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Autore: GingerHair_    20/03/2013    12 recensioni
In revisione.
Capitoli revisionati: 2/15

Sono passati molti anni da quando la celebre band degli One Direction si è formata. Dopo alcuni anni di attività insieme, si sono sciolti, perché Harry e Louis, due dei cinque componenti, hanno dichiarato di essere gay e di stare insieme.
Ora vivono insieme in un appartamento moderno a Londra, felici di poter finalmente stare insieme, ma non hanno fatto i conti con un qualcosa nel passato di Louis che potrebbe creare nuovi scandali e accendere vecchie gelosie ormai sopite.
Genere: Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Allora, prima di lggere la storia volevo fornirvi una breve introduzione: questa storia mi è venuta in mente pensando cosa succedesse se Louis e Harry fossero veramente gay e i manager li stessero obbligando ad uscire con altre ragazze. Allora ho pensato cosa potrebbe sucedere se uno di loro due avesse messo incinta una ragazza e poi la figlia, una volta grande, l'avrebbe cercato.
Nella storia gli One Direction come band non esistono più, ma spiegherò più tardi i motivi per cui si sono sciolti e cosa fa ognuno di loro per guadagnarsi da vivere.
Spero che la storia vi piaccia e spero di ricevere anche critiche costruttive, perchè voglio potermi migliorare ♥
Un bacio e buona lettura ♥
ps: il banner è stato fatto da Sara_Scrive




Capitolo 1


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Quel giorno ero in preda al panico. Ero sicura di essermi dimenticata qualcosa, ma non riuscivo a ricordare cosa di preciso, perciò ricontrollai il mio borsone almeno mille volte per essere sicura che quella che era una sensazione rimanesse tale.
Dentro non c'erano molti oggetti, giusto l’essenziale per passare qualche notte fuori: un cambio pulito, il pigiama, lo spazzolino, il deodorante, la spazzola… cose così, insomma. Ero così emozionata che mi portai anche due dentifrici.
Mia madre, che cercava di evitarmi da quando mi aveva dato la notizia, non mi parlava molto, se non per chiedermi se avevessi portato tutto e se Stacey fosse pronta ad accogliermi a casa sua.
Ovviamente io le rispondevo che non c’erano problemi e che lei era sempre felice di vedermi, ma le madri, soprattutto la mia, non ti lasciavano in pace nemmeno un secondo.
 
