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Autore: V a l y    02/10/2007    6 recensioni
“Voi avete bisogno di gente come me. Vi serve la gente come me, così potete puntare il vostro dito del cazzo e dire: “Quello è un uomo cattivo.” Be'? E dopo come vi sentite, buoni? Voi non siete buoni. Sapete solo nascondervi, solo dire bugie. Io non ho questo problema. Io dico solo la verità, anche quando dico le bugie.”
Tony Montana, Scarface.
Questa è stata la citazione che mi ha ispirata per questa strana oneshot, cercando di collegare l'atmosfera di quel film con Reno, il mio personaggio preferito di Final Fantasy VII.
Un po' di limone e rhum, e tutto sparisce.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Reno
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Voi avete bisogno di gente come me. Vi serve la gente come me, così potete puntare il vostro dito del cazzo e dire: “Quello è un uomo cattivo.” Be'? E dopo come vi sentite, buoni? Voi non siete buoni. Sapete solo nascondervi, solo dire bugie. Io non ho questo problema. Io dico solo la verità, anche quando dico le bugie.”
Tony Montana, Scarface.




Ho corso davvero tanto. O meglio, abbiamo corso davvero tanto, ma Rude è lento, e sono sempre io ad acchiappare le prede fuggiasche per primo. Lui arriva sempre tre minuti dopo. Non smetto di mirare con la pistola la mia dolce conquista, e con gli occhi guardo l'orologio sul polso, aspettando impaziente il minuto dei due che ancora deve trascorrere. Quando non sai che fare, anche un secondo pare sempre lungo un secolo. Ho tentato una chiacchierata con la mia preda, ma questa è molto scorbutica. Trema, come le foglie secche su un albero in autunno; forse sa bene che come queste anche lui tra poco cadrà, nel cemento della morte. Santo cielo, gli ho pure fatto il favore di un'ultima, amichevole chiacchierata, così da giovargli un po' lo spirito, ma niente! Digrigna come un lupo rabbioso, addossato al muro, seduto. E' proprio una preda antipatica.
“L'hai preso.”
Rude, eccolo. Quindici secondi di anticipo, complimenti: un nuovo record.
“Se non ci fossi io...” sussurro, compiaciuto. Ma Rude rimane impassibile, e si concentra sull'uomo che ho catturato, imprigionato dov'è grazie alla canna della pistola puntatagli ancora addosso, suggestionabile persino più delle sbarre di ferro delle prigioni di Midgar. Oh, io so cosa sono quelle sbarre, cari miei. Tante estati le ho trascorse lì.
“Maledetti bastardi, cani della Shinra!”
E' proprio vero, la preda è veramente antipatica e la mia prima impressione non sbaglia mai.
“Buono... ho una pistola,” gli rammento io, ironicamente. Ma all'uomo piace fare l'eroe. Che stupido: non c'è nessuno a guardarlo, perché fare tanto l'eroe?
“Te lo richiedo ancora una volta: vuoi ascoltare la mia barzelletta?” domando alla preda. L'uomo fa un cenno di dissenso, ma io non lo ascolto. E' un brutto lavoro, il mio, tanto vale alleggerirlo con qualche sana risata.
“Allora, ci sono due vecchie che vanno dal fruttivendolo e chiedono due banane. Il fruttivendolo tira su la cassetta e dice: sono tre, va bene lo stesso? E le vecchie: ma sì, vorrà dire che una la mangeremo!”
La preda non è abbastanza sagace da poter capire la mia barzelletta. Grugnisce un'altra volta, arrabbiato.
“Questa la dicevo io quando ero alle elementari,” beffeggia Rude in tono elegantemente austero, come al suo solito; il tono invariato che usa sempre in ogni occasione, per ogni emozione, quando è felice e quando è arrabbiato.
