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Autore: Puerto Rican Jane    17/03/2013    1 recensioni
Marzo 1967, New Jersey. Una giovane ragazza con problemi economici e familiari, in cerca di un amore per ribellarsi. Un ragazzo con un grande sogno da realizzare. Entrambi accumunati dalla voglia di scappare dalla città di perdenti in cui vivono.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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THE RIVER

 

CAPITOLO 1 (ME AND MARY WE MET IN HIGH SCHOOL)
 

Marzo 1967, New Jersey. Mary era seduta sul suo banco di scuola, ascoltando e prendendo appunti sulla lezione. Non poteva permettersi distrazioni, non lei. Doveva prestare sempre attenzione alle parole dei professori, in modo da non perdere una sola sillaba della spiegazione, così che nei test avesse potuto prendere un voto alto: la sua famiglia non aveva molti soldi, e lei riusciva ad andare a scuola solo grazie alla borsa di studio annuale. La campanella suonò. Non le piaceva molto l’intervallo: stava sempre sola in un angolo con i suoi pensieri. Non che volesse un compagno con lei; no, era un tipo solitario e preferiva poter riflettere da sola. Più che altro non le piaceva vedere quelle oche delle sue compagne comportarsi come delle stupide, con quelle risatine forzate, per cercare di far colpo su qualche giocatore della squadra di football. Proprio non le capiva: perché rinunciare alla propria libertà e, soprattutto, alla propria dignità per piacere a un ragazzo che ti considera come un oggetto di piacere?
Mentre era assorta in questi pensieri si accorse di non essere l’unica solitaria: poco lontano da lei c’era un ragazzo, alto, con capelli e occhi molto scuri e un naso piuttosto pronunciato, che scarabocchiava qualcosa su un foglio di carta sgualcito. Si avvicinò di qualche passo: era attirata da lui, principalmente per il fatto che, come lei, sembrava non rimpiangesse la solitudine piuttosto di essere affiancato da gente sciocca. Quando si trovò a pochi metri da lui e dal suo foglio, gettò rapidamente lo sguardo sul pezzo di carta per vedere cosa ci fosse scritto. Colse solo due parole “Bruce S.”, scritte sulla prima riga: doveva essere il suo nome. Cercò di ricordare dove aveva già sentito quel nome che le suonava piuttosto familiare: Bruce, Bruce, Bruce S. … Ma certo! Fu presa da un forte imbarazzo, ricordandosi che quel “Bruce S.” non era altro che proprio un suo compagno di classe: Bruce Springsteen! Si vergognò di se stessa, ma poi cercò di giustificarsi, vanamente, dicendosi che quel ragazzo sedeva sempre in ultimo banco, non parlava mai e molte volte era assente (perché marinava la scuola). Era piuttosto impopolare a scuola, non veniva preso in considerazione e nemmeno i professori volevano avere a che fare con lui. E spesso veniva preso in giro per la sua passione (sfrenata) per la musica rock’n’roll e le chitarre. Pensando a come veniva trattato, Mary decise di farsi avanti e provare a parlargli: una conoscenza non gli avrebbe di certeìo fatto male.
-Che stai scrivendo?- chiese Mary con il tono più cortese che riuscì ad esprimere.
-Cosa?- disse lui in risposta alzando gli occhi. Aveva una voce profonda e un po’ roca: una voce virile.
-Volevo sapere cosa stavi scrivendo… Ho visto che anche tu eri solo e che stavi scrivendo, e allora ho pensato che… che… che stessi facendo i compiti di lettere, e magari ti serviva un aiuto…- In realtà Mary non credeva minimamente a ciò che aveva appena detto, perché Bruce sembrava l’ultima persona al mondo a cui importasse qualcosa dei compiti di lettere e, più in generale, della scuola, ma non aveva saputo che altro inventarsi per attaccare il discorso. “Che idiozia che ho detto!” pensò tra sé Mary.
-Lettere? No, no…- replicò lui con un’aria divertita: sembrava averle letto nel pensiero –sto buttando giù qualche pensiero. Per le canzoni, sai…-
-Canzoni?-
-Sì. Mi esibisco proprio questo sabato in un locale ad Asbury Park. Canto alcune mie canzoni e qualche cover. Non si guadagna neanche male, così ho anche i soldi per la benzina. -
-Sul serio canti? E scrivi canzoni? Wow! Mi piacerebbe sentirti, qualche volta…- disse Mary ammirata. Si era sbagliata sul suo conto: non era solo. Lui aveva il suo mondo, fatto di musica, la migliore amica dell’uomo, la compagna più fedele.
-Beh, se ti va, questo weekend alle dieci e mezza al bar S*** ad Asbury Park. Puoi sentirmi lì. -
La campanella suonò di nuovo per segnalare la ripresa delle lezioni. Bruce si alzò pigramente e si diresse verso le scale che portavano alla loro classe, con Mary dietro. Le sarebbe piaciuto molto andarlo a vedere, ma suo padre non avrebbe mai acconsentito, anche perché non avevano un auto. Mary raggiunse Bruce di nuovo, un attimo prima che entrasse nell’aula, prendendolo per un braccio.
-Hai detto di avere la macchina, no? Non potresti darmi un passaggio sabato fino a quel locale? Noi… Beh, la nostra auto è a riparare. – Si vergognava sempre un po’ a dover ammettere che la sua famiglia non poteva permettersi una macchina, ed erano perciò costretti ad utilizzare i mezzi pubblici, così Mary diceva che la loro macchina non funzionava bene: non era molto plausibile, dato che suo padre era un meccanico, ma era l’unica scusa accettabile che le veniva sempre in mente in casi come quelli.
Bruce rimase un po’ spiazzato dalla proposta di Mary, ma subito rispose:
-Ehm, certo, basta che mi dici dove abiti. Però passerò alle otto, perché io e la band dobbiamo fare le prove e sistemare le attrezzature prima, perciò dovrai aspettare un po’ lì al locale. Va bene lo stesso?-
-Oh, sì, certo!- Mary non sapeva bene perché aveva reagito così d’istinto, chiedendogli un passaggio, ma sentiva di dover ascoltare quel ragazzo.
 
