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Autore: Florinda_Joh    20/03/2013    2 recensioni
[...] Era rimasto solo, solo in quella devastazione. Gli altri soldati se n'erano già andati, lui no: come ogni volta rimaneva ad ammirare fino alla fine quel nauseante spettacolo. Ogni volta. Una sensazione strana, simile all'eccitazione, gli lasciava un solco nell'anima, così profondo da farlo quasi tremare. Il suo stomaco si contorceva dal disgusto, mentre la sua sete di sangue continuava ad aumentare. Sensazioni differenti, se non opposte, certo, ma non così tanto lontane da staccarsi, attratte come da un innaturale e seducente amore, quasi diabolico.
I suoi occhi grigiastri s'incantarono sul sangue che continuava a scivolare dalla lama. "Quanti?" Sentì una voce dentro di sé, "Quanti ne hai uccisi? Quando si fermerà la tua sete?" Ci rifletté per un istante: non lo sapeva. Assurdo? Sul suo volto si disegnò un ghigno amaro, no, semplicemente naturale. Lui era il Cavaliere Scarlatto e la sua fama lo precedeva in ogni dove: si diceva fosse il figlio bastardo delle tenebre, un demone venuto dal centro infuocato del mondo al solo scopo di portare distruzione. Nessuno sopravviveva al suo passaggio, se lui così aveva già stabilito.
Genere: Azione, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Il Cavaliere Scarlatto


Ad un tratto fu silenzio nella pianura. Nessuno fiatava: erano tutti morti.
Fissò pensieroso la spessa nebbia attorno a sé che s'insinuava fra le sagome dei soldati mutilati. Ad un tratto si liberò dell'elmo e con il dorso della mano si ripulì la fronte grondante di sudore. Eppure non era stanco. Alzò lentamente la lama e la sfiorò, sentendo il sangue non ancora rappreso inumidirgli le dita. In quel momento si alzò il vento e una vampata di odore dolciastro gli fu addosso. Rimase pacatamente immobile, quasi senza accorgersene, mentre i suoi capelli neri venivano confusamente arruffati nell'aria.
Era rimasto solo, solo in quella devastazione. Gli altri soldati se n'erano già andati, lui no: come ogni volta rimaneva ad ammirare fino alla fine quel nauseante spettacolo. Ogni volta. Una sensazione strana, simile all'eccitazione, gli lasciava un solco nell'anima, così profondo da farlo quasi tremare. Il suo stomaco si contorceva dal disgusto, mentre la sua sete di sangue continuava ad aumentare. Sensazioni differenti, se non opposte, certo, ma non così tanto lontane da staccarsi, attratte come da un innaturale e seducente amore, quasi diabolico.
I suoi occhi grigiastri s'incantarono sul sangue che continuava a scivolare dalla lama. "Quanti?" Sentì una voce dentro di sé, "Quanti ne hai uccisi? Quando si fermerà la tua sete?" Ci rifletté per un istante: non lo sapeva. Assurdo? Sul suo volto si disegnò un ghigno amaro, no, semplicemente naturale. Lui era il Cavaliere Scarlatto e la sua fama lo precedeva in ogni dove: si diceva fosse il figlio bastardo delle tenebre, un demone venuto dal centro infuocato del mondo al solo scopo di portare distruzione. Nessuno sopravviveva al suo passaggio, se lui così aveva già stabilito.
Conficcò con forza la spada del terreno, le gemme sull'elsa brillarono, incrociando il raggio del sole che timidamente era comparso dalle nubi. Fu un attimo e poi sparì di nuovo.
"Cosa ci trovi? Che ti spinge a farlo?" Continuò la voce, in un singhiozzo. Scosse il capo per scacciare quel lamento di rimorso. Tentò di schiacciarlo, di sottometterlo, ma quello continuava a resistere, forse più debolmente, ma lui continuava a gridare, con tutta la voce che aveva: combatteva per la sopravvivenza, combatteva come tutti i soldati che prima di lui erano stati uccisi dal Cavaliere. Non si piegava, non si sarebbe mai spezzato. "Perché? Perché?" Continuava a chiedere, "Fermati! Non farlo!" Urlava. Abbassò il capo, ogni volta era la stessa storia, lo sapeva.
