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Autore: Hoi    22/03/2013    4 recensioni
I fatti narrati si svolgono dopo gli eventi del primo film
“Pronto! Aiuto ho investito una persona. Sono in via...” Dove cazzo ero? Mi guardai attorno nel panico. Non c’era neanche un fottutto cartello. Merda! Ma quella era New York. Una New York mezza distrutta e ancora in piena ricostruzione, ma pur sempre New York. Di certo avrebbero rintracciato la chiamata e sarebbero venuti ad aiutarmi.
“il numero da lei selezionato è inesistente”
“Cosa?!?!?!” Piena di sgomento guardai lo schermo. 118. Idiota! Idiota! Idiota!
Genere: Avventura, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ok, ammetto che non sono mai stata una grande guidatrice. In effetti, non credo che sia poi tanto sbagliato dire che ho preso la patente per una specie di miracolo divino. Nonostante tutto questo però non si può neanche dire che io guidi proprio da schifo. Insomma credo che coi miei cinque incidenti in quattro anni di patente io rientri nella media... almeno spero... e comunque a mia discolpa posso dire che sono stati tutti delle cavolata. Bhè, quasi tutti... Non è nemmeno stata sempre colpa mia però! Il mio primo incidente ad esempio, proprio non si può dire che fu tutta colpa mia. Ok, sono stata io ad investirlo, ma pioveva, pioveva davvero molto. Ero praticamente sotto una cascata d’acqua alle tre di notte, dopo una logorante cena di lavoro coi miei colleghi, che mi aveva devastato i nervi. Prima che me lo chiediate: sì avevo bevuto. Lo so non si dovrebbe fare, ma in fondo erano solo due bicchieri di vino e a stomaco pieno. Per di più c’è da dire che mi mancavano poco più di due kilometri  dal mio albergo e fino ad allora non avevo avuto nessun problema. Fu il cellulare a tradirmi. Fear of the dark partì a palla, facendomi sobbalzare. La prima cosa a cui pensai furono i miei genitori. Una chiamata alle tre del mattino vuol dire qualcosa di serio. Questa è una cosa risaputa. Se gli fosse successo qualcosa... Pregai silenziosamente di sbagliarmi. Tenendo gli occhi sulla strada mi misi a ravanare nella borsa. Maledetta io e la mia mania delle borse grandi! Non riuscivo a trovarlo e lui continuava a suonare. Nella mia testa iniziarono ad accalcarsi gli scenari peggiori. Dovevo trovarlo. Mi voltai e guardai nella borsa. Cazzo! Era proprio sotto al mio naso con quel suo schermo acceso e la scritta mamma che lampeggiava. Mi si fermò il cuore. Lo afferrai con una mano tremante e risposi.
“Mamma! Cos’è successo?”  Le dissi subito in Italiano. Avrei voluto essere forte ma la voce mi tremava.
“ciao tesoro, tutto bene. Tu? Ti sento agitata...” Il suo tono tranquillo fu una vera e propria doccia fredda. Finalmente avevo realizzato cos’era successo ed ero furiosa.
“Mamma! Il fuso orario! Sono le tre passate qui!” ero a New York da più di due mesi e lei ancora sbagliava a calcolare il fuso orario!
