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Autore: Sbrecks    08/10/2007    11 recensioni
Le mie foto all’asilo. Un album rosa, voluminoso e ricoperto di organza e trine, con il mio nome ricamato sopra, in fili di perline colorate. Lo odio, santo cielo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sharpay Evans
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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...Sei cattiva, Sharpay..

 

 

 

Le mie foto all’asilo.

Un album rosa, voluminoso e ricoperto di organza e trine, con il mio nome ricamato sopra, in fili di perline colorate.

Lo odio, santo cielo.

Lo detesto con tutto il cuore: e desidererei ardentemente che un fulmine incenerisse mia madre ogni qual volta che si azzarda a tirarlo fuori, mostrando con orgoglio a parenti ed amici la sua piccola Sharpay.

La prima foto ritrae la mia classe al parco giochi, schierata davanti all’obiettivo del fotografo.

Nonostante provi soltanto rabbia, nel riguardare quelle istantanee, è curioso notare quanta difficoltà riscontri nel riconoscermi, chiunque vi posi anche solo per un istante l’occhio, giusto per farsi quattro risate.

- Questo è Ryan, vero?

Sono anni che sento ripetere la stessa domanda retorica, peraltro, perfettamente irritante.

Perché chi potrebbe essere, se non Ryan, quel ragazzino ridicolo con la coppola blu e la faccia da triglia che se ne sta all’estrema sinistra, mostrando il pollice sollevato, me lo spiegate?

Viene anche fin troppo facile riconoscere il sorriso ebete sulla sua faccia, identico a quello che sfoggia tutt’ora, per la maggior parte del suo tempo.

Ma Sharpay...quale sarà mai, la piccola ed esuberante Sharpay?

Forse la bambina bionda e radiosa con una collana colorata al collo, stretta ad un bimbo ricciuto della medesima età?

..O quella con i capelli raccolti in due spiritosi codini, posizionata al centro dello scatto, come una vera e propria prima donna?

Ed è lì, signori e signori, quando mia madre indica con il dito la piccola, ed effettiva Sharpay, che la situazione inizia a capovolgersi, e a farsi proprio divertente.    

Perché le facce dei curiosi di turno diventano impagabili, decisamente, quando i loro squallidi proprietari si rendono conto di quanto io sia cambiata.

Sharpay di sei anni, quella Sharpay che mi sembra ora così diversa, che, a volte, dubito addirittura sia mai esistita, se ne sta infatti in un angolo, sola; con il pollice in bocca ed un’espressione scoraggiata, e ciocche disordinate di boccoli biondi , a celare parte del suo visetto triste.

Chi l’avrebbe mai detto, eh?

La reazione immediatamente successiva allo stupore, derivato dall’avere appreso la mia vera identità, è generalmente spostare lo sguardo verso destra, esaminando la ragazzina che mi sta di fianco.

-Chi è, questa cicciottella? Mi viene chiesto, solitamente.

Prego.

Rispondo subito.

Poco lontano da me, con una gamba grassoccia protesa in mia direzione ed un sorrisetto malevolo, è ritratta infatti una bambina rubiconda e d’aspetto spaventosamente sgradevole, con i capelli raccolti.

Il suo nome era Alexandra Hamilton, se ben ricordo.

E come potrei, d’altra parte, dimenticarlo?

Alexandra mi sfruttava in tutti i modi possibili, quando ero bimba, approfittandosi della mia debolezza.

Era una creaturina spaventosamente crudele ed egoista, e si rendeva colpevole di nuove malefatte ogni giorno che passava.

Ricordo che, una volta, addirittura, quel piccolo impiastro goloso rubò una buona metà della torta di prugne, destinata alla merenda pomeridiana, e se la sbafò completamente,  con spaventosa ingordigia, nascosta nel bagno delle femminucce.

Quindi, per trarsi d’impaccio, ebbe la geniale intuizione di far ricadere la colpa su di me.

- E’ stata Sharpay- Disse alla maestra, dopo essersi opportunatamente ripulita, ed aver impiastricciato in compenso il mio grembiule di marmellata.

Io abbassai il capo, incapace di replicare, paralizzata dalla mia timidezza.

La frase che seguì, come uno schiaffò in pieno viso, mi colpì nel profondo: e ancora oggi genera in me una strana angoscia, ogni qual volta ci ripenso, forse facendo riaffiorare parte della bimba che sono stata, e che ancora vive, in qualche angolo remoto di me.

-Sei cattiva, Sharpay- Mi ammonì l’insegnante, acchiappandomi violentemente per un braccio, con voce dura.

Sei cattiva...  

Passavano i giorni: e questa situazione, profondamente ingiusta, non faceva che ripetersi.

Alexandra ne combinava di tutti i colori: ed io, innocente e remissiva, non ero altri che il suo incolpevole capo espiatorio.

