì, in spalla, e lancia granate contro uomini folli come noi, o forse solo un po' più pazzi. E' stato il primo compagno con cui ho parlato. Ci siamo conosciuti così, una frase stupida pronunciata non mi ricordo più da chi dei due, qualcosa del tipo “Che freddo che fa oggi”, e da lì non ci siamo più separati. Mi ricorda il mio fratellino minore, morto prima della guerra di una stupida febbre che i medici non sono stati in grado di curare. Gli stessi occhi azzurri spaesati e gli stessi capelli biondi. Chissà, forse anche io gli ricordo suo fratello maggiore, ed è per questo che non si è più separato da me. Penso di essere come un sostegno per lui. Eppure non sono un tipo di tante parole: parlo poco, e solo quando serve. Forse è per questo che lo aiuto: in guerra le parole non servono: le bugie le capisci subito, e le frasi stupide sono solo superflue: uno sguardo dice molto di più. E poi è meglio non farsi molti amici: risparmi le lacrime nell'eventualità in cui tu sia costretto a seppellirli. Ora che ci penso, mentre lo guardo bisbigliare, capisco che di lui non so quasi nulla. Non so di dove sia originario, ma il suo mi sembra un accento del Sud; non so se abbia ancora una famiglia o una fidanzata ad aspettarlo al ritorno dalla guerra. So solo che ha una dannata paura di non tornare più. Me l'ha detto una sera, quest'estate. Ci eravamo nascosti nel paesaggio per riposare un poco.
“Buonanotte.” gli dissi.
“Ehi.” mi fece lui.
“Che c'è?”
Mi guardava con due pupille tremanti nella penombra.
“Tu non hai paura?”
“Di cosa?”
“Di non svegliarti più. E se ci ammazzano mentre dormiamo?”
Avrei voluto rispondergli: e chi non ha paura? Bisogna solo imparare a conviverci. Non c'è altra scelta. Invece chiusi gli occhi, dicendogli solo: “Dormi, non ci ammazzerà nessuno.”
Dubito che quella sera abbia dormito molto. Fu lui a svegliarmi.
La guerra non l'ha cambiato. Ha lo stesso viso infantile di un anno fa. Sembra quasi che le peggiori schifezze non l'abbiano toccato.
Questa marcia non finisce mai. Camminiamo da ore. Dove stiamo andando? Ad invadere la Germania con una colonna di soldati desiderosi solo di fare retromarcia, con un fucile mezzo scarico in spalle e gli anfibi ricoperti di neve? Non ci prenderebbero poi così sul serio. Eppure girano voci. Dicono che presto la guerra potrebbe finire. Che i tedeschi stanno capitolando. Che la vittoria è vicina. E' la verità o solo un modo per farci continuare a camminare? Qualcuno dice che siamo a fine dicembre. E' il 1944. A me non interessa il giorno, il mese o l'anno. Io voglio solo l'ora della fine di questa marcia. Faccio delle smorfie, nel tentativo di non far paralizzare del tutto il viso. Dimitri continua a sussurrare. Faccio un'altra smorfia, non sento più le labbra. Dimitri continua a sussurrare. Aggrotto la fronte. Fa sempre più freddo. Dimitri continua a sussurrare.
Sento un tonfo. Mi giro. Un soldato è caduto poco dietro di noi, la faccia nella neve. Un compagno si abbassa, tenta di rialzarlo. Lui non si muove. Forse è ancora vivo, ma noi non possiamo fermarci. Vedo un altro soldato che si avvicina. Si china. Deve aver capito che, anche se moribondo, non è più in grado di proseguire. Mi giro di nuovo. So cosa accadrà. Sento uno sparo. Vado avanti, odio il sangue che macchia la neve. Continuo a camminare. Dimitri ha smesso di sussurrare. E' la mostruosa quotidianità.
“Mi sparerai anche tu se cadrò?”
La voce del mio compagno mi colpisce i timpani indolenziti. Procede al mio fianco, a tratti mi guarda. Ha di nuovo paura.
“Ti porterò in spalla finché non ti risveglierai.”
O finché non cadremo entrambi, vorrei aggiungere, ma lascio perdere. Non ha senso dire altro. Ora come ora mi sento anche io una marionetta senza fili né cuore. Accidenti, ci sto facendo l'abitudine. Non voglio, non voglio, merda, non voglio assuefarmi alla guerra. Eppure sto incominciando a sentirlo anche io quello strano senso di impotenza, come se non fossi io a combattere la guerra, ma la guerra a usarmi per i suoi incomprensibili fini. Però non l'ho ancora sentito l'odore delle guerra. L'odore di cui parlava sempre Iosif.
“La guerra puzza di sangue marcio.”
Lo ripeteva sempre. Mentre camminavano, prima di un'azione, dopo che avevamo appena rischiato la vita, prima di addormentarsi. Alle volte ti guardava, stava un po' in silenzio, e poi ti diceva: “Non lo senti?” , “Cosa?”, “L'odore di sangue marcio della guerra.” Iosif è morto qualche mese fa. E' saltato in aria con una granata. Boom, in mille pezzi. E nessuno ha fatto in tempo a sentire l'odore del suo sangue marcio.
Annuso l'aria. Non sento niente. C'è odore di neve, e basta. Non c'è odore di umano in questo posto desolato. Non c'è nessuno odore. O forse sono io che inizio a non sentire più niente. No, per favore, no. Non posso mollare. Non è ancora finita.

