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Autore: margheritanikolaevna    24/03/2013    9 recensioni
“La causa del decesso è chiara, lampante oserei dire” aggiunse il patologo e, così dicendo, si voltò e trasse dal tavolino metallico alle sue spalle una piccola bacinella macchiata di rosso, il cui contenuto mostrò subito dopo al tenente.
“Ehi!” esclamò Mac, sgranando gli occhi incredulo “M-ma che vuol dire?”.
“Pazzesco, eh?” ghignò il dottore, perché sul fondo del contenitore di acciaio stava un cuore, rosso cupo e con ancora attaccati taluni lacerti sanguinanti, perfettamente spaccato a metà, come una mela: lungo il solco interatriale, ventricolo destro e atrio destro da una parte, ventricolo e atrio sinistri dall’altra, quasi che un sadico patologo si fosse divertito a separare con chirurgica precisione le due metà".
Non lasciatevi trarre in inganno, in questa storia nulla è come sembra...
Buon divertimento, amici!
Prima classificata al contest "What if and AU" indetto da Dominil B su efp
Seconda classificata, su diciassette partecipanti, al contest "La tavola periodica delle fanfiction: quando la chimica diventa divertimento", indetto da Midori-Chan su efp, ma giudicato da Kirame27.
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sheldon Hawkes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Questo racconto è stato scritto per il contest “La tavola periodica delle fanfiction”, indetto da Midori-Chan su efp e adesso nelle mani di un giudice sostitutivo (sigh…), e l’elemento scelto era lo zolfo. Spero vi incuriosisca e vi diverta: io mi sono divertita un sacco a scriverlo.  
Grazie in anticipo a chi leggerà e, magari, mi lascerà un pensiero.
 
 
 (Non) Sono solo parole!
 
L’attendibilità della vicenda accaduta al dottor Sheldon Hawkes solleva un rilevante quesito, che investe il valore attribuibile alle prove: da una parte abbiamo, infatti, alcuni testimoni oculari tra i più affidabili della città, nonché un fatto ineccepibile. Dall’altra abbiamo, come dire? I pregiudizi, il buon senso comune e la pigrizia mentale.
Nessun teste sembrò mai più sincero di coloro che mi raccontarono la storia, nessun accadimento mi parve tanto incontestabile come ciò che coinvolse il dottore, eppure… nessuna vicenda fu più assurda di quella che sto per consegnarvi.
Se volete sapere la mia opinione, vi dirò che secondo me questa faccenda puzza di imbroglio lontano un miglio; perciò, mi sorprese il credito che le fu accordato in ambienti di solito assolutamente rigorosi e impenetrabili alla superstizione.
A ogni buon conto, forse la cosa migliore nei confronti del lettore, la più corretta, è che io racconti la storia subito, senza ulteriori commenti.
 
***
 
Mac Taylor scostò appena le tende color crema, ingrigite dalla polvere e dal tempo, e levò gli occhi verso il cielo dove grosse nuvole nere s’addensavano all’orizzonte tra i primi, squallidi, barlumi dell’alba; sospirò impercettibilmente e guardò l’orologio, considerando con amara rassegnazione come anche quella notte la città che non dorme mai avesse ricevuto il suo quotidiano tributo di sangue.
La finestra della piccola foresteria del Politecnico di New York dava su un buio cortiletto interno e quando, voltatosi, il tenente si guardò intorno non poté non notare due aspetti della camera ove era appena entrato, seguito dalla sua squadra, che immediatamente saltavano all’occhio: la modestia dell’arredamento, composto solo da pochi mobili spartani, e per contrasto l’enorme quantità di libri che occupavano praticamente ogni superficie piana, pavimento compreso.
Subito dopo la sua attenzione fu attirata da un insolito oggetto di metallo e vetro che faceva bella mostra di sé su di una mensola di legno chiaro: vi si avvicinò, fissandolo mentre cercava di tirar fuori dai confusi ricordi delle lezioni di chimica al college il nome di quell’aggeggio obsoleto.
“Accidenti, una bilancia di Mohr-Westphal!(1)” lo anticipò il dottor Sheldon Hawkes, che era appena sopraggiunto e a stento riusciva a trattenere il suo entusiasmo di fronte a quella che giudicava una piccola meraviglia da collezionisti.