“Quand'ero bimbo, però, andava molto!” faccio io, sinceramente divertito. Ma sono l'unico dei tre ad esserlo. Il fuggiasco si inasprisce di nuovo:
“Sentite, brutti stronzi, che volete da me?!”
Non buttare benzina su fuoco, amico.
“Volete uccidermi, no? Perché ho attentato contro la Shinra, no?!”
Gli risponderei a voce, davvero. Ma non lo faccio. La risposta già la sapeva da solo, dopotutto. Siamo i Turk, i diligenti dei lavori sporchi della Shinra. Ho già detto che racconto barzellette per alleggerire il mio lavoro, no? Perché il mio lavoro è il più degradante e riprovevole che esiste in questa terra.
“Ti avrei concesso di raccontarmi anche una tua barzelletta. Peccato.”
Il proiettile parte inaspettato per la preda, che neppure ha tempo di spaventarsi. Arriva dritto dritto sulla fronte, e in un attimo l'uomo cade. Qualcosa però è andato storto.
“Cazzo!”
La parolaccia l'ho detta io. Rude si volta verso di me, a controllare il motivo del mio disappunto. Del vischioso e schifosissimo sangue mi imbratta tutta la giacca, rovinando con una grossa macchia il mio bel completo blu. La preda era proprio antipatica, pure da morto. Mai era successo in vita mia che mi sporcassi del sangue altrui in modo così stupido!
“Che schifo. Non si leverà. La giacca me la devono ridare gratis, con tutto ciò che faccio per loro!”
“Prova con del limone e del rhum,” mi dice Rude. Certe volte è proprio a causa della sua perenne austerità che non capisco mai se scherza o meno. Lo guardo allibito, per un attimo, ma poi lascio perdere. Pazienza. Alla gente non fregherà se passerà davanti loro un Turk imbrattato di sangue, e se fregherà, tanto non avrà le palle di dire nulla alla polizia. Anche perché, che diavolo dico: noi siamo la polizia della polizia, che ho da preoccuparmi? Un fatto estetico e di educazione, e nulla più.
Ma immancabilmente ritorno a pensare al metodo del limone e rhum: una trovata decisamente artigianale ed economica. Chissà se a mia madre sarebbe servito? Tante volte da piccolo mi sono sporcato di fango e polvere quando tornavo a casa da una partita di calcio, e mia madre pativa quelle maledettissime macchie marroni che pareva non volessero mai andare via. Così, gettava via i vestiti, e mi sculacciava. Non era una madre esigente, non è certo per educarmi che lo faceva: a lei mancavano i soldi, e una sola maglia, a volte, poteva valere metà del suo salario.
Già, eravamo proprio una famiglia precaria, povera e malvista. Vivevamo in una baracca a Midgar, assieme ad altri precari, poveri e malvisti della città. Ma chissà come, data la loro posizione, loro non tenevano a bada la loro lingua per una questione di somiglianza e comprensione, anzi sputavano ingiurie a me e la famiglia, ogni volta che ce ne sarebbe stata occasione.
Ricordo la vecchia bisbetica Ruby, che ogni volta che mi passava accanto, mentre giocavo a calcio, non mancava anche senza motivo di rimproverarmi per ciò che ero. E per ciò che secondo lei sarei diventato.
“Guardati, come sei sudicio! Uno scugnizzo malandato, ecco che sei! E quegli odiosissimi capelli rossi... Dio mio, sei tale e quale a tuo padre! Tale e quale anche nel sangue! Quello screanzato, assassino, malfattore che non è altro, marcirà nella prigione per tutta la vita! E tu, quando sarai grande, lo seguirai!”
Oh be'... per metà ha avuto ragione: non so se screanzato, ma assassino e malfattore lo sono diventato. Tutti credono che a qualcuno piaccia essere così, e puntano subito il dito, e sussurrano all'orecchio dell'altro, e dalle espressioni stizzite che hanno nel fare tutto ciò sai già che, anche se non sentirai ciò che si dicono, non raccontano certo nulla di buono. E sì, man mano ti convinci sempre più di essere della merda, come dicono loro.