Tutto era iniziato quando aveva sette anni, ricordava bene quel chiaro mattino d'aprile: il cielo era azzurro, senza nemmeno una nuvola e lui correva, correva lungo il fiume dietro a suo fratello John.
Ah, sì, suo fratello, il solare e sorridente John. Quel ragazzino aveva tutto: era alto, forte, biondo, bello, senza l'ombra di un'imperfezione, dagli occhi neri e lo sguardo fiero. Tutto il contrario del Cavaliare, nato gracile e malaticcio. Sua madre lo adorava: "John, John, John!" Non faceva altro che chiamare con voce colma d'orgoglio e sentimento, come fosse un miracolo sceso in terra. Lo ricopriva di attenzioni, di quell'affetto che spesso e volentieri strappava all'altro figlio. Nulla sembrava capovolgere la situazione: qualunque cosa il bambino facesse John vi riusciva meglio e con la metà dello sforzo.
Più i due fratelli crescevano, meno si somigliavano e la gelosia aumentava nel petto del bambino, dolorosa quanto un pugnale.
Quella mattina di aprile sembrava essere la migliore del mese: con l'arrivo del caldo, i ghiacciai si stavano sciogliendo, così che il fiume sembrava stesse straripando. La corrente era forte e i pesci, eccitati dall'arrivo della primavera, guizzavano gioiosi fra i flutti. Il bambino correva dietro al fratello, ma non riusciva a raggiungerlo: le sue gambe erano corte e storte e si sentiva già mancare il fiato. Così si fermò, mentre la gola gli bruciava, raschiata dalla saliva amara. Vide John tornare indietro e fermarsi a pochi passi da lui, proprio sulla riva del fiume. Lì iniziò a deriderlo, come faceva sempre in quei momenti, come la loro madre involontariamente aveva lui insegnato. Un fugace lampo d'odio balenò nello sguardo dell'altro e in un attimo gli fu addosso. Con tutta la forza che possedeva lo aveva colpito alle spalle, facendolo cadere all'indietro. Non fu una grande spinta, ma John non se l'aspettava, così inciampò dritto nel fiume. Il gelo improvviso lo sorprese, mentre la corrente subito lo raggiunse, avvolgendolo fra le sue forti braccia d'acqua. Il bambino, sbigottito, come primo istinto volle aiutarlo: chiamò aiuto, ma nessuno lo udì. Allungò così una mano verso di lui, fu sul punto di agguantarlo, ma qualcosa lo fermò: fu un attimo d'incertezza. E se John non fosse più esistito? Il suo sguardo si fece vacuo. A chi si sarebbe riversato tutto l'affetto di sua madre? Iniziò a ritrarre la mano. Chi sarebbe stato il figlio prediletto? Bastò qualche secondo e John venne risucchiato dai flutti.
Aveva appena sette anni allora, non era davvero cosciente di cosa fosse la morte, ma quell'attimo gli aveva portato piacere. Una sensazione strana, qualcosa di nuovo: avere fra le mani il destino di un altro. Mai un potere così grande era stato lui concesso, a lui che spesso aveva vissuto nell'ombra.
Nemmeno una lacrima versò, nemmeno l'idea di un qualche rimorso per la morte del fratello, neanche davanti alla madre disperata, piegata dal pianto. Niente. Ma questo era soltanto l'inizio.
Col passare degli anni divenne più robusto e si rafforzò, mentre il ricordo di John si faceva sempre più velato nelle menti degli abitanti del villaggio, finché di quell'incidente nessuno parlò più.
