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Autore: bibliophile    19/03/2013    2 recensioni
Shoah. Shlomo e un gabbiano, entrambi con un unico desiderio: essere LIBERI.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Sono Shlomo, ho 15 anni e amo cantare; vengo da Varsavia, ho due genitori e due sorelle, Elisheva e Leah.
Ho, o meglio avevo. Avevo perchè non ho più una famiglia; la mia sembra la storia di un qualunque ragazzino, ma non è così. Io non sono nemmeno un ragazzino, sono un numero. Il numero 162345.
Sono un numero e vivo ad Auschwitz.

Sono nato a Varsavia nel 1929 in una famiglia felice e ebraica; la mia infanzia è stata spensierata: quando sono nato Elisheva aveva già tre anni e quando io ne avevo tre è nata anche Leah. Ci divertivamo a giocare a nascondino nella nostra casa grande, a travestirci da principi, cavalieri e principesse, a mettere in scena spettacolini aiutati anche dai nostri cugini che ci raggiungevano per le feste. In quelle occasioni io cantavo sempre: iniziavo a prepararmi su alcune canzoni settimane prima così che, quando la famiglia si riuniva, ero sempre contento di mettermi in mostra e di ricevere i complimenti di tutti, soprattutto del mio nonno Yaacov.
Quanto mi manca il mio nonno Yacoov, ora è morto, nelle camere a gas.
Ero felice, fino a quando i Tedeschi hanno invaso la Polonia. 1 settembre 1939.
La situazione per noi ebrei polacchi si fece subito critica, ma mai come nell'anno successivo, con la costruzione del ghetto nella nostra città. La mia famiglia, quella dei miei cugini insieme a tutte le famiglie ebree della città furono costrette ad abbandonare la propria abitazione per trasferirsi lì; motivazione: si dovevano evitare le epidemie. Noi non capivamo, non volevamo, ma siamo stati costretti.
Abbiamo vissuto lì dentro tre anni, con contatti all'esterno sempre più radi e in condizioni abbastanza pietose. Mi mancavano la mia casa, il mio giardino, i miei giocattoli, i miei travestimenti. Ero stato costretto ad abbandonare tutti i miei amici non ebrei. Volevo andare via da lì, dal grigiore oppressivo del ghetto; sognavo le gite fuori città che facevo da bambino, i fantastici pic nic con i nonni e i cugini...
Poi ci hanno portati via. Mi ricordo perfettemente: un giorno sono arrivati i soldati, tanti soldati. Avevano tutti la croce uncinata sull'uniforme. Parlavano tedesco, non ci capivo molto. Hanno chiamato dei nomi: tra questi c'erano anche il mio e quello di tutti gli altri miei familiari. Abbiamo dovuto preparare le valigie: mi ricordo che mamma ha insistito che tutti scrivessimo il nostro nome in caratteri leggibili sulla valigia; ho scritto bello in grande ''SHLOMO BOBEK'' così avrei potuto riconoscere la mia valigia tra quelle di tanti altri.
La mattina seguente siamo andati nella piazza del ghetto: c'era moltissima gente. I soldati che avevo visto il giorno prima hanno fatto l'appello e poi ci hanno fatti salire sul treno, ma non uno come quelli con cui andavamo a trovare gli zii lontani, ma un treno da bestiame.
Nella nostra carrozza eravamo tantissimi: dovevamo stare tutti in piedi, gli uni vicini agli altri. C'era molta puzza. Mi ricordo che a un certo punto mi hanno chiesto di cantare, e io ho cantato; eravamo tutti molto tristi, ma cantare mi ha fatto sentire meglio, mi ha ricordato gli spettacolini che facevamo io e le mie sorelle.
Siamo arrivati dopo non molto, circa quattro ore, credo; hanno aperto le porte del treno e ci siamo trovati davanti l'inimmaginabile: la banchina era piena di SS che gridavano qualcosa in tedesco, strattonavano la gente, ci picchiavano e ci spingevano da qualche parte...
Ci hanno divisi: le donne da una parte e gli uomini dall'altra. Ho cercato di salutare almeno mia madre e le mie sorelle, ma non sono riuscito a trovarle in mezzo alla folla.
Mamma, mi manchi, tanto.
Nel frattempo ci hanno messi in fila e ci mandavano un po' a destra e un po' a sinistra: io ero a destra, insieme a papà, ma il nonno è finito a sinistra. Non capivo perchè, pensavo ''Magari gli anziani li portano da qualche altra parte'', ora ho capito che stava andando a morire, laggiù, nella camera a gas.
Noi della fila di destra siamo stati condotti in una baracca dove ci è stato ordinato di spogliarci, siamo stati rasati, ci hanno tatuato il numero e abbiamo fatto la doccia. Poi, nudi e infreddoliti, siamo dovuti uscire per andare in una baracca dove avremmo passato la notte.
Eravamo ad Aschwitz e non eravamo più persone. Io ero 162345.
 