Quando tornavo a casa, vedevo mia madre sedere sull'unico sgabello ancora utilizzabile, vicino al tavolo di legno consunto e circolare, e sopra di esso una bottiglia di whisky. Ogni giorno sempre una nuova. Forse quell'oggetto era l'unico dell'arredamento che cambiava periodicamente; e allora avevo l'impressione, anche se per un attimo, di non essere veramente povero.
A volte mi prendeva in braccio quando non era troppo fiacca, o alticcia, o a volte proprio quando lo era. E mi carezzava i capelli che al tempo ancora non ne avevo capito il motivo ma metà delle baracche di Midgar odiava. Sorrideva, a volte. Ma piangeva, per lo più. Io e il whisky eravamo l'unica ancora di vita, per lei. Il problema era il suo amore finito male, mi diceva, ma io ero troppo immaturo per comprendere quei discorsi. L'altro problema erano i soldi. Questo, però, lo capii subito. Senza che ci fosse bisogno del suo sfogo quotidiano: bastava il mio stomaco che, dopo essersi saziato con ciò che c'era a cena, continuava a brontolare, affamato. Quindi compresi che per far felice mamma dovevo avere soldi.
L'ingenuità, certe volte, è proprio spaventosa, perché oltre a portarti a compiere azione generose e caritatevoli, ti porta a compierne anche altre involontariamente terribili. Le mie furono inizialmente di lieve portata. Andavo nel centro della città, la parte più ricca, e lì mi divertivo a ficcare dentro le tasche degli inattenti le mie mani; i turisti erano senz'altro i migliori tra le prede. A volte capitava che trovassi un cumulo di polvere e qualche fazzoletto usato, ma altre volte avevo la fortuna di imbattermi in qualche giubbotto nobile, e quei giorni, anche se rari, ero fortunato. Tornavo a casa, e mettevo un soldo alla volta nella cassetta malandata dei risparmi di mia madre, ogni giorno, giorno per giorno. Non so se mia madre se ne sia mai accorta, o fingeva di non vedere. In ogni caso, la vidi più serena.
Un dì più nefasto, però, mi abbattei in una tasca un po' troppo ricca, e troppo nota. Mi accorsi troppo in ritardo della grassa giacca del presidente della Shinra; ormai la sciocchezza era stata fatta, e la guardia dietro l'uomo se ne avvide abilmente. Mi strattonarono come le bambine strattonano le proprie bambole, e mi calciarono, come un cane. E allora pensai, davvero, di star vivendo una vita da cane.
Ma adesso che ci penso, la cosa è un sacco divertente. Vita da cane... un detto che ormai non è più concerne ai tempi nostri: i cani, la loro vita, se la conducono fin troppo bene per i miei gusti. Hanno una casa sicura in cui tornare, vitto e alloggio garantito, e non solo: hanno anche l'amore gratuito del proprio padrone. La vita di un cane sarebbe senz'altro stato il mio più grande desiderio.
“Basta, per adesso,” ordinò il presidente. Mi lasciarono stramazzare in pace a terra, goffamente, ma non me ne vergognai, troppo incosciente che ero. Il presidente approfittò di me proprio per questa mia incoscienza.
“Di', bambino, ti servono soldi, vero?” mi chiese. Io annuii solamente. Quant'è vero che la bocca di un moccioso è sempre e dannatamente sincera, e di conseguenza stupida come pochi!
“Sai, potrei darti alcuni soldi, ma non le monetine che rubi per strada. Potrei darti tanti tanti tanti soldi...”
Guizzai le orecchie, proprio come una bestia. L'interesse era palesemente visibile nei miei occhi.
“Ma tu, però, dovrai fare un favore a me...”
