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Autore: Mirin    23/03/2013    1 recensioni
Non si era nemmeno accorta che il rumore pesante di passi si era fermato.
«Meglio?»
Yoshino rivolse al marito uno sguardo di supplica e sfida.
«Meglio.»
Avrebbe voluto rispondergli con una frase più lunga e sagace ma la voce le aveva già tremato un paio di volte su quelle sei lettere.

episode eightytwo/Yoshino centric/Yoshino POV/ShikaYoshi.
A Fra, perché oggi è il nostro settimo mesiversario. (L)
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Shikaku Nara, Shikamaru Nara, Yoshino Nara
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
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Shikamaru era rannicchiato in veranda, gli occhi puntati sul cielo che andava scurendosi. Una mano invisibile tracciava linee nere e nette come il carboncino sotto le nuvole, la luce scemava soffocata da tutta quella tenebra e gli uccelli e i grilli fischiavano festosi; Yoshino sapeva che questo avrebbe dato fastidio a Shikamaru, se Shikamaru fosse stato in sé. Mandò giù il groppo alla gola scuotendo la testa. Suo figlio stava morendo, lentamente, e lei rimaneva a guardarlo, inerme e inutile. Avrebbe voluto abbracciarlo, dirgli che sarebbe andato tutto bene, prenderlo in giro, rimproverarlo, ma tutto quello che riusciva a fare era asciugarsi le gocce di lacrime salate con le dita gelide. Nonostante fosse in casa, Yoshino non vedeva Shikaku dalla mattina, quando le aveva comunicato che “sì, Shikamaru stava bene, ma Asuma era morto”. Asuma. Quante volte erano stati sul portico di casa Nara, lui e Shikamaru, a giocare a shogi? Ricordava persino quanto zucchero prendesse nel tè. A volte si era dovuta mordere la lingua per non sgridarlo: non sopportava che fumasse in faccia a suo figlio. Asuma ora era morto, scomparso, e aveva lasciato una voragine sanguinolenta che pulsava come una scottatura nel suo allievo prediletto. Shikamaru sembrava così stanco, così frustrato, così distrutto. E lei era lì, lontana anni luce da lui, a spiarlo da dietro le tende, le mani giunte in grembo, la schiena spezzata ogni tanto dai sussulti provocati dai singhiozzi muti.
 «Cosa vuoi fare ora?»
La voce roca e profonda di suo marito apparve dal nulla, tanto d’improvviso da farla sobbalzare.
 «Non ti ho mai vista sconvolta in questo modo, Yoshino» si limitò a dire mentre le perforava la nuca con gli occhi neri. Lei prese un sospiro tremolante per controllarsi ed evitare di scoppiare nuovamente in singulti. Era davvero orgogliosa, Yoshino. Questo difetto lo aveva passato al figlio, Shikaku lo sapeva bene. Fra lui e sua madre intercorrevano sguardi di sfida secondi solo a quelli fra suo marito e lei. Non si sarebbe mai fatta scorgere piangente, soprattutto dall’uomo di casa. Shikaku sbuffò, azzardò qualche passo, si stese di fianco alla moglie accovacciata che fissava la figura ingobbita del ragazzo fuori. Non riusciva a guardarle il viso e Yoshino sapeva che questo lo faceva imbestialire. Non poter vedere gli occhi di sua moglie, non poterla consolare, non poter fare nulla per renderla –non felice, ma quantomeno- serena. La donna che aveva sposato, la seccatura a cui aveva messo un anello al dito.
 «Cosa vuoi fare ora?» ripeté per la seconda volta, ora vicinissimo al suo orecchio. Yoshino non poté impedirsi di rabbrividire nonostante l’angoscia: il respiro caldo di suo marito contro la cartilagine, le labbra bollenti sul lobo, la voce rauca come fusa di un vecchio gatto che le riempiva il timpano sinistro, tutte queste cose la facevano sentire viva.
 «Non lo so. Non sono io quella brava nei rapporti umani» gli ricordò, il tono che aveva ripreso qualcosa di secco ed imperioso che Yoshino si sforzava di accentuare. Solo a lei sembrava impaurito ed addolorato?
 «Sei sua madre» ribatté calmo Shikaku. Non era un rimprovero, era una constatazione. Se voleva che lei ricominciasse a piangere c’era riuscito in pieno, pensò asciugandosi una lacrima. Non era sufficiente, ormai cadevano copiose dagli occhi scuri come il veleno e fu costretta a portare le mani al viso per asciugarle e soffocare i gemiti.