Aveva quindic'anni quando accadde il secondo evento che gli cambiò la vita. Avvenne a metà pomeriggio in una giornata d'inverno, quando tutto si era tinto di bianco. Stava tornando a casa accompagnato dai colori del tramonto, in groppa alla sua fidata cavalla. Il suo nome era Rena, come la spiaggia su cui era nata molti anni prima. Nonostante l'età, era bellissima: bruna con una macchia bianca appena sopra il naso, un esemplare ancora capace di gettare invidia a chiunque.
L'arancio così intenso del tramonto invernale accese in lui un'inspiegabile voglia di correre, di sentirsi libero. Picchiettò allora quasi involontariamente con i talloni Rena e quella accellerò. Iniziarono così a correre sempre più veloce, "Vai, vai!" Continuava a gridare il ragazzo per sovrastare il continuo tamburellare di zoccoli. Sembravano essere una cosa sola, padrone e animale, un unico corpo fatto solo di energia. La cavalla ansimava, ma non per questo decisa a fermarsi, mentre il ragazzo si stringeva forte alla sella, quasi da farsi male alle gambe. Ad un tratto davanti a loro videro un fosso e il pensiero di poterlo saltare balenò nella mente di entrambi. Senza nemmeno un comando l'animale saltò. Ci fu un tonfo e il ragazzo si ritrovò ruzzolare a terra, molti metri avanti. Riaprì gli occhi e senza nemmeno accorgersi delle fitte al braccio, raggiunse immediatamente Rena. La cavalla era a terra, incapace di alzarsi, incapace di muoversi: aveva una zampa rotta. In quello stato non c'era più nulla da fare, nessuno avrebbe mai più potuto cavalcarla. Tutti sapevano cos'era giusto fare in quei casi. "E' per il tuo bene." Bisbigliò piano il ragazzo estraendo il pugnale. A quella vista la cavalla iniziò a gridare, grida disperate neanche fossero umane. Non voleva farlo, ma che scelta aveva? Nessuna. Ignorò i lamenti e alzò in alto la lama. Fu un colpo forte e deciso quello che perforò a Rena il collo. Il sangue schizzò sulla neve, iniziando poi a zampillare dal taglio. In un ultimo grido le forze abbandonarono la cavalla e la morte arrivò.
Il ragazzo, ormai uomo, si ritrovò a camminare nel bosco come un ubriaco senza meta, con ancora le mani sporche di sangue. Il sole era ormai tramontato e già si potevano scorgere le prime, timide stelle. Aveva ucciso Rena, si sentiva sbigottito, disgustato e per la prima volta provò vero rimorso.
Quella notte non chiuse occhio, fin troppo turbato, come avrebbe potuto dormire? Non fu però solo perché la Voce per la prima volta parlò lui. Era la voce di suo fratello. "Che cos'hai fatto? Come hai potuto?" Gli ripeteva nella mente. Come in un incubo riconobbe John sommerso dai flutti, rivide se stesso impassibile e sentì gli urli strazianti di Rena rimbombare in lontananza. Per un attimo gli sembrò d'impazzire, dilaniato dalla paura e dal rimorso. Per la prima ed unica volta pianse.
Al quel ricordo il Cavaliere ebbe un brivido involontario e di colpo serrò la mano insanguinata. Era vero: conosceva il rimorso e fin troppo bene, ma aveva imparato anche a non rimanerne schiavo. Quella stessa notte si era reso conto che un'altra sensazione lo stava possedendo: era il piacere. Il piacere greve, inumano, diabolico di portare qualcun altro alla morte. Arrivò al punto di non poterne far a meno, come una sorta di droga. Iniziò così ad essere chiamato Il Cavaliere Scarlatto, come il colore del sangue. Combatteva per denaro, senza badare troppo a chi fosse il miglior offerente. Più aumentava la sua fama, più la sua umanità si assottigliava. Sapeva bene che per la sua anima, se ancora ve ne fosse traccia, non c'era altro che l'Inferno, ma era anche sicuro che laggiù ci sarebbe andato combattendo.
Saltò in groppa al suo cavallo, verso un'altra, l'ennesima, battaglia.
  
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