“Sai, Mac, si tratta di uno dei primi dispositivi in grado di misurare la densità di un corpo basandosi sul principio di Archimede secondo il quale ogni corpo, immerso in un fluido, riceve una spinta dal basso verso l’alto, uguale per intensità al peso del volume del fluido spostato…”.
Al tenente bastò schiarirsi la voce perché il giovane medico si azzittisse, consapevole dell’inopportunità di una digressione come quella, in presenza di un cadavere ancora caldo che reclamava giustizia.
“Apprezzo la spiegazione” esclamò il graduato, lasciando che l’espressione del suo viso stemperasse il tono severo delle parole che stava pronunciando “ma adesso concentriamoci solo sulle prove!”.
“La vittima si chiamava John Hereward Reyner (2)” la voce ferma di Don Flack richiamò il dottore alla realtà, strappandolo alle sue elucubrazioni “e occupava questa stanza da poco più di sei mesi”.
“Era una specie di genio” continuò il poliziotto, leggendo gli appunti che aveva scritto su un blocchetto e subito dopo spostando lo sguardo sul medico che aveva di fronte, quasi a sottolineare che anche la vittima, proprio come lui, era stata un bambino prodigio “laureato in chimica alla Stanford a diciotto anni, ricercatore a venti e professore associato a venticinque. Senza contare che con le sue ricerche sulle catene lineari di carbonio pare avesse messo una seria ipoteca sul prossimo Nobel per la chimica”.
“E adesso” aggiunse Mac, chinandosi sul corpo senza vita che giaceva sul pavimento “l’unico fenomeno sul quale indagheremo è la sua morte misteriosa”.
Osservò accuratamente la salma dell’uomo biondo di circa quarant’anni, riflettendo e continuando a dar voce ai propri pensieri.
“Nessun segno di violenza” disse, dopo aver sollevato leggermente sul torace i lembi del pigiama di flanella beige un po’ stropicciato che lo scienziato indossava e allargato il colletto per scoprirne la gola, ormai immobile; tenendogli la testa tra le mani la mosse con delicatezza, prima a destra e poi a sinistra, per comprendere se il decesso fosse dovuto alla frattura delle vertebre del collo, ma anche in quel caso la risposta che la sua esperienza in fatto di cadaveri gli consegnò fu negativa.
“Niente tracce di strangolamento o soffocamento… e non c’è emorragia petecchiale” aggiunse, dopo aver esaminato brevemente con le dita guantate di bianco le palpebre, alla ricerca delle rotture dei capillari tipiche dell’asfissia violenta.
“E anche la lingua e le labbra non rivelano sintomi evidenti di avvelenamento” concluse, avvicinandosi alla faccia livida e contorta del cadavere e notando che l’uomo aveva le guance rigate di lacrime e un’espressione - congelata dagli spasmi della morte - di infinita tristezza dipinta nei grigi occhi dilatati dalla sofferenza.
“Sembra in ottima salute, insomma!” ironizzò Flack strappando un’occhiataccia al collega, il quale
si rialzò sbuffando appena e, seccamente, gli rispose con una delle domande di rito in casi come quello: “Chi ha trovato il corpo?”.
“Il cervellone della porta accanto, il dottor Chinta-mani Nagesa Rama-chandra Rao (3) o qualcosa del genere” ribatté l’altro, sillabando non senza difficoltà e indicando con un cenno del capo la porta che dava sul corridoio “Ha detto di avere incontrato Reyner ieri sera verso le ventidue sul pianerottolo, specificando che lui era in compagnia della sua fidanzata, tale Sophia. Hanno scambiato una chiacchiera veloce e poi ciascuno è rientrato nella propria camera, ma verso le quattro del mattino è stato svegliato dalle loro grida e ha capito che stavano avendo una lite furibonda: urla terribili, dice.
Stava quasi per chiamare la polizia, quando a un tratto ha udito la porta sbattere con violenza e, affacciatosi nel corridoio, ha visto Sophia correre via come una furia.
Ha bussato ripetutamente alla porta del collega, l’ha chiamato più volte e, alla fine, non avendo risposta si è preoccupato e ha chiesto le chiavi al portiere. Ha detto di non aver toccato nulla e di aver subito telefonato al 911 e a noi. È ancora sotto shock, poveraccio” aggiunse, con una nota di amarezza nella voce. 