 “Sì, sono sua madre, eppure…” «Guardalo, Shikaku. E’ distrutto, non ce la fa, ma continua a non piangere, resiste per un maestro morto, per un mentore morto.»
Yoshino si pentì immediatamente di aver pronunciato quelle parole: dire una cosa del genere davanti ad un padre?
Shikaku stette zitto per diversi minuti in cui lei cercò di riprendere il controllo di sé.  Aveva appena tirato su con il naso e deterso gli occhi con una manica del kimono quando suo marito decise che era il momento che Yoshino per prima tirasse fuori tutto il suo dolore.
 «Molti dicono che somiglia a me, ma non hanno idea di quanto si sbaglino. Lui è tutto te, non solo per gli occhi, ma anche per l’arroganza, la veemenza, l’alterigia maledetta, l’incapacità di ammettere determinati limiti, la stupidità nel non riconoscere di essere umani e di avere il dolore cucito nel corpo con il doppio filo» Shikaku parlò ancora contro il suo orecchio ma a Yoshino parve che lo stesse facendo dall’altro lato di un lungo tunnel. Si girò lentamente verso il marito, la luce del tramonto alle spalle che danzava infida sui capelli castani e le illuminava assurdamente le labbra martoriate dai denti per tutte le volte che le aveva strette e la punta del naso rossa e gli occhi sbarrati, sul volto l’indecisione: picchiarlo oppure saltargli addosso? Shikaku decise per lei. La tirò con rozzezza per il polso e la scaraventò contro il muro prima di baciarla affannoso. Le regalò solo quella tenerezza sgarbata prima di fermarsi, lei non fece nemmeno in tempo a rispondergli. Infilzò con prepotenza lo sguardo di Yoshino con il suo e ci volle un nonnulla prima che la donna si sciogliesse in lacrime contro il suo petto.

La cena si consumò nel totale silenzio, non parlarono nemmeno per chiedere l’acqua, ognuno fissando la propria ciotola e gettando un occhio a quella di Shikamaru, intatta. Non era venuto a mangiare quando Yoshino lo aveva chiamato con voce innaturalmente dolce perché “no grazie, non ho tanta fame” e nessuno lo sentiva parlare da quel brevissimo scambio di frasi tra lui e la madre. Yoshino si chiese distrattamente e con una marcata traccia di humor nero se l’avrebbe più sentita, la sua voce; non era nemmeno certa della risposta. Sentì Shikaku posare le bacchette sul tavolo, portarsi una mano alla nuca e smuovere la base del codino, emettere un sospiro più impalpabile dell’aria stessa. La donna fece tintinnare la ciotola contro il tavolo e si portò le ginocchia al petto per nasconderci il viso, quasi un riflesso istintivo affinché si affogasse per finire di affogare nella disperazione. Percepì ancora una volta lo sguardo di Shikaku trafiggerle la disordinata chioma di capelli neri costretta nella coda sfatta e si domandò se il marito fosse in grado di leggerle nel pensiero. Scosse la testa contro i quadricipiti e pensò quanto fosse stupida mentre soffocava una risata nervosa mezza disperata. Si abbracciò le gambe e iniziò a dondolare, sentiva un freddo nel petto assurdo, voleva che qualcuno la scaldasse, avrebbe desiderato abbracciare il figlio che provava le sue stesse emozioni. Udì le labbra del marito schiudersi con un suono umido ed alzò meccanicamente il volto verso di lui in attesa di qualche parola -che magari riuscisse addirittura a confortarla. Non disse nulla, si limitò ad inchiodare Yoshino con quegli occhi calcolatori, quasi attendesse lui stesso qualcosa che lo rincuorasse.
 «Anche tu soffri» la voce di Yoshino, dopo il non essere stata usata per tempo prolungato, risultava roca e gracchiante. Sembrava quasi una presa in giro, certamente era detta per allentare la tensione e per distogliere l’attenzione di Shikaku dalle sue iridi appannate ed umide.
 «Sì, anche io soffro» confermò Shikaku, spiazzando Yoshino. Si aspettava tutto fuorché la resa, non era affatto tipico del Nara. Si sollevò di scatto e passò al fianco di Yoshino per arrivare alla porta. Prima di sorpassarla però Shikaku fu preso da un fremito, come se avesse voluto compiere un gesto ma poi avesse deciso che non era il caso. Guardò la donna con la coda dell’occhio, sul volto una smorfia mezza incerta e mezza implorante. Yoshino smise di pensare e gli strinse brevemente ma con forza la mano, quasi ad infondergli coraggio. Lo sapevano, lo sapevano entrambi: solo lui avrebbe potuto far ragionare Shikamaru.