Durante le due ore che seguirono l’intervallo Mary non riuscì a concentrarsi sulla lezione di matematica: la sua mente era già a qual sabato che presto sarebbe arrivato. Ma era andata anche ben oltre. Già si immaginava quel ragazzo bruno dedicarle una canzone, rivelandole che l’amava da molto tempo, ma che lei non se n’era mai accorta. Si vergognò di se stessa di nuovo quando si rese conto delle sue fantasticherie: non era la prima volta che la sua mente (una mente molto romantica) vagava libera, concedendole tristi piaceri immaginari che non si sarebbero mai realizzati, su persone che a volte non conosceva nemmeno, ma che l’attiravano. Probabilmente la sua mente agiva così perché non aveva mai trovato un vero amore, quello che molte ragazze sperano di trovare, magari non proprio come quello delle fiabe, ma le bastava che fosse reale; allora cercava in persone sconosciute un lato nascosto e immaginario che le rendeva  l’uomo della sua vita che Mary continuava a cercare.
Si riscosse dalle sue romantiche fantasticherie solo quando il professor Brown cominciò a consegnare i compiti corretti di matematica. Mary non si preoccupava per sé: sapeva di essere brava a scuola; infatti prese una “A”. Ma dopo aver dato un vago sguardo alla verifica si volse verso gli ultimi banchi: il compito di Bruce era lì, sul banco, quasi completamente bianco, a parte una grande “F” rossa. Ma lui sembrava non vederla; i suoi occhi erano persi nel vuoto, quasi sognanti: forse già si vedeva sul palco con la chitarra a tracolla e un microfono davanti, dove ogni problema svaniva e c’era solo una cosa: il rock’n’roll.
Mary lo invidiava: al suo posto si sarebbe disperata per quel voto (interiormente, naturalmente: non sopportava pianti incontrollati in pubblico), mentre lui era tranquillo e beato nel suo mondo, nel quale era una stella. Mary, accorgendosi del fatto che stava fissando Bruce da qualche minuto, si girò di scatto, cercando di sembrare assorta dalle parole del signor Brown:
-Bene ragazzi, anche se siamo già a marzo voglio ricordarvelo lo stesso: a giugno riceverete il diploma, nel caso qualcuno lo avesse dimenticato. Ma se, e solo se, i voti delle vostre materie saranno tutti positivi. Quindi consiglierei a quegli asini che hanno preso “F”- e qui gettò uno sguardo ai ragazzi seduti negli ultimi banchi- di cominciare a studiare almeno adesso, se non vogliono passare un altro anno qui con me. –
In effetti i voti di Bruce non dovevano essere proprio bellissimi. Anzi, a dire il vero, probabilmente aveva tutte le materie insufficienti: e questo significava bocciatura. Certo, lei avrebbe potuto aiutarlo con lo studio, ma non le sembrava carino: era come ammettere di essere la più brava della classe e sbattergli in faccio di essere invece solo un povero sciocco. E inoltre, stava correndo troppo: si erano scambiati solo qualche parola, e Mary non solo gli aveva già chiesto un passaggio, ma aveva passato buona parte di quelle due ore a fantasticare su un loro amore inesistente e su dei loro possibili incontri di “studio”. Aveva la brutta abitudine di credere di piacere agli sconosciuti; forse per avere la speranza di un amico, quando nessuno la consolava mai nella sua triste solitudine.
Ma non ci fu però più il bisogno di continuare a fantasticare: infatti, mentre stavano uscendo da scuola, Bruce le si avvicinò:
-Senti, Mary,- aveva detto solo due parole, ma lei era già sorpresa: non solo per il fatto che le stesse rivolgendo la parola, ma anche perché conosceva il suo nome! –forse ti sembrerò un po’ sfacciato,- (qui Mary avrebbe potuto ridere molto: lui si sentiva sfacciato? Se solo avesse saputo quali erano stati i suoi pensieri solo fino a pochi minuti prima!)- ma ho bisogno di aiuto, e tu sei l’unica che in cinque anni mi ha detto più di due parole, e per di più senza l’intenzione di prendermi per il culo. Quindi volevo chiederti se mi potresti aiutare con lo studio. Sai, sono veramente uno zero a scuola, e quest’anno rischio seriamente. Potresti venire oggi da me dopo pranzo? O anche adesso, ti porto io in auto così non devi prendere l’autobus. Potresti?-
-Sì, certo, con piacere. Aspetta solo un attimo, avverto mia madre. – Si diresse verso una cabina telefonica vicina per chiamare i suoi genitori. Mentre componeva il numero pensava:
“Èdavvero così disperato da chiedere un aiuto a me? Mi sembra così strano… E se forse…”
-Pronto?- Era sua madre. Mary spiegò che doveva aiutare un amico con lo studio e che perciò non sarebbe tornata per il pranzo. Sua madre stranamente non fece obiezioni e la lasciò andare. Mary tornò da Bruce che la stava già aspettando in macchina: la mise in moto e partì. Accese la radio, cambiando stazione fino a quando non ne trovò una dove stavano trasmettendo una canzone di Elvis Preasley.
-Lui è il mio eroe: voglio diventare come lui, anzi, migliore di lui!-
-Sono sicura che ci riuscirai. – disse Mary seria, guardandolo. Lui si voltò verso la ragazza: i loro sguardi si incontrarono per pochi, tesissimi secondi. Poi entrambi distolsero frettolosamente gli occhi: lui tornò a guardare la strada, lei sembrò assorta dal paesaggio fuori dal finestrino. Dopo un po’ ripresero a parlare di musica per colmare quel silenzio: anche a Mary piaceva “the King”, ma anche la musica psichedelica britannica dei “Beatles” e dei “Pink Floyd”. Sapeva di non essere molto patriottica, ma in quel periodo aveva perso la sua fiducia nei confronti dell’America, da quando aveva intrapreso la disastrosa guerra in Vietnam.
-Sono assolutamente d’accordo. Molti ragazzi sono andati, e molti non sono tornati. E i pochi che sono tornati non sono stati più gli stessi. Mi ricordo il batterista nella mia prima band, era venuto fuori casa mia con la sua uniforme da Marines addosso, dicendomi che stava andando ma non sapeva dove. - rimase per qualche secondo a contemplare la strada, assorto dai suoi pensieri –Inoltre credo che se non finirà presto dovrò arruolarmi: a settembre compio diciotto anni. Ma soprattutto non voglio entrare nell’esercito (a parte naturalmente il fatto che se parto ritornerò in una bara o non ritornerò affatto) perché mio padre lo vorrebbe. Odio mio padre. Li vedi i miei capelli? Questi sfottuti capelli?- disse Bruce indicandosi i ricci che aveva in testa –Bene, fino a qualche mese fa li avevo lunghi oltre le spalle: era un segno di ribellione, per me, contro la campagna in Vietnam e contro il governo. Ma mio padre non lo capiva. Poi ho avuto un incidente in motorino, dove mi sono rotto una gamba. Ero relegato a letto, non potevo muovermi, e mio padre chiamò un barbiere. E mi tagliò i capelli. Allora ho giurato di odiarlo, e che non l’avrei mai dimenticato.
-Lui è quel genere di uomo patriottico, adorante del paese, ma che non si rende conto che è proprio lui che gli toglie i soldi, dopo avergli rotto la schiena facendolo lavorare tutta una vita. –
Bruce fermò la macchina. Si trovavano davanti a una tipica casa americana, con una grande veranda. Mary fece per dirigersi verso la porta principale, ma lui la prese per un braccio, dicendole:
-No, non davanti. Non voglio che i miei ti vedano. Cominceranno a urlare qualche stronzata sul fatto che io… Non faccio mai niente, ecco. O… Cose simili. E non voglio che ti diano questa accoglienza. -
Quindi entrarono da una porta sul retro. Salirono le scale ed entrarono in una stanza dalla porta un po’ consunta.
  
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