“E l’ora della morte” aggiunse Sheldon, fissando il quadrante del termometro di Glaister che aveva nel frattempo inserito nel cadavere “a giudicare dalla temperatura del fegato risale appunto a meno di due ore fa, ovvero quando il testimone ha notato fuggire la ragazza”.
“Bene” replicò il tenente “non resta che trovare la misteriosa Sophia e sentire la sua versione sulla fine del fidanzato; sempre che, ovviamente, Sid ci confermi che il decesso non è avvenuto per cause naturali”.
 
***
 
“Allora, Sid, hai novità per me?” chiese Mac Taylor, in piedi a braccia conserte nella sala autopsie che costituiva il - ben poco ambito, in verità - regno del canuto anatomopatologo.
“Mmmm…” ribatté quello, sistemandosi gli occhiali sul naso “in verità sì, Mac, ho addirittura due novità per te; ma temo che nessuna di esse ti aiuterà granché nelle indagini”.
“È una cosa incredibile” aggiunse “non ho mai visto niente del genere”.
Il tenente sospirò rumorosamente, indeciso se cedere alla simpatia dell’amico o far prevalere l’irritazione per il tempo che gli stava facendo perdere con le sue chiacchiere; per fortuna, il medico comprese la premura del collega e non lo fece attendere oltre.
“Guarda qui” disse, mostrandogli le mani del cadavere “l’esame tossicologico è negativo, ma ho repertato delle tracce di una polverina rossa sia tra le pieghe delle dita e sotto le unghie che sui suoi vestiti e persino nelle prime vie aeree”.
“E poi ho trovato, nascosta dentro a una specie di cintura di stoffa che portava sotto la biancheria, questa boccetta” continuò, allungandogli una fiala non più grande della punta di un dito, all’apparenza perfettamente chiusa e piena a metà di una polvere vermiglia.   
“Beh, in verità non mi sembra poi una cosa tanto straordinaria” esclamò Taylor “Reyner era un eccellente chimico e magari potrebbe aver scoperto qualche nuova sostanza che voleva ancora tenere segreta”.
“Devo dedurne che non hai nessuna idea sulla causa della morte?” aggiunse, ormai sul punto di sbottare.
“Oh no, tutt’altro!” ribatté il patologo, con un sorriso di fronte al quale Mac rinunciò definitivamente a ogni proposito battagliero “Era questa la cosa incredibile”.
“La causa del decesso è chiara, lampante oserei dire” aggiunse e, così dicendo, si voltò e trasse dal tavolino metallico alle sue spalle una piccola bacinella macchiata di rosso, il cui contenuto mostrò subito dopo al tenente.
“Ehi!” esclamò quello, sgranando gli occhi incredulo “M-ma che vuol dire?”.
“Pazzesco, eh?” ghignò il dottore, perché sul fondo del contenitore di acciaio stava un cuore, rosso cupo e con ancora attaccati taluni lacerti sanguinanti, perfettamente spaccato a metà, come una mela: lungo il solco interatriale, ventricolo destro e atrio destro da una parte, ventricolo e atrio sinistri dall’altra, quasi che un sadico patologo si fosse divertito a separare con chirurgica precisione le due metà.
“Immagino che non sia opera tua, vero?” esalò il tenente, allibito.
“Non scherzare, Mac” ribatté l’altro, con tono improvvisamente netto.
“Se non fosse una battuta di cattivo gusto, potremmo dire che questo poveretto è morto di mal d’amore, perché qualcuno gli ha letteralmente “spezzato” il cuore”.
“Bah” fece il detective, sfregandosi nervosamente il mento “in effetti la sua fidanzata ha raccontato a Flack che ieri notte avevano litigato perché lei gli aveva detto che era intenzionata a lasciarlo e il professore non voleva accettare la cosa… ha cercato di trattenerla, l’ha implorata di non andarsene perché altrimenti” esitò un attimo, richiamando alla mente le parole esatte pronunciate dalla giovane donna durante l’interrogatorio al quale aveva assistito, da dietro uno specchio fasullo “gli avrebbe spezzato il cuore”.
Aveva guardato in faccia la ragazza e lo strazio che vi aveva letto gli era parso del tutto autentico; il suo istinto gli aveva suggerito che non stava mentendo e che era davvero sorpresa e addolorata per la morte del compagno, eppure le rivelazioni del medico ora avevano avuto il potere di confondergli nuovamente le idee, facendolo tornare a brancolare nel buio.