Erano sicuri che non si sarebbe arreso senza vendetta ma erano altrettanto sicuri che non sarebbe andato allo sbaraglio. O almeno, il solito Shikamaru non lo avrebbe mai fatto, e per questo necessitava dell’aiuto di Shikaku.
Perché Yoshino era inutile.
Lo sapevano, lo sapevano entrambi.

Yoshino appoggiò con forza le spalle alla parete, sentiva alla perfezione qualunque cosa come se fosse esterna anche al suo stesso corpo. Shikaku ordinava le pedine con suoni leggeri –ne vedeva l’ombra scura contro la porta in carta di riso da cui filtrava la luce dorata-, il fiume scorreva pigro, l’aria frusciava contro i vestiti larghi e neri di Shikamaru. Chiuse gli occhi e deglutì per far scendere il magone. Forse Shikaku credeva che lei dormisse, oppure non avrebbe aspettato così tanto; ma come poteva lei dormire se il mondo che già le stava stretto iniziava a crollarle addosso?
 «Shikamaru» -la voce di Shikaku, già di per sé potente, sembrava tuonare nella notte silenziosa, lei lo sentiva come se stesse urlando al suo orecchio-  «vieni con me.»
Il cuore le si incastrò in gola e si sistemò meglio contro la parete.
Schiocchi. Silenzio e schiocchi delle pedine contro la scacchiera di legno. Quel rumore -anche se non l’aveva mai ammesso- l’aveva rilassata da sempre, ma in quella situazione no. Desiderava solo che Shikaku parlasse, che Shikaku trovasse il modo di sbloccare Shikamaru, che Shikaku facesse tutto il lavoro che sarebbe dovuto toccare a lei.
 «Oggi sei distratto» esordì cauto.
Shikamaru non rispose.
 «Così non mi batterai» lo stuzzicò con calma misurata.
 «Taci» mormorò atono Shikamaru. Non stizzito, non nervoso, non calmo, non qualcosa. Semplicemente il vuoto totale di emozioni.
Ancora crepitii secchi. Nessuna parola. Nessuno dei due badava alla partita, entrambi lo sapevano. Nessuno dei due poteva immaginare però che Yoshino, pur non vedendola, la stava immaginando.
 «Akatsuki, eh?»
Yoshino si morse la lingua per non imprecare. Attaccare così, senza preamboli alcuni? Era così avventato?
“Non ha altra scelta” ricordò a sé.
 «Sono forti?» domanda ovvia. Scontata, prevedibile. Yoshino immaginò che Shikamaru non avrebbe nemmeno risposto.
 «Hai» replicò freddo e seccato. Ma comunque replicò.
 «Quindi, cosa farai?» Shikaku aveva decisamente abbandonato la tattica del finto tonto. Voleva scuoterlo, voleva farlo ragionare. Far ragionare quel testardo di Shikamaru? Era un’impresa. Non per forza vana, ma comunque un’impresa. Era un altro dei tanti difetti che aveva ereditato dalla madre, Yoshino ne era a conoscenza.
Shikamaru non rispose.
 «Immagino che se un uomo del calibro di Asuma non sia riuscito a batterli, tu non avrai possibilità.»
Shikamaru non rispose.
Ma a che gioco stava giocando?, pensò Yoshino. Non doveva trovare il modo di risollevarlo?
Persino a lei, appena sentito il nome di Asuma, corse un brivido lungo la schiena.
 «Era in gamba» rincarò, spietato. Era vero che in alcuni casi i genitori dovevano mostrarsi senza cuore. Shikaku in queste cose era ferrato.
 «Sì» ribatté, con un colpo deciso alla pedina. Sembrava sfogare la sua frustrazione muovendo e sbattendo i pezzi con veemenza.
 «Però, un terribile giocatore di shogi» ricordò con un’inflessione nella voce che Yoshino non riconobbe.
 Shikamaru accennò una breve risata falsa.
Ancora silenzio. Yoshino iniziò a mangiarsi le unghie dalla tensione.
«Ne sei sicuro?»
 «Non lamentarti di come gioc-» «Ti sbagli.»
Accadde tutto così in fretta che Yoshino non si rese conto nemmeno di cosa intendessero dire davvero. Sia il padre che il figlio iniziavano a scaldarsi.