“Oh... Scusa! Dai allora ti lascio dormire. Ci sentiamo”
“Sese... ciao!” le attaccai il telefono in faccia. Mi era quasi venuto un infarto e avevo rischiato di fare un incidente per nulla. Ero furiosa. Lancia il cellulare in borsa. Il cuore mi batteva a mille. Inspirai profondamente. Espirando chiusi gli occhi per riprendere il controllo. Ero quasi arrivata. Ancora un piccolo sforzo e sarei potuta andare a dormire.Bum. Non dimenticherò mai quel suono. il basso botto della più grande stronzata della mia vita. Prima ancora che il mio cervello realizzasse cos’era successo inchiodai. Con gli occhi sbarrati sulla strada iniziai a realizzare. Avevo urtato qualcosa. Qualcosa di grosso. Qualcosa che era rotolato sul mio cofano e stava riverso a terra. Immobile. Mi lanciai fuori dall’auto, sotto la pioggia. Quando fui in ginocchio accanto a lui non seppi cosa fare. Le nozioni di pronto soccorso si erano mischiate a quelle sentite nei telefilm gettando la mia mente nel caos. Dovevo girarlo a pancia in su per sentire se respirava. No, se avesse avuto una lesione alla spina dorsale muoverlo sarebbe stata l’ultima cosa da fare. Dovevo lasciarlo così? Dovevo chiamare aiuto. Questo dovevo fare. Mi alzai e corsi all’auto. Composi in fretta il numero il cuore mi batteva all’impazzata. Qualcuno dall’altra parte mi rispose.
“Pronto! Aiuto ho investito una persona. Sono in via...” Dove cazzo ero? Mi guardai attorno nel panico. Non c’era neanche un fottutto cartello. Merda! Ma quella era New York. Una New York mezza distrutta e ancora in piena ricostruzione, ma pur sempre New York. Di certo avrebbero rintracciato la chiamata e sarebbero venuti ad aiutarmi.
“il numero da lei selezionato è inesistente”
“Cosa?!?!?!” Piena di sgomento guardai lo schermo. 118. Idiota! Idiota! Idiota!
“Idiota! Idiota! Idiota!” con le mani che mi tremavano iniziai a comporre il 911.
“Inveire non ti aiuterà” Lo ignorai portandomi il cellulare all’orecchio. Non era il momento di fare ironia quello. Avevo investito una persona. Forse avevo ucciso una persona. Aspetta. Riattaccai.
“Sei in piedi!”
“Molto perspicace” La sua voce trasudava indifferenza mentre faceva qualche zoppicante passo verso l’ombrello distrutto. Aspetta... indifferenza? L’avevo appena investito e lui mi era indifferente? Probabilmente la botta gli aveva incasinato il cervello.
“Ti-ti senti bene? Vuoi che chiami un’ambulanza?”
Senza neanche guardarmi lui si rigirò l’ombrello distrutto tra le mani.
“La tua stupidità rasenta l’incredibile... Credi forse che una tale inezia possa ferirmi?”
Detto questo gettò con noncuranza l’ombrello a terra e fece per allontanarsi, zoppicando. Afferrai la portiera e mi rimisi in auto. Era il momento di razionalizzare. Avevo investito un uomo. Un gran bell’uomo. Che mi aveva insultata. Forse. Sì perché in effetti non avevo capito molto bene cosa avesse voluto dire. Comunque l’aveva detto con il tono di un insulto, quindi doveva esserlo. E come se tutto quella situazione non fosse già abbastanza devastante, ero fradicia. Mi voltai e per un lungo istante lo guardai allontanarsi a passo irregolare sotto la pioggia battente. Non potevo lasciarlo andare via così. Anche se sembrava essere uno stronzo quasi quanto il mio capo. Che era davvero difficile da eguagliare.
Riscesi dall’auto.
“Aspetta!” Si fermò senza voltarsi. “vieni, ti do un passaggio”
Fermo sotto la pioggia quel ragazzo bellissimo scoppiò a ridere.
“Credi davvero di potermi portare in luoghi in cuoi io non possa giungere? E in fondo che differenza farebbe? Trovarmi qui o altrove, non ha importanza, perché l’unica terra che il mio cuore anela mi è preclusa.”
Sentendolo parlare con tanta amarezza una certezza si fece strada in me: la botta l’aveva fatto rincretinire. Decisi di adottare una della più classiche strategie che si usano coi matti: non fargli capire che pensi che siano matti.
“Ooook... senti sta piovendo di brutto. Sali in auto, almeno sarai al riparo e io mi sentirò meno in colpa per averti investito”
Lui parve pensarci su per qualche istante. Alla fine un lungo sospiro triste gli uscì dalle labbra e con passo incerto salì in auto.