“Ma, Sid” proseguì, sempre più perplesso “per quanto una delusione d’amore possa essere devastante, sappiamo bene che una cosa del genere è fisicamente impossibile: deve per forza esserci una spiegazione razionale per delle lesioni così singolari, forse è stato avvelenato con una sostanza che non risulta ai nostri esami di routine. In fondo non sarebbe nemmeno la prima volta”.
“Insomma” concluse il patologo, indicando la boccetta che Mac rigirava ancora tra le dita “il mio lavoro è concluso, adesso passo la palla a voi detective: magari il dottor Hawkes tirerà fuori qualcosa di interessante dall’analisi della polverina misteriosa”.
 
***
 
Per tutti i suoi amici della Scientifica di New York Sheldon Hawkes era un cervellone: tra loro, c’era chi spiccava per la propria testardaggine, chi per la determinazione con cui lavorava, chi ancora per le sue battute sarcastiche.
Lui invece si distingueva per la sua intelligenza, acuta e versatile.
La sua intelligenza, già, la stessa che gli aveva consentito di diventare un chirurgo a tutti gli effetti prima dei venticinque anni, ma non lo aveva salvato dal farsi trascinare in una serie di investimenti sbagliati, a causa dei quali aveva perso tutti i risparmi e dovuto vendere la casa (4). Ecco, quello era il suo tormento: si vergognava di essere stato tanto credulo e non aveva avuto il coraggio di raccontare a nessuno dei colleghi che andava in giro da amici e conoscenti mendicando un posto per dormire, illudendosi che se si fosse sfinito con gli straordinari e i lavori extra forse sarebbe riuscito a rimettersi in piedi, mentre era fin troppo chiaro che ormai era rovinato.
Il pensiero del suo fallimento lo torturava anche in quel momento, mentre si accingeva a esaminare le due prove più importanti del caso Reyner: la fialetta che Sid aveva consegnato a Mac e un consunto taccuino rivestito di cuoio che era stato trovato durante la perquisizione dell’appartamento della vittima, accuratamente nascosto nel doppiofondo di un cassetto della scrivania. Era zeppo di formule chimiche e paroloni difficili e ovviamente a Mac era parso naturale che se ne occupasse lui.
Con uno sforzo, Sheldon distolse la mente dalla considerazione che quella notte non sapeva ancora se sarebbe riuscito a procurarsi un letto decente e che, forse, sarebbe stato costretto ad arrangiarsi di nuovo sulla scomodissima brandina sistemata in obitorio per le emergenze: senza riflettere, agitò la boccetta e subito osservò che la polvere pareva reagire alla sollecitazione assumendo l’aspetto di un liquido, più precisamente di un metallo liquido, quasi fosse del mercurio di colore rosso e non bianco argenteo come di regola.
Incredibile: adesso quella strana roba, che per una frazione di secondo si era contorta davanti ai suoi occhi come una creatura vivente, aveva davvero tutta la sua attenzione.
Rimosse il tappo sigillato e versò su alcuni vetrini una piccola quantità di polvere, che quando cadde si tramutò per un momento in una rotonda goccia lucida e l’istante dopo riacquistò il suo ordinario aspetto; aveva un odore sulfureo - leggero ma persistente - e quando lo scienziato la saggiò mescolandola di volta in volta sui vetrini con acqua, acido cloridrico, acido solforico e acido nitrico, non ottenne nessun risultato apprezzabile.
Mentre attendeva la risposta dallo spettrometro di massa nel quale aveva inserito un altro campione, si immerse - sempre più incuriosito - nella lettura del taccuino, che si accorse ben presto essere niente altro che il diario dello sfortunato professor Reyner.
 
***
 
Giovedì 21 settembre” lesse Sheldon Hawkes sottovoce, nella penombra silenziosa del laboratorio “Oggi ho terminato la Prima Opera (5) e, dopo trenta giorni di lavoro, il Sale Armoniaco che ho ottenuto non è più di dieci grammi: spero proprio che basti”.
Sfogliò rapidamente le pagine osservando che erano vergate tutte a mano, con una grafia affilata e chiara, e che in alcuni punti erano annotate delle formule scritte con caratteri inusuali, che il medico non riuscì in alcun modo a decifrare.