 «Cosa vuoi fare ora?» ancora una volta la stessa frase. Li trattava alla pari, come due bambini capricciosi.
Shikamaru non rispose.
Aspettò qualche secondo prima di muovere. Sollevò e batté con forza e stizza il suo pezzo, i suoi vestiti frusciarono quando cambiò posizione. Yoshino si rannicchiò e cercò di smettere di tremare mentre tratteneva i singhiozzi.
 «Almeno so che non sei così stupido da finire nella trappola del nemico e morire.»
Shikamaru non rispose.
Lo dici come se fosse una consolazione, Shikaku. Vorrei che mi spiegassi qual è la differenza fra un figlio morto dentro e un figlio ucciso.”
Yoshino si detestò per aver pensato una frase del genere. Si diede un pugno sulla testa, molto forte. Le sfuggì un singulto che nessuno dei due avvertì.
 «Come padre, ne sono grato.»
Shikamaru, d’altra parte, si lasciò sfuggire un brevissimo sbuffo.
 Yoshino si divertì sinistramente ad immaginare cosa fosse passato per la mente di suo figlio in quel momento.
 «Non voglio assistere al funerale di mio figlio.»
Shikamaru non rispose.
Yoshino era perfettamente d’accordo con il marito, ovvio. Scontato, prevedibile.
 «Stai andando bene. Come padre, ne sono orgoglioso.»
Shikamaru non rispose.
I suoi vestiti rumoreggiarono di nuovo mentre si rannicchiava ancora di più. Yoshino non poteva vederlo, vero, ma era come se lo avesse stampato davanti agli occhi.
 «Sei intelligente e talentuoso, qualcuno su cui Konoha potrebbe fare affidamento in futuro.»
Shikamaru non rispose.
Yoshino sapeva che stava comprimendo tutto: la rabbia il dolore la sofferenza la paura l’angoscia il tormento il risentimento l’odio; e capì qual era l’intento di Shikaku: farlo scoppiare. Sempre che non fosse scoppiata lei prima, cosa molto probabile. Si tirò un altro pugno in testa per combattere il dolore dell’animo con il dolore del corpo.
 «Ma…»
Ma?
 «Asuma è morto.»
Ci fu un rumore di pezzi di legno scaraventati per aria. Yoshino fu presa alla sprovvista e il cuore le smise di battere.
 «Che vorresti dire?» la voce di Shikamaru era amara e indignata, tremava di rancore e collera repressi.
 «Parlo tra me e me» rispose Shikaku. Se Shikamaru avesse conosciuto il padre almeno un quarto di quanto lo conosceva la moglie, avrebbe saputo che la sua voce apparentemente calma nascondeva le stesse emozioni. Un’ombra -quella di Shikamaru, Yoshino ci avrebbe scommesso il proprio figlio- si sollevò in piedi.
 «IL TUO PARLARE A VANVERA MI FA VENIRE MAL DI STOMACO!» gridò, frustrato. Yoshino sentì le prime lacrime bagnarle le guance.
 «IO NON SONO NIENT’ALTRO CHE UN INUTILE CODARDO» continuò ad urlare. Yoshino non aveva mai sentito il figlio così fuori di sé, mai. Era sempre lei quella che faceva il diavolo a quattro, quella nervosa ogni santa volta, quella perennemente infuriata con chiunque.
 «No» Shikaku era convinto e sembrava calmo ma dentro, la moglie sapeva che era tutta scena. Provò ad immaginare come poteva essere trovarsi davanti il proprio figlio tanto abbattuto e tanto furibondo con ogni persona e tremò violentemente.
 «Allora cosa?!» esclamò. Quasi stesse chiedendo lui stesso al padre qualche spiegazione, quasi lo implorasse di trovare una definizione razionale di tutta quella follia.
Ma non ce n’è figlio mio, non ce n’é. Sei un ninja, dovresti saperlo.”
 Yoshino avvertì le assi scricchiolare quando anche Shikaku si alzò. Yoshino chiuse gli occhi per immaginare i due uomini fronteggiarsi, uno la rappresentazione dell’avvilimento giovanile, l’altro la maschera del dolore adulto.
 «Lasciala uscire.»
Il respiro di Yoshino si mozzò per tutta la tristezza -ben nascosta- nella voce dell’uomo che amava. Persino le sue lacrime si arrestarono per qualche secondo prima di scendere ancora più impetuose.
