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Autore: gleeismykriptonite    16/03/2013    4 recensioni
Olocausto. Anastasia.
L’olocausto è stato, e non dovrà essere mai più –cit.
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Olocausto
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Anastasia.

Anastasia.

Ti sei mai sentito come una piuma?
Una piuma appesa su un filo d’albero, pronta a cadere e a sgretolarsi dei suoi piccoli peli.
 
È così che mi sento da un molti mesi.
Una ragazza, una diciannovenne, più o meno, pronta ad essere ammazzata.
 
 
 
16 Novembre 1940
Dove ci portano?
Oggi hanno catturato me e la mia famiglia, tranne che mia madre.
Sapevo che sarebbe successo, un giorno. Ma io e la mia famiglia eravamo ben nascosti, ero giovane. Avevo solo diciotto anni, compiuti da poco.
«Stai tranquilla, Anastasia. Andrà tutto bene, vedrai.» Mi disse, nel carro con cui ci trasportavano, accarezzandomi una guancia.
Annui, dopo le sue parole. Mentre le lacrime rigavano il viso mio e di mia sorella, più piccola di nove anni, baciai la mano di mio padre e, poi, strinsi nella mia quella di mia sorella.
 
16 Novembre 1940, due ore dopo.
Ci fecero scendere da quel carro infernale dove eravamo uno sopra l’altro.
Ci fecero entrare, dopo qualche minuto, in un treno, altrettanto affollato.
Non c’erano sedili, solo tremila1 persone in ogni vagone. Ci fecero salire, ci buttarono dentro spingendoci. Guardarono mio padre, lo tirarono verso di sé, mentre cercavo di tirarlo, io, verso di me.
«Papà, no!»
«Lasciate mio padre libero! Siete cattivi!» Urlava mia sorella in lacrime.
Non volevo che mia sorella capisse dove stessimo andando, ma prima o poi doveva saperlo.
 
18 Novembre 1940, 05.36 del mattino.
Passammo una notte infernale, tra donne che piangevano e bambini spaventati.
Il treno, finalmente, si fermò e, i soldati, con tutta la forza che potessero avere, ci tirarono giù, facendo cadere anche qualche donna di proposito.
All’uscita vidi mio padre, in un altro vagone che mi cercava.
Senza che mi facessi vedere dalle guardie, presi mia sorella per mano e corremmo verso di lui.
«Papà! Papà!» Gli urlai.
«Anastasia! Sharon!» Corse verso di noi, spingendo una guardia che lo stava ostacolando.
La guardia sperò nel cielo, tutte le donne, che si stavano incamminando verso il campo gridarono, io misi la mano intorno alla bocca di mia sorella. Mio padre si fermò.
«Schnell, komm zurück!2» Gridò quell’uomo senza cuore.
Scese una lacrima sia a me che a mia sorella.
 
30 Marzo 1941
Ho quasi perso il conto dei giorni.
Qualche settimana fa ci hanno fatte spogliare, tutte, da testa a piedi. C’era anche qualche donna incinta.
Le hanno uccise subito, sotto i nostri occhi. Hanno puntato alla pancia, prima, e, poi, alla testa di quelle donne, Sharon vide tutto.
Adesso ci hanno portate tutte nel campo B-I-a3.
 
15 Giugno 1941
Hanno radunato tutti i bambini e le bambine, hanno cercato dappertutto e, infine, hanno preso anche Sharon.
Ho cercato di tirarla verso di me, in lacrime, ma mi hanno sbattuto a terra con uno schiaffo.
Sono uscita fuori. Più di trecento bambini messi su un camion, portati alle ‘docce’.
In quel momento mi cadde il mondo addosso, ancor di più.
Toccò, ieri, ai vecchi, oggi ai bambini. Non erano docce, erano camere a gas.

Agosto, credo. Ho perso il conto dei giorni, ormai.
Ho visto mio padre, oggi. Attraverso il filo spinato. Mi ha chiesto di Sharon. Era disperato.

Un giorno in più, forse due, forse qualche mese o anche un anno.
Stanotte sono uscita ed ho messo una coperta rossa, addosso, che ho tirato da una ragazza del campo.
Ci hanno fatto lavorare tutta la giornata. Ci hanno fatto trasportare dei massi giganti in un macchinario sconosciuto.
Finalmente abbiamo finito. Ho aspettato venti minuti, per riposarmi e aspettare che le guardie andassero nella loro baita. E poi sono uscita.
Non vedevo la notte da tanto tempo, da quando sono rinchiusa l’ho vista soltanto attraverso quel piccolo buco che faceva da ‘finestra’.
Incisi il mio nome e cognome nel terreno, poi la data in cui tutto iniziò: 16 Novembre 1960 e un punto interrogativo. Non sapevo che giorno fosse. Poi scrissi il mio numero, quasi scordavo anche il mio nome: 00569S2b. Togliendomi la camicia a righe che avevo, feci due passi in avanti.
Sembrava di stare sulla sabbia, in spiaggia.
Vi siete mai tuffati nel mare, di notte? Mi sentivo così, in quel momento.
C’era una piccola brezza che mi scompigliava i capelli raccolti, il cielo blu intenso e la terra che faceva da sabbia.
Mi gettai, come un tuffo, sul filo spinato che era a mezzo centimetro da me.
Il filo mi penetrò nella pelle, tutto. Un mare di sangue. Non era quello che immaginavo, ma così doveva andare.
Non avevo notizie di mio padre o mia madre, che non fu deportata per via delle sue origini tedesche, e mia sorella era stata uccisa. Non avevo da vivere più. Non sapevo se avevo compiuto già diciannove anni, o se ancora dovevo compierli. Però sapevo che un giorno, comunque, sarei morta.
 
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1. Tremila: si fa per dire. In ogni vagone c’erano centinaia di persone, ma agli occhi di Anastasia parevano tremila, tanti.
2. «Schnell, komm zurück!: In tedesco, significa: “Svelto, torna indietro!”
3. B-I-a: Si legge ‘B, primo a’. Era il campo femminile.
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Per ricordare: la Shoah.
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Grazie per essere arrivata/o fin qui.
 
L’olocausto è stato, e non dovrà essere mai più –cit.
  
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