Ascoltai silenzioso il macchinoso piano che aveva in testa quel pazzo. Dapprima ne rimasi spaventato, quindi lui mi diede un biglietto, l'indirizzo di un locale in cui soleva andare le sere, e mi disse che poteva trovarmi lì.
Quando tornai nella mia baracca, tutto il mio timore precedente svanì. Mia madre straziata, ancora una volta, mi diede la forza di osare. Il presidente era un pazzo, ed anche dannatamente furbo. Dopotutto, son proprio gli uomini come lui che salgono in potere, mica quelli dai buoni propositi che si vedono nei manifesti! Anzi, quelli sono la razza peggiore, perché nascondono la realtà con ipocriti intenti di buonismo. Ormai, quello schifoso mondo lo conosco come le mie tasche...
Solo quando crebbi un po' capii che il presidente mi aveva usato per il suo pazzo piano perché nessuno avrebbe dato una colpa ad un bambino per un omicidio, e lui ne sarebbe uscito indenne e con alibi ferrei ed indistruttibili. L'obiettivo era un nemico d'interesse per la sua azienda. E io dovevo ucciderlo.
Quel giorno usai un coltellino da cucina, piccolo ed economico, e macchiai per la prima volta la mia maglia di sangue.
Quando tornai a casa, con un gruzzolo talmente alto da non riuscire neppure a stare tra le mie misere mani, mia mamma sgranò gli occhi e fece cadere lo sgabello. Si ruppe. Era l'unico attrezzo ancora funzionante su cui potevamo sederci, ma ora non importava più: ce ne saremmo potuti comprare cento, tanto. Prese in mano le banconote, e cominciò a piangere, stringendomi a sé. Quella volta, ricordo che per la prima volta la vidi piangere di gioia.
Una madre ammirevole e invidiabile per chiunque. Sarcasticamente parlando, ovvio. Non ho mai vissuto quel tipo di amore materno che hanno avuto la metà degli altri bambini di questo mondo. Io facevo parte della metà sfortunata. Che peccato. Ma non m'importava, perché lei era felice. Non si preoccupò neppure della macchia che sporcava la maglia, stavolta, e non si preoccupò neppure del fatto che quel rosso che mi imbrattava, lei bene lo sapeva, era di sangue. Una madre, o una qualunque persona con un po' di buonsenso, mi avrebbe sgridato, si sarebbe rivoltata, mi avrebbe denunciato. Ma, si sa, il moralismo esiste tra le persone che se la vivono così bene da poter riuscire a giudicare gli altri. Mia madre non era tra queste. Nella miseria, i moralismi lasciano spazio alle disperazioni più indecenti.
Cominciai il mio giro nella Shinra in questo modo, continuai a farlo avvicinandomi sempre più al presidente, fino a diventare il Turk che sono adesso.
Mia madre morì un po' più felice, conducendo i suoi ultimi mesi tra le trapunte più rinomate di Icicle Inn e i mobili più costosi di Kalm Town, e ingrassando di qualche chilo. Ogni anno vado a trovarla al cimitero, bagnandole la lapide del whisky che ogni sera lei beveva, quando tornava a casa, inizialmente con il dissapore dell'amarezza, poi con il gradimento di una vita agiata e finalmente goduta.
Del come mi sia rammentato di tutta questa misera e poco invidiabile vita, neanche me lo ricordo. So solo che, smorzando in questo modo il mio tempo, ho scoperto che quell'inusuale metodo “limone e rhum” ha funzionato davvero. La mia giacca è bella come fosse nuova. La indosso, osservandomi allo specchio. E ripenso a quanto ho lavorato per arrivare qui...
