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Autore: Deliquium    10/10/2007    3 recensioni
Non seppe quantificare con esattezza quanto tempo rimase immobile, con il volto deturpato da quell’espressione di terrore. Il peso della mano appoggiata sulla sua spalla le sembrava così grande e così opprimente, da avere l’illusione che ogni pezzetto del suo corpo penetrasse nel materasso morbido. ”Perché il mio cuore non smette di battere?” si chiedeva spaventata. Avrebbe voluto spegnersi come una bambola a batterie, smettere di respirare, pensare, vivere. Il panico liquido le entrò dentro come se lei fosse stata una spugna immersa nell’acqua. Tutto in lei, dalla punta delle ciglia, ai nei sulle scapole erano saturi di quel panico improvviso e devastante.
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ania chiuse la porta della camera: due giri di chiave per sprangare fuori il mondo.
Scivolò verso la grande finestra accanto al letto e la spalancò. L'odore dell'estate solleticò le sue narici e una smorfia di disgusto comparve sul suo volto, mentre sporgendosi sul davanzale afferrava le imposte e le tirava verso di sé.
Si voltò verso l'interno della camera, contemplando con piacevole compiacenza l'esito della sua opera. L'oscurità aveva eliminato ogni oggetto presente ed ella era appagata dalla sensazione di nulla che percepiva attorno a sé.
Procedette verso il letto e, sedendosi su di esso a gambe incrociate, cercò di mantenersi immobile. Non un muscolo veniva mosso. Persino il respiro era centellinato allo stretto indispensabile. I suoi occhi erano aperti e assorbivano il nero che la cingeva.

Era un "gioco" abituale: Ania lo compiva quasi ogni giorno e lo continuava per ore e ore, fino a quando, obbligata da disturbi esterni doveva alzarsi e riprendere a vivere.

Con l'andare del tempo, le azioni, i pensieri, gli atteggiamenti cominciarono a possedere una volontà propria, indipendente dalla loro "padrona"; ella non aveva più alcun scettro di comando su sé stessa e non era più in grado né di fingere, né di seguire i buoni consigli che avrebbero alleviato in parte i suoi tormenti.
Durante il giorno, la sua follia non era poi così terribile; in un certo senso riusciva a controllarla. O almeno, sembrava non manifestarsi in misura eccessiva. Ma la notte, la sua mente diventava una babilonia di pensieri e solo attraverso la parola, Ania riusciva a liberarsi: il verbo sgorgava dalle sue labbra come un fiume impetuoso.
Sua madre, di solito, compariva sull'uscio della stanza e in silenzio osservava la follia di Ania in tutto il suo atroce "splendore".

Quel giorno, il ticchettio dell'orologio posto sul comodino accanto al letto scandiva il tempo e insieme ai rumori provenienti dall'esterno, alterava il silenzio presente nella stanza. Michele giocava in giardino con quella vecchia cagna: Ania la detestava dal giorno in cui le azzannò il polpaccio. "Bestie senza cervello" pensava stringendo la stoffa dei pantaloni.
Ania perse la cognizione del tempo. Fastidiosi formicolii ai piedi erano il chiaro segno che troppo tempo era passato da quando aveva chiuso le imposte.
L'orologio a pendolo scoccò rumoroso nel salotto adiacente la stanza. Ormai aveva perso il conto di quante volte il pendolo avesse suonato.
Quand'era piccola riuscì, con grande sforzo, a sbattere a terra il pesante orologio, ma suo padre, quella sera, gliele suonò e furono così tante le botte che prese, che per una settimana non poté più sedersi.

«Ania!» il richiamo irruppe improvviso nel dedalo dei suoi pensieri. La ragazza tese l'orecchio e di nuovo udì qualcuno chiamarla. Non era la voce dolce di sua madre e neppure il tono secco del padre, non era Michele.
«Ania!» per la terza volta sentì il proprio nome aleggiare nell'aria. Girò freneticamente la testa, prima a destra, poi a sinistra. Facendo pressione con le mani sul materasso si voltò alle sue spalle. La mancanza di luce le impediva di vedere e anche se ci fosse stato un esercito appostato in un angolo, lei non l'avrebbe notato. Era cieca pur essendo in possesso della vista.
Un orrore febbrile s'impossessò delle sue membra e i brividi scalarono la sua schiena, lungo tutta la spina dorsale. La sua gola era secca e invano cercò di deglutire: arida era la sua bocca e contratte le sue labbra. Avrebbe voluto alzarsi, per far entrare i raggi del sole, ma il terrore aveva narcotizzato il suo corpo. Una lieve pressione sul letto, alle sue spalle, determinò in lei un'improvvisa accelerazione del battito cardiaco, mentre stille di sudore solcavano il suo viso contratto.
«Ania!» il richiamo era dietro di lei, vicinissimo. Poteva persino sentire sul suo collo l'alito gelido della bocca che l'aveva pronunciato.