 

 

 

Oggi è una giornata inutile come ieri, l'altro ieri, e come forse sarà domani, e dopodomani ancora. Il nostro plotone si è separato. Meglio non procedere tutti insieme. Eravamo troppi, e il territorio era troppo scoperto. Mi guardo intorno: ora saremo poco meno di una ottantina di uomini. Dimitri è accanto a me. Non dice niente. A tratti mi guarda. Io annuisco, senza sapere perché. Lui sembra accontentarsi, e si gira di nuovo. E' iniziato gennaio. E' iniziato il 1945. E l'ora della fine non è ancora arrivata. Almeno non per tutti. Bisogna andare avanti. Siamo a caccia, e i tedeschi sono le nostre prede. Ci stiamo avvicinando, e loro scappano, continuano a scappare, e noi dobbiamo andare sempre avanti, far loro sentire il nostro fiato puzzolente sul collo, braccarli, spaventarli e poi distruggerli. Prenderci la vittoria, e non subire la sconfitta. Sembra l'unica soluzione contemplabile per poter sopravvivere a questo schifo.
Qualcuno dietro di me bestemmia contro il freddo che si fa ogni secondo più intenso. Non finisce mai, non finisce più.
“Non c'è mai il sole qui.” mi dice Dimitri. Il cielo è grigio, ma ha smesso di nevicare. Il suolo è bianco, sembra intriso di nuvole.
“C'è già il fuoco delle armi a riscaldarci.”
“Ma se fa un freddo pazzesco.”
“Vedrai appena ci spareranno addosso.”
“Non essere sempre così pessimista. Dicono che i tedeschi stiano scappando.”
“Meglio tenere gli occhi sempre aperti.”
“Non mi piace la Polonia.”
“Sembra la Russia.”
“Non è vero.”
Con questa sua ribattuta si conclude la discussione. Non c'è altro da dire. Dimitri ha paura, lo so. E ce l'ho anche io. Perché se i tedeschi scappano, vuol dire che siamo davvero vicini. E se siamo vicini vuol dire che aumentano le probabilità di uno scontro. Mi sono mostrato sicuro, ma questa tensione distrugge anche me. E' da giorni che marciamo, e ora ci stiamo avvicinando al pericolo. Preferisco il freddo e la Polonia senza sole al fuoco delle mitragliatrici tedesche.
Vedo i compagni davanti che si fermano. Poco dopo la colonna si è bloccata.
“Che succede?” chiede Dimitri.
“Mandano qualcuno in avanscoperta. A quanto pare ci sono gruppi tedeschi in zona.”
Dimitri non risponde. E ora sorge il dubbio. Chi saranno i poveri diavoli mandati avanti in avanscoperta? Non ci sono persone più scaltre di altre, siamo tutti uguali. Non c'è nessun volontario. Nessuno vuole rischiare di morire a guerra quasi finita. Sarebbe la beffa peggiore. Ci mettono in fila. Probabilmente ci sorteggeranno, scegliendo a caso. Uno ogni dieci, oppure passerà davanti il superiore, guardandoci negli occhi, e nessuno saprà quale sia l'espressione giusta da fare per non essere scelto. Dimitri e io siamo vicini. Lui mi guarda di nuovo e sussurra qualcosa tipo “Buona fortuna.” “Anche a te.”
Ne hanno già scelti tre. Ne vogliono cinque. Un numero esiguo di perdite: perché, in fondo, lo sanno tutti quale sia la tecnica dell'avanscoperta. Loro ti mandano avanti. Se torni, i tedeschi non ci sono. Se non torni, ci sono. Se sei furbo, scappi prima che entrambi gli schieramenti possano trovarti. Ecco che si avvicinano. Tra poco passeranno davanti a me. Vedo Dimitri che abbassa nervosamente lo sguardo. Ha paura. Anche io. Arrivano. Si fermano davanti a Dimitri. Il superiore lo guarda. No, non sceglierlo, cazzo, passa avanti.