Sabato 2 dicembre: anche l’Opera al Rosso è conclusa. Il Leone Verde ha ceduto il suo sangue, sono riuscito a creare l’Echineis! Mio Dio, l’obiettivo è talmente vicino che non posso permettermi di sbagliare niente, nemmeno un dettaglio: con il mercurio comune che mi sono procurato in Dipartimento potrò procedere finalmente a riempire l’Athanor, in cui il Rebis sarà covato fino alla maturità.
Sophia non sa nulla, mi vede sempre più stanco e distratto. Non capisce l’importanza del mio lavoro, dice che la trascuro, che non la amo abbastanza: non è vero, lei è la donna della mia vita, deve pazientare solo un altro poco e poi, quando la Grande Opera sarà conclusa, vivremo insieme felici per sempre. Per sempre”.
L’ultima pagina recava la data della notte prima della morte dello scienziato e Hawkes vi lesse quanto segue, osservando come le frasi spezzate tradissero un intenso nervosismo, assente invece negli altri passi che aveva analizzato: “Ci siamo: è pronto. Ho seguito tutte le quattro Operazioni e le tre Fasi come è scritto, eppure il Rebis non è come dovrebbe.
I suoi effetti sono strani e imprevedibili: è come se esso fosse un punto di contatto e passaggio tra il mondo reale e il mondo delle immagini, tra l’anima e la materia. In fondo, non è forse vero che il corpo umano è un sistema chimico nel quale giocano un ruolo fondamentale i due stessi principi con i quali avrei dovuto riempire l’Athanor ? E se fosse il mio corpo il vero Athanor?”.
Il sommesso bip dello spettrometro comunicò al perplesso medico legale che l’apparecchio aveva concluso il suo lavoro: il composto misterioso era, secondo il macchinario, in assoluta prevalenza zolfo, sia pure mescolato con tracce infinitesimali di mercurio e di un’altra sostanza salina che non era riuscito a identificare con precisione.
L’aspetto singolare era che, nonostante la composizione chimica, esso non si comportava affatto come zolfo ordinario, ma presentava reazioni proprie del mercurio e passava - se sottoposto a sollecitazioni anche lievi - per qualche istante allo stato fluido, per poi ritrasformarsi in polvere subito dopo.
Zolfo.
Sì, zolfo.
Ma zolfo rosso.
Sfogliò velocemente le pagine del libretto alla ricerca del passo dove, pochi minuti prima, aveva fugacemente letto quella parole: ecco, lo zolfo rosso o zolfo filosofico era stato creato alla fine della Seconda Opera dalla commistione di zolfo, mercurio e Vitriol (quello che la vittima aveva chiamato “Leone Verde”) e Reyner l’avrebbe dovuto usare per fecondare - già, aveva usato proprio questo termine - il mercurio dentro a un qualcosa che si chiamava Athanor.
La due ore che seguirono il medico le trascorse documentandosi su internet per tentare di capire se i suoi sospetti sulla vittima fossero o meno fondati: scoprì, così, che il cosiddetto zolfo rosso era il prodotto della terza fase alchemica o Opera al Rosso e che poteva considerarsi il principio attivo dell’alchimia, quello che agisce sul mercurio inerte e, nella fornace mistica chiamata Athanor, lo feconda. In sostanza zolfo che, grazie all’azione magnetica e attrattiva del mercurio, ritornava al suo stadio di purezza originaria e poteva dar così vita alla pietra filosofale.
“Accidenti, John Reyner era un alchimista!” esclamò Sheldon Hawkes scattando in piedi.
E la polverina scarlatta che aveva davanti era il fantomatico zolfo rosso, materia prima che avrebbe dischiuso al suo padrone le porte della vita eterna, della ricchezza e dell’onniscienza.
Un brivido lo attraversò dalla testa ai piedi e, fremente d’emozione, contemplò la boccetta e il suo contenuto: il giovane chimico era dunque riuscito dove Paracelso e Nicholas Flamel avevano fallito? Veramente sarebbe stato in grado di produrre l’elisir di lunga vita, acquisire la conoscenza del bene e del male e tramutare in oro a 28 carati i metalli vili?
Ecco - considerò con amara ironia - quest’ultimo aspetto sarebbe stato una vera mano santa per lui, data la situazione di pieno rigor mortis in cui versavano al momento le sue finanze…
Deglutì nervosamente e serrò le mascelle, mentre nel suo cuore la curiosità e il desiderio di credere possibile l’impossibile combattevano contro l’ostinato scetticismo che aveva guidato fino ad allora la sua mano di chirurgo prima e di poliziotto poi; se il suo capo fosse stato lì, probabilmente avrebbe inarcato le sopracciglia, aggrottato la fronte e liquidato la cosa con una delle sue frasi taglienti. Ma Mac Taylor non era lì e non aveva visto ciò che lui aveva visto, né letto le parole del defunto Reyner.