Fui io a spezzare il silenzio.
“Dove vuoi che ti porti?”
Si voltò verso di me. I suoi occhi erano vuoti, indifferenti, straordinariamente belli... Che cavolo mi veniva da pensare in quel momento?
“Non ha importanza... va bene dovunque” c’era resa ed un’infinita tristezza nella sua voce. Una stretta mi attanagliò il cuore. Ora capivo. Lui non ce l’aveva un posto in cui tornare.
“Senti io direi che per prima cosa è il caso che facciamo una volata in pronto soccorso... tanto per assicurarci che stai bene”
Aveva voltato il viso verso il finestrino. Non mi stava più ascoltando. Fa nulla, voleva dire che l’avrei portato lì senza il suo consenso scritto. Presi il navigatore e iniziai a reimpostarlo. Affianco a me l’uomo ebbe uno scatto improvviso.
“No!”
Mi strappò l’aggeggio dalle mani. Mi fissava dritto negli occhi e quello sguardo non mi piacque. Non riuscivo a realizzare davvero cosa si nascondesse dietro quelle iridi azzurre, ma qualunque cosa fosse, iniziava a mettermi paura.
“Non sono ferito... Davvero”
Il suo tono era cambiato, diventando immensamente più dolce, quasi rassicurante. Le sue labbra abbozzarono un sorriso, che subito si rifletté negli occhi, cambiando totalmente il suo volto. Senza rendermene conto ricambiai quel sorriso. Non avevo dimenticato la sgradevole sensazione di poco prima, ma qualcosa dentro di me voleva a tutti i costi aiutare quel ragazzo e questo qualcosa riuscì a zittire il mio sesto senso.
“ok... Facciamo così, ti porto al mio albergo, potrai prendere una stanza, non costano molto”
Lui mi sorrise facendo cenno di sì col capo e restituendomi il navigatore.
Passammo in silenzio il resto del viaggio, che durò ben poco. Arrivati all’albergo gli indicai la reception e scappai in ascensore. Avevo fatto abbastanza per rimediare. Me lo ripetevo,anche se non ci credevo per nulla. Non avevo fatto nulla per rimediare, era questa la verità. Le porte si aprirono davanti a me. Ero arrivata al mio piano. Schiacciai il tasto del piano terra. Non sapevo neanche io che cavolo stessi facendo. Mi sentivo in colpa ecco tutto. Quando arrivai giù lo vidi immediatamente. Se ne stava andando.
“Ehy! Che fai?” Pioveva ancora, lui ancora non aveva l’ombrello e ancora zoppicava. Dove cavolo credeva di andare? Lui mi sorrise, come se fossi la più ingenua delle ragazze.
“A quest’ora la reception è chiusa”
Stetti in silenzio per qualche istante. Era talmente ovvio. Come avevo fatto a non pensarci? Alzò la mano in segno di saluto. Sotto le luci della hall riuscivo a vederlo chiaramente. Era alto, slanciato e straordinariamente benvestito. Non mi sono mai intesa molto di abiti, ma il suo pareva costare parecchio: un bel cappotto nero, sopra ad un’elegante completo grigio scuro. Il tutto completamente fradicio. Maledizione! Gli donava un sacco la pioggia. In quelle condizioni quel suo sguardo da cucciolo sperduto faceva persino più effetto. Sì, lo ammetto, fu quello a farmi cedere.
“Senti, nella mia camera c’è un divano...”
“Sicura?”
No, affatto.