“Tu.”
E sono quattro. Dimitri fa un passo avanti a testa bassa. Fa freddo. Sempre di più.
“Vado anche io.”
Faccio un passo avanti, prima di pentirmene. E sono cinque. Hanno i loro cinque animali da mandare al macello. Dimitri mi guarda, e mi bisbiglia qualcosa, forse mi chiede perché l'ho fatto, o forse mi ringrazia. Non lo capisco. Gli ripeto solo quello che gli avevo detto quasi un mese fa: “Se cadrai, ti porterò in spalla finché non ti risveglierai.”
Non c'è molto da dirsi o ordini particolari da impartire. Bisogna solo procedere. I tedeschi dovrebbero nascondersi in un paese abbandonato circa un chilometro più avanti. Si tratta di marciare un altro po'. Abbandoniamo il gruppo senza dire una parola. Se davvero c'è il nemico, sarà difficile tornare indietro. Che fare? Uno che zoppica prende l'iniziativa. Ha i pantaloni sporchi di sangue secco. Deve avere una ferita non ancora richiusa.
“Io vado avanti per la strada principale. Se c'è qualcuno, attirerò l'attenzione, voi dividetevi e aggirate il paese.”
“E' un suicidio.” gli dico con voce atona. Gli sparerebbero dopo meno di un secondo.
Fa un sorriso amaro.
“Con questa” e indica la gamba “non durerò comunque più di due giorni. Non ha senso aspettare ancora.”
L'importante è che ne sia consapevole. Gli diamo una pacca sulla spalla. Qualcuno gli dice che tornerà indietro, che i tedeschi non ci sono davvero. Nessuno ne è realmente convinto. Ci dividiamo e procediamo. Guardo l'uomo alto e zoppicante marciare verso il patibolo, e mi chiedo cosa significhi camminare incontro alla morte. Dimitri è sempre accanto a me. Aggireremo il paese a sinistra. Gli altri dalla parte opposta. Basterà tornare indietro al primo sparo. Sarà il segnale della presenza nemica. Le prime case sventrate dalle bombe si profilano all'orizzonte. Diventano sempre più grandi e più grige. Sembra un paese fantasma. A tratti soffia un vento freddo e sibila tra le rovine senza vita. Io e Dimitri ci accucciamo, nascondendoci tra le macerie. Non vediamo niente, solo mura e pietre. Ci guardiamo, trattenendo il respiro per non fare rumore. Attendiamo in un sovrumano silenzio. Cerchiamo di non sbattere le ciglia, per non alterare il sibilo del vento. Ma i denti tremano. Di freddo e di paura.
Silenzio. Bianco, grigio e macerie. E poi eccolo, improvviso ma aspettato, lo sparo. E poi d'improvviso la mitragliata di colpi. Come le rondini che seguono la prima ad aver spiccato il volo.
La vittima è stata sacrificata, si può tornare indietro, si può ricominciare a vivere con un senso di colpa in più. Ci spostiamo piano, strisciamo per terra come serpenti. Poi d'un tratto urla, voci tedesche. E un sparo, troppo vicino a noi per essere casuale. Merda, devono averci visti. Guardo Dimitri, e i miei occhi dicono tutto. SCAPPA. Corro, lui dietro di me. Si sentono altri spari, altre urla. Continuo a correre, mi infilo in una casa sventrata da entrambe le parti. Perché non sento i passi di Dimitri dietro di me? Forse