Ma se, apertamente, non ero capace di reagire, dentro di me cresceva una rabbia smisurata, un impotente desiderio di rivalsa che non desiderava altro, se non trovare soddisfazione: i miei disegni, prima allegri e ricchi di colori, si erano tinti di nero e di grigio improvvisamente, e avevano per soggetti macabre rappresentazioni di bambine grasse impiccate, o schiacciate da  automezzi o pachidermi.

Passavo ore ed ore sdraiata nel mio lettino, sveglia, a cercare di architettare le peggiori strategie, per farla pagare a quella malefica peste: di usare la violenza non se ne parlava, minuta e piccina com’ero, e oltrettutto troppo ingenua anche solo per tentare di aggirare Alexandra, infinitamente più scaltra di me.

Finchè un giorno, finalmente, ebbi un’idea.

Decisi di utilizzare come arma impropria ciò che, effettivamente, mi riusciva meglio. Il pianto.

Improvvisamente, durante l’ora del gioco libero, scoppiai a piangere, e dissi all’insegnante di essere stata linciata da Alexandra. Credere alle mie parole non risultò in alcun modo difficile: la piccola Sharpay, per quanto cattiva potesse essere, non aveva mai mentito, ed i lividi sul mio braccio, che mi ero procurata da sola, ne erano la prova evidente.

Non dimenticherò mai la faccia di Alexandra nel momento in cui, afferrata per un braccio, fu sbattuta in castigo dalla nostra dispotica insegnante, e ricoperta di rimproveri.

I suoi occhi porcini e caliginosi, di solito brillanti di giubilo, si riempirono a poco a poco di lacrime, mentre io gongolavo tacitamente tra me e me.

Una volta che la maestra si fu allontanata, la mia nemica, mi chiamò con un fil di voce dall’angolo adibito a zona punizioni, singhiozzando.

 

-Sharpay..-

-Sì?

-Perché l’hai fatto?

Non risposi.

 

E lei, il petto grassoccio scosso da tremiti di rabbia e singhiozzi, mi guardò dritta negli occhi, e pronunciò, per la prima volta credendoci, la frase che mi ero ormai abituata a sentirmi rivolgere.

 

-Sei cattiva Sharpay..-

 

A quel punto, sentii in me una forza nuova, diversa.

Quasi esaltante.

La guardai con aria di sufficienza, ed alzai le spalle. Un sorriso di soddisfazione si disegnò via via sul mio visetto, solitamente oscurato dalla tristezza e dalle lacrime.

-Sì, Alexandra. Lo so.

 

Sono cattiva...

 

 

Una volta che il curioso di turno ha chiuso l’album di fotografie, ed io ho concluso la mia rapida rivisitazione personale di ricordi d’infanzia, viene il momento peggiore.

Quello del confronto tra me e me.

Infatti, la mia coscienza, mi pone le solite, irritanti, domande.

E’ stato l’incontro con Alexandra a cambiarti così tanto?

Non ti penti mai di essere diventata come lei?

 

La risposta ad entrambi i quesiti, è spaventosamente semplice, cari miei, e peraltro identica in ambedue i casi.

No, accidenti.

Non è stata colpa, o merito che dir si voglia, della piccola Alexandra.

E ri -no, ri -accidenti.

Non mi pento di niente.

Se c’è una cosa che ho imparato, in tanti anni di teatro, è che la vita è un palcoscenico spietato, che non si fa scrupoli nel puntare su di noi le luci alla ribalta un attimo prima, e nel farci ripiombare nell’anonimato più assoluto uno dopo.

I deboli, le piccole Sharpay dagli occhi grandi e tristi, troppo buone per potere farsi valere, restano indietro, rimangono schiacciate dalle Alexandra arriviste e insensibili.

E’ la legge della giungla, d’altra parte.

E’ la vita, d’altra parte.

E se non fosse stata Alexandra, ad insegnarmelo, avrei dovuto impararlo comunque da sola, sulla mia pelle.

 

Se non altro, ora, la gente lo dirà con cognizione di causa, rivolgendomi la stessa smorfia di sincero disprezzo e inoccultabile invidia, insieme,

 

-Sei cattiva, Sharpay.

 

E avrà ragione.

Amatemi, e rispettatemi.

Me la sono conquistata, questa posizione.

 

 

Ma poi, una volta sola, tra le quattro mura della mia stanza, con quell’album maledetto e turbatore chiuso a chiave, al sicuro, nell’armadio, mi domando:

 

“E’ meglio essere amati, o rispettati? Mah.. . Non sembra essere certo la stessa cosa”

 

Poi scuoto la testa, e chiamo la domestica.

 

-         Un tè alle erbe, perfavore..-

-         Arriva subito, signorina.

 

 

 

Bah.

Ve l’ho detto.

Io odio quell’album di fotografie.

 

 

 

 

  
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