La sua parte razionale lo spingeva, invece, a considerare le singolari circostanze della morte del chimico e le paure espresse nel diario circa la stranezza degli effetti della polvere: non erano quelli che la vittima si aspettava, ma altri completamente diversi e, allo stato, sconosciuti.
Forse letali.
Un istante dopo le criptiche parole lette poco prima - “punto di contatto e passaggio tra il mondo reale e il mondo delle immagini” - gli rimbombavano nella mente, facendo divampare la sua curiosità di scienziato: forse aveva sotto gli occhi una scoperta fondamentale per l’umanità, come poteva ignorarlo?
Confusamente si chiese anche se quella frase lasciasse intendere una relazione tra il cuore lacerato del morto e la fine della sua storia d’amore: Reyner era spirato perché il suo cuore era stato letteralmente spezzato, proprio come aveva urlato alla fidanzata che fuggiva da lui.
Gli venne d’un tratto in mente che forse il metodo per verificare se il chimico fosse riuscito o meno nel suo intento era più facile di quanto avesse inizialmente pensato: così, senza riflettere oltre, si tolse dal polso il sottile braccialetto di acciaio che una ragazza con cui usciva all’epoca gli aveva regalato per il San Valentino precedente, lo appoggiò accanto ai vetrini e con estrema delicatezza vi fece cadere sopra una piccola quantità di polvere rossa.   
In quell’istante, la voce allegra di Adam Ross lo fece sobbalzare: temendo di essere stato scoperto a manipolare una prova, Sheldon frettolosamente rimise il tappo alla fialetta, ma non riuscì a impedire che una parte di ciò che rimaneva del suo contenuto gli finisse sulle dita.
“Ehi, dottore!” esclamò invece allegro il tecnico di laboratorio, il quale non si era accorto assolutamente di nulla “Ancora qui a quest’ora? Ma lo sai o no che è venerdì sera? Ho saputo che Mac ti ha assegnato una bella gatta da pelare…”.
Hawkes sorrise, leggermente imbarazzato, ma soprattutto preoccupato per gli effetti che la polvere avrebbe potuto avere su di lui e, allo stesso tempo, tentando di nascondere dietro un atteggiamento apparentemente normale le domande senza risposta che gli affollavano la mente.
“Comunque, se hai voglia di una pausa” continuò il collega, ancora sulla porta “puoi raggiungerci: ho appuntamento con degli amici per andare in quel nuovo lounge-bar di Soho, quello di cui abbiamo parlato ieri. Come si chiama? Aspetta, ce l’ho sulla punta della lingua…”.
L’intelligenza è una gran cosa, e Sheldon Hawkes non ne fu mai tanto consapevole come in quel momento: d’improvviso un’intuizione gli aveva infatti attraversato il cervello, ponendo in connessione tutte le tessere di quello stravagante puzzle.
“Ok” rispose ad Adam, facendo contemporaneamente due passi verso di lui “mostrami la lingua, allora!”.
Il tecnico ridacchiò e, stando a quello che credeva uno scherzo piuttosto eccentrico, la tirò fuori considerando che a volte i cervelloni hanno uno strano senso dell’umorismo.
Hawkes si sporse verso di lui e lesse, scandendo le sillabe ad alta voce: “Sub-Mer-cer”.
“Appunto!” ribatté l’altro, sorpreso “Ma come fai a saperlo?”.
Sheldon fece spallucce e rispose, sorridendo: “Beh, ce l’avevi proprio sulla punta della lingua…”.
“Amico, credo seriamente che tu stia lavorando un po’ troppo” fece a quel punto Adam che, salutatolo, guadagnò in fretta l’uscita senza ripetere il suo invito.
Non appena fu andato via, il medico legale tornò a voltarsi verso il tavolo, constatando che il suo braccialetto era rimasto esattamente com’era e non era affatto divenuto più prezioso; in compenso, però, il sospetto che gli era balenato, l’illuminazione che l’aveva trafitto d’improvviso - per quanto pazzeschi - avevano appena ricevuto un’inattesa conferma. 