le urla tedesche coprono l'inconfondibile suono degli anfibi. Non riesco a ragionare. Improvvisamente non ci sento più, e una mano invisibile mi afferra e mi scaraventa qualche metro più in là. Un'esplosione, una granata. I tedeschi vogliono farci secchi, bastardi. Non deve essere esplosa poi così vicino, mi guardo le mani, mi tocco il viso, sono sporco ma integro. E Dimitri? Dov'è finito? Mi metto in ascolto, e oltre il fischio persistente dei miei timpani non sento nient'altro. Non ci sono più voci tedesche, non ci sono più spari. Anzi, no, che dico. Qualcuno urla. Mi alzo, corro fuori. Dov'è Dimitri? Oltre la terra bruciata vedo qualcosa. Qualcosa che si contorce e urla. Un moncherino senza più un braccio né un piede, carne palpitante sulla terra bianca e nera sporca di sangue. Urla, quella cosa urla. Quella cosa non è una cosa. E' Dimitri, riconosco le sue pupille in quegli occhi fuori dalle orbite che mi guardano pur guardano oltre, e continua a contorcersi, non si ferma, e dov'è il braccio?, non c'è più, è sparito, saltato in aria come se non fosse mai esistito, e sembra un manichino, ma è ancora vivo, urla e pulsa, palpita e si muove, basta, fermati per favore, non urlare più, ritorna in te, sono io Dimitri, sono io non mi riconosci?, e questo è un sogno, è un incubo, e poi ci risveglieremo tutti e due e tireremo un sospiro di sollievo, te lo ricordi no, ti avrei portato in braccio se fossi caduto, parlami, smettila di urlare, ti porterò in braccio, ma per favore smettila, alzati ti prego, anche se non hai più un piede su cui reggerti, ti prego alzati, e andiamo via, scappiamo, le senti queste voci?, sono i tedeschi che si avvicinano, dobbiamo andare via, via, tornare indietro e dire che il nemico c'è sul serio, merda, non capisco più niente, non so se sto urlando o piangendo, non so se ti sto parlando, ma sento le voci aspre e dannate di quei bastardi, stanno arrivando e tu continui a contorcerti e urlare e io che devo fare, dimmelo, che devo fare? Cerco di calmarmi, ma non ci riesco, Dimitri mi guarda mentre si dimena e non è più lui, non ha speranze, lo so, ma come faccio a sparargli se continua a guardarmi, io, io che gli ho detto che non l'avrei abbandonato? Arrivano. Li sento. Provo a prenderlo per il braccio integro, a trascinarlo, ma lui si contorce e urla ancora di più. Non ce la farò mai. Stanno arrivando. Lui è comunque spacciato. Che fare? Se gli sparo, i tedeschi capiranno che c'era qualcun altro con lui. Se non gli sparo, lo ammazzeranno loro. Se non lo ammazza nessuno, morirà comunque tra i tormenti peggiori. Prendo il mio fucile. Lo guardo negli occhi. Non mi riconosce più. Sembra un animale agonizzante. Dannazione, la guerra ci priva dell'umanità. Chiudo gli occhi e dico solo: “Perdonami, amico.”
Fuoco. Le urla cessano. Mi giro e scappo, corro più veloce che posso. Non mi prenderanno, non ce la faranno. Maledetti bastardi. Lo sapevo che non dovevo farmi amici in questa guerra.
Il vento mi sbatte in faccia, mi sferza la pelle. Annuso l'aria. E' qui, ora, lo sento. L'odore di sangue marcio della guerra. E' nell'aria, nel vento, sulla terra. E' sulle mie mani.