La follia non le aveva mai fatto questi scherzi: non aveva mai dovuto affrontare il problema delle allucinazioni visive. La mano che si appoggiò sulla sua spalla era una mano di ghiaccio. Ania spalancò la bocca, ma il suo urlo era muto.

Non seppe quantificare con esattezza quanto tempo rimase immobile, con il volto deturpato da quell’espressione di terrore. Il peso della mano appoggiata sulla sua spalla le sembrava così grande e così opprimente, da avere l’illusione che ogni pezzetto del suo corpo penetrasse nel materasso morbido.
”Perché il mio cuore non smette di battere?” si chiedeva spaventata.
Avrebbe voluto spegnersi come una bambola a batterie, smettere di respirare, pensare, vivere. Il panico liquido le entrò dentro come se lei fosse stata una spugna immersa nell’acqua. Tutto in lei, dalla punta delle ciglia, ai nei sulle scapole erano saturi di quel panico improvviso e devastante.
La mano era lì, sempre sulla sua spalla, immobile da quando gliel’aveva appoggiata.
Ania spostò il capo lievemente, muovendo le iridi verso l’angolo esterno dell’occhio. Ombre incombevano alle sue spalle: non le vedeva, ma le sentiva.
Con molta cautela, rallentata dal terrore e dall’ansia, spostò lo sguardo sulla sua spalla. La presunta mano si mosse rapidamente fermandosi al centro della sua schiena. Un brivido corse lungo il suo sistema nervoso, facendolo esplodere in un lungo lamento.

Ania, tremò, si alzò, cadde, strisciò lungo il pavimento, fino al muro. Quel muro liscio e nudo, che mai aveva voluto riempire. Quella parete bianca e fredda contro la quale sbatteva il suo sguardo cieco, quando si rinchiudeva in questa stanza.
Si alzò a tentoni, appoggiando i palmi della mano sulla parete. Le gambe annaspavano nevrotiche mentre Ania tentava di alzarsi. L’intonaco bianco era gelido sotto la sua guancia rigata di lacrime. Le unghie graffiavano stridendo, mentre con fatica lei si alzava.
Ania pianse. Ania avrebbe voluto gridare, ma i suoni che riuscì a produrre furono solo fiati privi di note.
La stanza era vuota, immersa nell’oscurità come sempre. Eppure la Cosa era lì, davanti a lei. Era sdraiata sul letto, era in agguato sul pavimento, incombeva dal soffitto, le bloccava il passaggio verso l’uscita.
Ania chiuse gli occhi, implorando quell’incantesimo che faceva sempre da bambina, quando chiudendo gli occhi faceva sparire il mondo per magia. Ma quel giorno, il mondo non sparì. Si annebbiò, ma non sparì. Il mondo era sempre lì, e lei lo sentiva pressare come uno schiacciasassi.
«Perché mi perseguiti?» chiese con la bocca asciutta e le gambe tremanti.
Con il suo nome le rispose. Con il suo nome pronunciato come un sibilo, si manifestò nuovamente.
Ania premeva il proprio corpo contro la parete, pregando che per prodigio essa si aprisse inghiottendola; nessun posto sarebbe stato più spaventoso di quella sua stanza, ricettacolo di voci e ossessioni.
«L’incantesimo non funziona, Ania» la Cosa parlò con voce di donna sporcata da gravità maschili.
«Devi chiudere gli occhi in modo diverso.»
Ania senza riflettere sulle parole che aveva udito, come un bambino, strinse le palpebre con forza quasi a volerle incollare per sempre.
La Cosa scoppiò a ridere a quel gesto, una risata insolitamente bella, come il tintinnio di mille campane di argento.
«Non così… non così…» biascicò tra il riso.
«Avvicinati e guardami, Ania.»



Nessuno seppe esattamente cosa accadde in quella stanza e il tutto fu archiviato come un crudele quanto semplice attacco cardiaco. Certo c’era il bianco dei suoi capelli e c’era il fatto che sul suo volto s’era incisa un’espressione di acuto terrore, ma il tutto fu archiviato come un semplice attacco cardiaco. Non c’era nulla che potesse far pensare a un omicidio o a un suicidio. Ania era semplicemente morta.
All’improvviso, il suo cuore era esploso.
Resterebbe da capire cosa l’abbia terrorizzata in quel modo, ma il Tenente Cabelli ha un caso di omicidio vero da risolvere e il Dottor Colombo ha già chiuso la cerniera sul corpo diafano di Ania, firmando il referto dell’autopsia con la sua calligrafia sghemba.
Resterebbero tante cose da capire… ma questa non è una storia che risponde alle domande …

   
 
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