La mattina in cui partii, dopo aver controllato il borsone un’altra volta, chiamai un taxi per farmi portare alla stazione, dato che mia madre non aveva la patente. Quando le feci notare che il taxi sarebbe potuto costare più di quello che ci potevamo permettere, lei mi disse che mi sarei fatta restituire i soldi da mio padre, disse quell'ultima parolacon tutto il disprezzo che poteva, aggiungendo che tanto lui non aveva problemi economici, come invece accadeva a noi. Peccato che non avesse preso in considerazione l'ipotesi che lui avrebbe potuto sbattermi la porta in faccia senza darmi nulla, latro che soldi del taxi.
« Ally? » mi chiamò poco prima che il taxi partisse. Era l'unica che poteva abbreviare così il mio nome, a tutte le altre persone dicevo di chiamarmi sejmplicemente 'Allyson'.
« Sì? » le chiesi. La guardai per un secondo, era la solita madre premurosa di sempre, quella che mi era venuta a salutare il giorno della mia partenza sul marciapiede, con indosso solo delle ciabatte ed una vestaglia, perché, anche se era un po’ arrabbiata con me per la mia decisione, mi voleva bene e mi avrebbe supportato sempre e comunque.
« Ti voglio bene ». Mi disse infatti.
« Anche io te ne voglio, mamma »  le risposi.
Entrai nel taxi, dissi al conducente di andare alla stazione di King's cross (sì, proprio quella dove c'era il binario nove e tre quarti) e poi mi infilai le cuffiette, misi la playlist “Ecco, sto partendo”, creata apposta per l’occasione, che comprendeva un miscuglio di canzoncine allegre, ma per cui non impazzivo e il tassista guicò l'auto verso la destinazione. Avevo la fissa di fare diverse playlist a seconda delle cose che facevo.
Arrivai alla stazione dopo circa 20 minuti, pagai il tassista, usando quasi tutti i miei risparmi  fra l’altro, e mi diressi verso il binario dove partiva il mio treno, il numero sei.
Erano le dieci e tre quarti quando salii e trovai un posto libero vicino al finestrino, accanto ad un ragazzo davvero niente male; cercai di fare l’indifferente, misi il borsone sul porta bagagli e mi sedetti, continuando ad ascoltare la musica. Il treno sarebbe partito alle undici e due minuti (non capivo perché non potesse partire alle unidici e basta), per cui feci tutto con molta tranquillità.
Il ragazzo si voltò verso di me e mi salutò, così ricambiai.
Alle undici e due, puntualissimo, il treno partì e mi tolsi le cuffie, perché volevo telefonare a mamma.
Il telefono era occupatocome al solito: mia madre non rispondeva quasi mai, perché non le piaceva la tecnologia e lasciava sempre il cellulare spento.
« Cosa ascolti di bello? » mi chiese il ragazzo vicino a me.
« Niente di che » gli risposi. Ero piuttosto una frana nelle conversazioni, ma mi imposi di mantenere la calma e di socializzare con il ragazzo.
« Come ti chiami? » gli chiesi.
« Brad » mi disse lui. « Tu? »
« Allyson » non impazzivo per il mio nome, anzi non mi piaceva affatto.
Lui mi porse la mano e io gliela strinsi.
« Scusa, ho le mani sudate » gli dissi in imbarazzo, forse non era la cosa più adatta da dire… per tutta risposta il ragazzo si mise a ridere.
« Tranquilla » disse con una scrollata di spalle.
« Vai a Londra anche tu, vero? » gli chiesi. Ecco, un’altra domanda ovvia. Eravamo sul treno diretto lì, dove altro sarebbe potuto andare? Proprio non ce la facevo, ero un caso disperato.
« Sì, i miei sono separati, mio padre vive lì, mentre mia madre vive a Dover » mi disse amareggiato, probabilmente l’argomento lo faceva soffrire.
« Tu sei di lì? » mi chiese lui dopo un po’.
« Oh, no. Anche io abito a Dover, sto andando da mio padre » gli dissi in tono sbrigativo.
Mia madre mi aveva detto di non parlarne in giro per non far spargere la voce, poi io non ero molto intenzionata a raccontare la mia storia.
Chiacchierammo del più e meno durante il viaggio e quando arrivammo ci salutammo e ci scambiammo i numeri di telefono. Non ero ancora arrivata a Londra e già avevo il numero di uno strafigo pazzesco. La cosa mi andava parecchio a genio.
Uscii e mi diressi verso la metropolitana, sapevo dove dovevo andare perché avevo visto il percorso sul google maps moltissime volte.
In poco tempo arrivai a destinazione. Dato che era mezzogiorno, ero indecisa se fermarmi a mangiare o no, ma alla fine l’ansia mi fece tirare dritto fino alla casa davanti a me.
Era un edificio enorme e moderno, con grosse vetrate e un sacco di piani. Mi rigirai il bigliettino che avevo fra le mani, era così consumato che a stento si poteva leggere ciò che c’era scritto, ma non mi importava, perché me lo ricordavo a memoria.
“Piano 8, appartamento 119”
Presi l’ascensore e cliccai più volte sul bottone, nonostante sapessi di non poter aumentare la velocità di discesa. Finalmente le porte si aprirono con un fastidiosissimo ‘dlin’ ed io entrai. Mi innervosii un attimo, perché avevo paura degli ascensori, temevo di rimanerci chiusa dentro e di non uscire più. Mandai un messaggio a mamma, nella speranza che lo leggesse e che non eliminasse direttamente come faceva con gli altri.
“Sono arrivata e sto bene. Ti chiamo questa sera.”
Arrivai davanti alla porta dell’appartamento numero 119 e rimasi con il fiato sospeso quando lessi gli indirizzi sul citofono. Già quando mia madre mi aveva detto chi fosse mio padre l'avevo preso come uno scherzo, ma ora che sapevo che tutto ciò era reale ero spaventata, mi tremavano le mani e sentivo le gambe molli.
Con il cuore a mille e le mani tremanti suonai il campanello. Deglutii e aspettai che qualcuno mi aprisse. Sentii delle risate, un rumore di passi e la serratura che scattava, facendo aprire la porta. L’uomo che apparve sulla soglia mi fece gelare il sangue nelle vene: era proprio come l’avevo sempre immaginato. Avevo anche trovato molte immagini di lui quan'era giovane, ovvero quando mia madre lo conosceva, e dovevo ammettere che stava invecchiando bene, niente capelli bianchi, sul suo volto non c'erano nemmeno delle rughe, solo che i suoi caratteristici occhi azzurri erano un po' più chiari.
Non riuscii a dirgli nulla, rimasi a fissarlo estasiata.
« Ehm… e tu saresti? » mi chiese lui leggermente in imbarazzo.
Aveva i miei stessi occhi.
Cosa avrei dovuto dirgli? Come mi sarei dovuta rivolgere a lui? Dopotutto sapevo che quella che dovevo dargli non era una notizia da prendere troppo alla leggera.
« Io… io sono… » le parole non mi venivano.
« Tu sei? » chiese lui leggermente spazientito.
Tamburellava con un piede per terra. Probabilmente si era già pentito di aver aperto la porta, magari pensava fossi una specie di venditrice ambulante o una testimone di Geova.
« Ciao Louis, io sono tua figlia » gli dissi tutto d’un fiato.
Lo vidi sbiancare.
« Cosa? » chiese sbalordito.
« Sono tua figlia » gli ripetei con un filo di voce.
« Lou, chi è alla porta? » chiese un uomo riccio comparendo alle sue spalle.
Sapevo chi fosse perché avevo visto anche le sue di foto su internet e poi dopo il loro grande annuncio non facevo altro che trovare foto di loro due insieme, che mi spuntavano praticamente ovunque.
Ero rimasta scioccata dalla reazione che avevano avuto tutti quanti a quel tempo, anche se un po' me lo sarei dovunta aspettare, in fondo erano stata una dell boy band più famose.
Louis sospirò.
« Entra » disse rivolto a me.
« Harry, credo che devo spiegarti un po’ di cose » disse leggermente teso.
« Cosa succede? » chiese Harry perdendo il sorriso. « Lou? »
Entrai e mi fecero accomodare su un divano in salotto.
La loro casa aveva uno stile molto moderno, anche se i colori erano molto monotoni.
« Come ti chiami? » mi chiese Harry.
« Allyson » dissi agitata.
« Allora, Allyson, mi spieghi come fai ad essere mia figlia? ».
 
 
   
 
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