Sono passati quasi nove mesi da quel giorno. In nove mesi Shlomo non è altro che un mucchio di ossa ricoperto di pelle, con un'orrenda cicatrice sul polpaccio destro che rende la gamba inutilizzabile.
Nient'altro.
Ieri c'è stata la selezione: sono andato a sinistra, la SS ha segnato il mio numero. Ovvio, non sono produttivo con questa gamba, sono inutile, un pezzo difettoso che non può contribuire alla grandezza del Reich.

Mi hanno appena chiamato: gli ufficiali che stanno facendo l'appello mi hanno chiamato.
La mia vita sta per finire.
Non ascolto più, non mi preoccupo più di quello che succederà, tanto devo morire.
Sono felice: papà se ne è andato due mesi fa, con un colpo di pistola sulla nuca; era inciampato, facendo cadere la pietra che stava trasportando e la guardia l'ha ucciso. Un ebreo in meno, un numero in meno: nulla di importante. Tra poco rivedrò lui, mamma, le mie sorelle, il mio amato nonno.
L'appello è finito. I numeri chiamati rimangono in piazza: ci sono anche io. Canto. Canto una canzone che avevo imparato da bambino, a scuola. Parla di un gabbiano.
Al mare non ci sono mai stato, non ho mai visto un gabbiano, ma ho visto l'illustrazione sull'enciclopedia della biblioteca. Sono grandi uccelli bianchi, belli, maestosi.

Il gabbiano della canzone è a terra, non può volare. Ha un'ala rotta e per questo gli uccelli più grossi si fanno beffe di lui, piccolo, insignificante, inutile, difettoso.

Stiamo andando dove nessuno vorrebbe andare: siamo al Crematorio 5. Ci fanno entrare e ci conducono sotto la struttura in una sala enorme dove dobbiamo spogliarci di tutti i nostri averi: ormai non servono più.

Il gabbiano è triste, è solo, non si sente più degno di stare con gli altri: si sente inutile e privo di dignità.

Alcuni uomini, che deduco facciano parte del Sonderkommando, entrano nella sala e aiutano i più deboli a spogliarsi, cercano di convincere i più indecisi. Io, nonostante la gamba inferma, ce la faccio da solo.
Sono nudo.
Qualcuno non capisce dove siamo, è disorientato, si rifiuta di spogliarsi per pudore. Io no, io non ho più pudore, l'inferno di questo posto mi ha tolto anche quello, mi ha tolto tutto: il nome, i capelli, la salute, i vestiti, la gioia, anche il pudore. Non sono più una persona, sono 162345 e non ho nè dignità ne diritti.

Anche il gabbiano è nudo: le sue debolezze sono messe a nudo, ben visibili a chiunque lo noti; si rintana dentro di sè, diventa apatico, si estranea dal mondo reale. Rimane così per tanto tempo.

Dobbiamo lasciare lo spogliatoio: ormai siamo tutti nudi, tutti. Uomini, donne, vecchi e giovani. Tutti con la stessa testa rapata e un numero tatuato sul braccio.
Entriamo in una sala bianca, tutta bianca. Sembra una stanza delle docce. Ci pigiano dentro tutti-saremo almeno un centinaio- e chiudono la porta.
Panico.
La gente urla e io canto.

Il gabbiano si sente meglio, l'ala è guarita.

Fuori spengono e riaccendono le luci destabilizzando ancora di più noi, rinchiusi qui dentro. Gli altri urlano e io canto, canto, canto sempre più forte...

Il gabbiano esce da sè stesso e si avvicina alla scogliera: guarda il mare.

La luce è spenta.
Da dove dovrebbe uscire l'acqua esce gas. Eccolo, il famoso Zyklon B. Lo respiro e continuo a cantare.

Il gabbiano apre le ali e, ricordandosi perfettamente come si fa, prende il volo. Si alza sempre più in alto: vola.

Allargo le narici: inspiro profondamente il gas.
Ecco, sono sulla scogliera, passo in avanti, apro le braccia, passo in avanti, chiudo gli occhi.
Silenzio.
Spicco il volo e apro gli occhi: sto volando e sono sul mare, questo è il mare e sto volando!! Volo, volo, volo!!!
Alzo la testa e li vedo: mamma, papà, Elisheva, Leah, la nonna, il nonno! Li vedo, mi sorridono e, felice, volo verso di loro. Libero.
 
  
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