 «Lascia uscire tutta la tristezza, la paura e la rabbia che stanno crescendo dentro di te.»
Shikaku.
 «Questo è il primo passo.»
Il respiro di Shikamaru si fece più claudicante. I suoi denti stridettero più forte. I suoi gemiti si trasformarono in suoni gutturali biascicati per il nodo alla gola.
Finalmente, cedeva.
Il primo grido di Shikamaru scavò la schiena di Yoshino come vanga penetra il terreno. La trapassò da parte a parte e le asportò le viscere spezzandole la colonna vertebrale con un botta decisa ma silenziosa. Pensò che le sarebbe presto sopraggiunto un infarto mentre entrava in iperventilazione. Chiuse le gambe e si abbracciò le spalle in modo da scacciare il freddo gelido che le raschiava le ossa, socchiuse le labbra in modo da permettere ai respiri veloci di trovare sbocco sull’esterno ma bloccò la lingua sotto il palato per non urlare e piagnucolare a sua volta.
Non si era nemmeno accorta che il rumore pesante di passi si era fermato.
«Meglio?»
Yoshino rivolse al marito uno sguardo di supplica e sfida.
«Meglio.»
Avrebbe voluto rispondergli con una frase più lunga e sagace ma la voce le aveva già tremato un paio di volte su quelle sei lettere.
«Stupida orgogliosa, mendokusee» borbottò poi contro le proprie ginocchia una volta incurvata, un ghigno amaro e tormentato che le squarciava il viso da parte a parte.
«Mi chiedo chi di voi due sia il bambino.»
«Io. E lui anche, perché, anche se non sembra, sono sua madre.»
«Stupida» gorgogliò Shikaku scivolando al suo fianco.
«E’ quello che sono» confermò la moglie, gli occhi che le bruciavano ma neanche una lacrima.
«Stupida» ripeté. Yoshino alzò il volto per guardarlo, l’espressione più tenera e disarmante che il marito le aveva mai visto: la richiesta muta di affetto. Un angolo della bocca di Shikaku si tese automaticamente verso l’alto. Smirk.
Le afferrò la nuca con forza e la fece scontrare contro il suo petto.
«Non sei sola, stupida. Non ti ho mai lasciata andare e non lo farò nemmeno ora» mormorò dolce fra i suoi capelli neri.
«Ma anche tu soffri» ribadì Yoshino aggrappandosi al suo collo come ad un’ancora di salvezza.
«Sì, anche io soffro. Ma so che, nonostante tutto, non devo combattere da solo» disse in un sospiro.
«Come fai ad essere così certo che io non stia fingendo?» chiese disperata con i singhiozzi che le bloccavano la gola «Come fai a guardarmi in faccia se non ho avuto nemmeno la forza di consolare mio figlio?».
«Perché ti conosco, stupida. Perché è una vita che ti sopporto, diciotto anni che ti dormo affianco e sedici anni che ti guardo essere una donna splendida ed un esempio per Shikamaru» rispose tranquillo, continuando ad accarezzarla.
«Quindi, almeno un po’, mi ami.»
«Che faccia tosta.»
«La faccia tosta della donna che sopporti da una vita intera. E che ami, un po’.»
«E che amo, giusto un po’.»

Blue's noTH:
Aw, finalmente una sezione su questi due gnocchi. Mi sa che la intaserò un casino, yahyah, preparatevi. Che dire, qui ho voluto molto ricamare sulla figura di Yocchan come mamma e del rapporto fra lei e Shikamaru, che ho sempre interpretato in questa chiave molto insolita ma che mi piace, mi piace da matti. Ovviamente c'è lo ShikaYoshi, ma voi sapete ormai che lo ShikaYoshi per me è una religione alla stregua dello ShikaIno. Ah, qui ho fatto di tutto per non farci spuntare la Yamanaka, il mio cuore si duole di ciò, ma volevo che per una volta la mia vena egocentristica di white fly non si mettesse in mezzo. Zì padrona, come dezidera.
Dedicata alla Fra, perché oggi facciamo sette mesi di amore amicizia a distanza. A distanza non proprio, ma fra Pavia e Torre del Greco ci sono i loro bei chilometrucci e quindi non posso soffocarla fra le mie braccia. Anche se io sono molto Shikamaru tu lo sai che ti amo. E ti amerò sempre.
Su questa nota molto mielosa mi dileguo, amore ai lettori e venerazione ai recensori!
Kiss,
Ladie. 
   
 
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