 

 

Sto cominciando a contare lo scorrere dei giorni. Voglio arrivare fino in fondo, ora più che mai. Voglio capire che cos'è questa guerra, voglio capire per cosa è morto Dimitri. Oggi è il 27 gennaio 1945. Sono passate due settimane dalla sua morte, e l'odore di sangue marcio non mi ha più abbandonato. Non doveva andare così. Mi sembra tutto storto, terribilmente storto. Siamo nei pressi di Oświęcim. I tedeschi la chiamano Auschwitz. E' mattina, tra poco sarà mezzogiorno. Fa sempre più freddo. Camminiamo, come sempre. Berlino è lontana. Improvvisamente, ci fermiamo. Ora il gelo mi penetra. Calzo meglio il mio pesante cappello di pelo.
“Che succede?” chiedo. Ma gli altri ne sanno quanto me. Poi, qualcuno dice: “Hanno visto qualcosa. Sembrano delle baracche, c'è un reticolato. Qualcuno vada a vedere.” 
Mi offro subito come volontario. Dal giorno della morte di Dimitri, mi offro sempre come volontario. Non so perché, mi sembra un segno di rispetto nei suoi confronti. Mi danno un cavallo, salgo in sella, e mi avvio con altri tre soldati. Tutti e quattro a cavallo, con i mitragliatori imbracciati. Il nemico potrebbe sbucare da un momento all'altro. Ci avviciniamo, guardandoci intorno. Il silenzio regna incontrastato, e quelle baracche diventano sempre più grandi. Raggiungiamo il filo spinato che ci sbarra il passaggio. Deve essere un campo di prigionia tedesco: troppo silenzio, con tutta probabilità sono già scappati. Le baracche sono tutte uguali, e si ripetono una a fianco all'altra, sotto il cielo plumbeo che conferisce a quel luogo il sapore della morte. Costeggiamo il filo spinato, guardandoci spaesati. Poi, intravediamo qualcosa muoversi. Sembrano due pupazzi ancorati a dei fili malmessi, con le membra spezzate e l'alito di vita che scivola via. Ci mettiamo qualche minuto a capire che sono uomini. Trasportano una barella. Sopra, sembra esserci uno scheletro. Lo rovesciano a terra. E allora vediamo, lì accanto a loro, una fossa. Una fossa piena di scheletri spezzati. Non ci capacitiamo subito del fatto che non sono scheletri, ma ancora uomini. Uomini che hanno abbandonato da poco questa fragile vita. Ci guardiamo di nuovo. Poi i due ci vedono. Uno di loro si toglie il capello, e non capiamo se saluta noi o i morti nella fossa. Forse entrambi. L'altro ci guarda e basta. Sembra dispiaciuto di non avere nessun cappello da togliere. Ci scambiamo qualche sguardo, e poi restiamo lì, ci avviciniamo, osserviamo in silenzio. Solo ora mi accorgo che non distinguo i vivi dai morti. Quei due uomini che mi guardano sono identici a quegli altri buttati scompostamente nella fossa, o ancora all'altro appena scivolato giù dalla barella. Se adesso mi dicessero: “Sì, eravamo morti, ci siamo appena rialzati.”, penso che non mi stupirei. No, probabilmente non direi nulla. Non voglio fissarli, ma non posso farne a meno. Vorrei dire qualcosa, ma non ci riesco. Questo luogo mi ruba la parola. Ma dove siamo finiti? Questo non è l'inferno, perché l'inferno è rosso e caldo. Qui invece tutto è bianco, persino le persone, e fa un freddo, un freddo da far gelare il sangue nelle vene. E sento un brivido, mentre i due uomini continuano a guardarci con occhi spettrali. Nessuno dice nulla. C'è solo silenzio. Forse sono nel limbo, in una dimensione a metà fra vita e morte.

No, l'inferno non esiste. Il limbo non esiste. Il paradiso non esiste.
Questo è solo l'orrore del nostro mondo.

 

Scendo da cavallo, e immergo gli anfibi nella neve. Non sento più l'odore di sangue marcio. Qui ci sono solo fantasmi, e i fantasmi non hanno odore.

Ora ho capito.

La guerra è Dimitri che si contorce senza più né un braccio né un piede. La guerra è carne pulsante che urla il suo strazio.  
La morte invece è qui. Negli occhi di questi due uomini, nelle baracche tutte uguali, nella neve che sto calpestando, nel silenzio che mi circonda, nei binari rotti, nel cielo grigio che ci sovrasta. La morte è in questo campo vicino ad Auschwitz.

 

 

 

 

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Questa è una storia senza nessuna pretesa. L'ho scritta ripensando al breve tratto di un film che , girando fra i canali, mi è capitato di vedere una volta. Un breve tratto in cui un soldato faceva la stessa fine di Dimitri: e da allora non me lo sono più tolta dalla testa. Quale modo migliore per scaricare, se non scrivere?

Come penso molti di voi abbiano capito, la parte finale è ripresa dalla conclusione di “Se questo è un uomo” e dalla parte iniziale de “La tregua” di Primo Levi. Spero di non aver fatto delle sviste da un punto di vista storico o non so che altro: in caso contrario, ogni critica o correzione è ovviamente ben accetta. Ringrazio tutti coloro che hanno letto questa mio primo racconto “storico” e spero, in un modo o nell'altro, che non vi siate pentiti di aver trascorso qualche minuto in compagnia di queste righe. Grazie a tutti :)

Flami

 

PS: un'ultima cosa. La prima citazione è tratta dalla canzone “Te vi te vi” del duo spagnolo Estopa. La traduzione suona più o meno così:

 

“..Non sei mai stato nel cielo

sei tra quelli che non volano

incarcerato dal silenzio freddo,

freddo da far gelare il sangue..”

 

In lingua originale (come ogni cosa, d'altronde), rende molto di più. Se vi capita, ascoltatela. E' davvero una bella canzone.

  
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