E' sempre lavoro, il mio; che sia bello o brutto, buono o cattivo, di cui esserne fieri o vergognarsene, è una strada che è giunta a me da sola, senza che io potessi scegliere. Oh, voi direte che la scelta, invece, l'ho fatta io: io ho ucciso quel povero sconosciuto tanto odiato dal presidente, macchiandomi di sangue sin dalla tenera età. Se voi lo pensate, be'... posso dedurre che siate sazi nei vostri stomaci, agiati nei vostri soldi, caldi nei vostri vestiti; moralisti, certo. Siete sicuri che io potevo realmente scegliere? Se guardaste più a fondo la cosa, vi accorgereste che a volte anche ciò che sembra poter essere scelto è solo il tentativo di coprire con un velo emaciato ciò che in realtà è solo un obbligo, un unico appiglio alla bestialità della vita. Non c'era scelta, perché se non avessi fatto ciò che ho fatto, ora sarei morto. Anche mia madre avrebbe finito di vivere prosciugandosi l'acqua in corpo assieme all'esistenza per le perpetue lacrime amare che avrebbe continuato a versare fino all'ultimo respiro. Quando c'è povertà, quando c'è morte, allora non c'è scelta.
Ho imparato ad uccidere le persone con nonchalance, sapete; quasi con eleganza! Come ho fatto prima. Ho cercato di affinarlo, questo mio orrendo lavoro senza scelta, così da trarci anche i miei vantaggi. Avrò tutte le donne che vorrò, avrò potere e soldi, comprerò tre cani e li chiamerò con nomi di re, e ad ognuno di loro darò una villa, così da poter far condurre loro quella vita da cane di cui prima parlavo. Che volete farci, sono un mostro; un mostro abituato alle mostruosità che fa.
Indicatemi, con le vostra dita inquisitorie, ormai non me ne importa più: il mio senso di colpa è sparito alla prima coltellata sullo sconosciuto che ho ucciso per soldi, e al primo pianto di gioia di mia madre, e alla mia prima macchia di sangue.
La vita è un continuo macchiarsi di colpe. Chi se ne avvede continuerà a opprimersi l'animo con il senso di colpa, schiacciandosi pian piano, autodistruggendosi; chi non se ne avvede, come me, ci passa su un po' di limone e rhum, e tutto sparisce.
“Hai comprato una giacca nuova?”
Mi volto in direzione della voce. Rude. Già, come non avrei potuto riconoscerlo? Quel timbro che ha è così unico! Ero troppo assorto nei miei pensieri, probabilmente.
“No, amico. Limone e rhum, proprio come dicevi tu. E ha funzionato!” gli dico, contento. Lui caccia dalla bocca un riso sommesso, ma subito smette. Torna da Tseng, che è vicino al tavolo del buffet. Ci troviamo in uno di quei ricevimenti scassa coglioni che io odio tanto della Shinra. Una scusa mascherata in caviale gratis e vini di qualità per appurare che il lavoro sporco dei dipendenti più degradanti proceda bene. I Turk sono sempre i primi invitati; chissà come mai...
Credevo fossimo solo in tre. Ma vedo una nuova giacca blu. Sopra l'esile corpo di una donna. Mi avvicino quanto basta per poter ascoltare ciò che ha da dire a Tseng.
“Sono Elena. Sono nuova e sono poco esperta del mestiere, ma ce la metterò tutta!”
Che occhi terribilmente ingenui; proprio come i miei, quando ero ancora un moccioso. Che anche Tseng sia una maledetta volpe come il presidente?
“Bene,” dice soltanto, soddisfatto. Elena è l'ultima burba, quindi. Sarà divertente sfotterla quando ci andrò in missione insieme, quando la vedrò tremare come una foglia la prima volta che dovrà sparare a una persona, sperando che, dopo averlo fatto, lei non sia tra quelle che rimuginano quando si sentono colpevoli. Il mio consiglio che ho da darle esce dalle mie labbra involontariamente, quando la ragazza, scontrando con Tseng, fa cadere lo champagne sulla sua giacca.
“Oh no! Non si leverà con acqua e sapone così facilmente!”
“Prova con del limone e del rhum,” dico a lei, che mi guarda allibita.
Tutto ciò ha un che di sorprendentemente ironico...






  
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