Senza dubbio, rifletté, di tutte le strane esperienze che avesse mai avuto, o immaginato, oppure che altra gente avesse mai avuto, o immaginato, quella era la più sconvolgente e folle.
Come ipotizzare - non dico credere - che una tale enormità fosse possibile?
Eppure tutto quadrava: adesso iniziava a capire quali fossero gli inaspettati effetti della scoperta di Reyner e perché avesse parlato di “punto di contatto tra mondo reale e mondo delle immagini”.
Soprattutto, ecco spiegata la causa della sua morte improvvisa.
Le riflessioni del medico furono bruscamente interrotte dal trillo insistente del cellulare; era tentato di non rispondere, ma quando vide che il numero apparteneva a mister John H. Milton (6) capì che non farlo sarebbe stato un grave errore. Perché ignorare la telefonata di uno degli avvocati più noti e impegnati della città, lo stesso al quale hai lasciato almeno dieci messaggi negli ultimi due giorni e dal quale speri di avere aiuto per recuperare in parte ciò che un broker senza scrupoli ti ha portato via, non è certo un segno di intelligenza.
E a Sheldon Hawkes, come avrete capito, l’intelligenza non faceva difetto.
Nelle poche decine di secondi che seguirono - il signor Milton dava sempre l’impressione che anche le sue parole, oltre al suo tempo e ai suoi servigi legali, valessero oro e non dovessero mai essere sprecate senza trarne adeguato profitto - il medico legale dimenticò completamente gli straordinari avvenimenti appena accaduti, giacché il principe del foro gli comunicò che aveva generosamente deciso di ascoltare le sue richieste e che proprio in quel momento lo stava aspettando nel parcheggio del palazzo della polizia.
Così, senza riflettere oltre, Sheldon mise in tasca la fialetta, infilò al volo la giacca al di sopra del camice e si lanciò nel corridoio, sperando ardentemente che quella volta l’ascensore non l’avrebbe fatto aspettare almeno dieci minuti buoni come al solito.
E invece, proprio come al solito, stava attendendo già da un poco, spostando nervosamente il peso da un piede all’altro e spingendo con forza le mani serrate a pugno nelle tasche del camice fin quasi a deformarle, quando la sua convinzione che le cose non potessero andare peggio di così fu demolita d’un colpo dall’avvicinarsi di due tra i più fastidiosi colleghi della polizia cittadina.
“Hawkes, accidenti: ma che ti prende?” esclamò il massiccio capitano Brigham Sinclair, squadrandolo con uno sguardo storto e freddo che subito dopo gli rientrò negli occhi, strisciando come una serpe.
Premette, a sua volta, con foga il tasto di chiamata e aggiunse: “Sembra che tu abbia la neve in tasca!”.
Poi, senza attendere una risposta, voltò la faccia e seguitò a parlare al cellulare.
“No, signor Sindaco” disse lanciando un’occhiata allusiva all’amico Gerrard, che come sempre l’accompagnava con aria ossequiosa “ha fatto benissimo a mettermi la pulce nell’orecchio, non pensavo che sarebbe arrivato a tanto. Ne parliamo domattina, se per lei va bene”.
Subito dopo chiuse la comunicazione e s’infilò nell’ascensore - che nel frattempo era scattato anche lui sull’attenti, perché non sia mai detto che il Capo dei detective di New York City debba perdere il proprio tempo prezioso in una disutile attesa - seguito dal collega e dal medico legale, sempre più a disagio per il timore che quei due volponi potessero sorprenderlo a parlare con un avvocato del calibro di Milton.
Ma forse, rifletté, l’essere considerato una creatura invisibile da tipi come quelli poteva tutto sommato presentare anche qualche vantaggio.
 “Ahi!” gemette all’improvviso Sinclair, portandosi una mano grassoccia all’orecchio “ma che diavolo?!”.
“Tutto ok?” sibilò Gerrard.
L’altro annuì, non troppo convinto e senza smettere di massaggiarsi il collo e la mascella.
“Comunque” esclamò il primo, con un sorrisetto sbilenco e per nulla rassicurante, come se stesse riprendendo un discorso interrotto a causa della telefonata di poco prima “dobbiamo risolvere al più presto quella situazione: sono stufo di stare sempre sul chi vive e di sobbalzare alla minima allusione. L’altro giorno mi sono persino scusato senza che mi avesse accusato di nulla…”.