“Sì”
Senza dire nient’altro entrammo in ascensore. Non sapevo perché, ma mi sentivo terribilmente in imbarazzo. Anzi, lo sapevo esattamente il perché visto che in quel fottuto ascensore c’era uno specchio. Lui era bellissimo, elegante e i capelli corvini bagnati sembrava che rilucessero. Io ero distrutta dalla stanchezza, col viso rigato dalle occhiaie e dall’eyeliner che mi era colato su tutta la facci. Per non parlare dei capelli. Un groviglio castano, informe e arruffato. Mi sciolsi la coda e combattendo contro i nodi, mi passai una mano tra i ricci, per disciplinarli. Perfetto! Ora erano pure peggio. Un sospiro depresso mi sfuggì dalle labbra, mentre la mano mi ricadeva lungo il fianco. Avevano vinto loro... Tanto per cambiare insomma... Feci l’unica cosa che potevo fare. Diedi le spalle allo specchio. Almeno mi sarei risparmiata la visione di quello scempio. Fu allora che accadde. Per un istante. Per un istante soltanto, i nostri sguardi si incrociarono. Il cuore iniziò a battermi all’impazzata, mentre il mio volto si accendeva di un’intensa tinta rossa. Quello stronzo stava ridendo! Prima che la ragione la fermasse, l’ira mosse il mio braccio e gli tirai un pugno. Ok, premettendo che non vado particolarmente orgogliosa di quel cazzotto, posso dire a mia discolpa che lo presi sulla spalla. Inoltre fu poco più di un buffetto e di certo non gli avrei fatto nulla... se qualche minuto prima non l’avessi investito... Il suo viso si contrasse in uno spasimo di dolore. Vacillò. L’afferrai, aiutandolo a sostenersi.
“Scusa...”
La mia faccia era ormai talmente rossa che avrebbe potuto rivaleggiare con la bandiera del Giappone.
“Io... sono un’idiota! Scusa...”
Ci fu un sonoro TIN e le porte dell’ascensore si aprirono. Lo fissai per un istante. Si reggeva in piedi, forse ce l’avrebbe fatta ad arrivare fino alla camera. In fondo, prima del pugno, non sembrava stare così male. Uscii, per fargli strada, controllando con la coda dell’occhio che riuscisse a seguirmi. Zoppicava certo, ma non sembrava aver bisogno di una mano. Arrivammo alla mia porta senza problemi. Fu solo quando ebbi la tessera magnetica in mano che mi resi conto di star invitando un perfetto sconosciuto in camera mia. Restai immobile per qualche istante, fissando la serratura elettronica con sguardo assente. Non sapevo nemmeno come si chiamava, non potevo farlo! Non potevo neanche dargli il benservito... non dopo averlo investito, invitato in camera e malmenato... Fu la sua voce a risvegliarmi dai mie pensieri.
“Immagino sia sufficiente che tu faccia passare la tessera in quella fessura”
Mi voltai verso di lui lentamente. Ok, non avevo dimostrato di brillare d’intelligenza, ma lui mi stava proprio dando della cretina!
“Grazie, credo di sapere come si fa” Volevano essere parole pazienti, eppure, nonostante tutto il mio self control, le pronunciai con lo stesso tono che usavo per maledire il mio capo.
Lui, dimostrando la più grande faccia tosta del mondo, mi sorrise, come si sorride ad una bimba che non vuole scendere dall’auto il primo giorno di scuola.
“E allora, qual è il problema?”
Una vena iniziò a pulsarmi sul collo. Se volevo mandarlo al diavolo, quello era il mio momento. Inspirai profondamente e con tono diplomatico gli spiegai qual’era il problema:
“Vedi... So  di averti investito, invitato ad entrare e malmenato, ma io non ti conosco e sai, non sono proprio quel genere di persona che invita il primo che incontra ad entrare in camera sua”
Scoppiò a ridere.
“Il mio nome è Scott Fitzgerald e ti do la mia parola, che mi comporterò con onore”
Lo fissai per un istante. Doveva aver battuto la testa davvero forte per credere che una sparata del genere servisse a qualcosa. Forse lui non se ne era reso conto, ma la gente mente e anche molto spesso. Quindi che lui dicesse o meno che si sarebbe comportato bene, non cambiava nulla. Ma era tardi e io ero troppo stanca per buttarmi in un discorso pseudo-filosofico, così aprii la porta.
  
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