“Eh già” concluse Sinclair, con ancora la mano sull’orecchio e una smorfia di dolore dipinta sul viso, ma senza abbandonare il suo spirito feroce “un classico caso di coda di paglia”.
Giunti al loro piano, i due uscirono salutando il medico con uno stentato cenno del capo; guardandoli mentre si allontanavano lungo il corridoio prima che le porte si richiudessero, Sheldon Hawkes fu solo in parte sorpreso - e non riuscì a trattenere un sorriso - quando vide spuntare dal raffinato completo principe di Galles che indossava Gerrard una lunga, giallina, maestosamente inequivocabile coda di paglia che frustava con leggerezza il pavimento ricoperto di moquette marrone.
 
***
 
“Dottore, basta, lei mi sta facendo perdere tempo!” esclamò secco mister Milton, in piedi accanto alla sua lussuosa Bentley Continental GT “Whale Skin” (7).
“La prego” insisté Hawkes, cercando di vincere oltre all’umiliazione del momento, anche il disagio che gli stava provocando il rivolo di acqua gelida che ormai gli colava dal camice lungo i pantaloni e fin dentro i calzini, facendolo rabbrividire in quella rigida notte di dicembre “Non posso darle l’anticipo che mi ha chiesto, ma le garantisco che non appena recupereremo qualcosa provvederò a saldare tutto…”.
La risata dell’avvocato fu stridula come una lama di coltello che scorre su una bottiglia e altrettanto sgradevole.
“E pensare che lei mi sembrava un ragazzo intelligente!” infierì il legale, fissando con ostentazione il rolex d’oro che gli splendeva al polso e accingendosi a risalire in auto “Ma voglio venirle incontro e non le addebiterò nulla per avermi fatto fare tardi alla cena con il Governatore”.
Il medico a quel punto non resistette più: la fredda alterigia di quell’omuncolo, lo sprezzo di Sinclair, il pensiero della sua fiducia tradita così vilmente, di tutti i suoi risparmi persi in un soffio, lo trascinarono a un violento scoppio di collera.
Rivolgendosi verso l’avvocato esclamò con rapidità e fierezza, ma senza minimamente ricordarsi della fialetta che aveva ancora in tasca: “Ma va’ all’inferno, brutto bastardo!”.
Non appena finì di pronunciare queste poche parole, immediatamente si rese conto di ciò che aveva fatto: ma era troppo tardi, ormai.
Perché a pochi passi da lui, dove prima c’era solo l’asfalto gelato del garage sotterraneo della Scientifica a quell’ora di notte deserto, adesso si apriva un’orrenda voragine fumigante, che vorticosamente s’avvolgeva su se stessa come un buco nero e dalla quale sgorgavano come un fiume tumultuoso oscurità, fuliggine, vampate di fuoco e un insopportabile puzzo di zolfo.
Sul fondo, scorse una creatura alta come una montagna, con occhi fiammeggianti e fauci talmente vaste che avrebbero potuto contenere senza difficoltà novemila uomini: due esseri mostruosi, neri come la pece, le mantenevano aperte, stando l’uno sulla testa del demonio e l’altro in piedi davanti alla sua bocca in cui si aprivano tre gole, ciascuna delle quali vomitava fuoco incessante.
Dal ventre della bestia saliva il continuo lamento degli infelici peccatori divorati e Sheldon, pur senza poterlo vedere, seppe che dentro le viscere della creatura vi erano lacrime, tenebre, stridore di denti, fiamme, ardore intollerabile, freddo che spacca la pelle, cani, orsi, leoni e serpenti striscianti (8).
Col respiro mozzo, fece appena in tempo a distinguere Milton che veniva tirato verso il basso come da un vento invincibile che non gli lasciava scampo, sebbene - non più avvocato sprezzante, ricco e potente, ma solo miserevole omiciattolo urlante - tentasse con tutte le sue forze di divincolarsi e aggrapparsi a qualcosa; poi due grinfie deformi come chele mostruose lo afferrarono per le gambe e lo trascinarono giù che piangeva e smaniava da far pietà.
Durò solo una frazione di secondo e poi tutto scomparve, d’improvviso come era cominciato: Sheldon Hawkes rimase immobile, quasi impietrito, accanto all’abbandonato bolide luccicante e considerò confusamente che, se non fosse stato per la chiazza di fuliggine sul pavimento e il penetrante odore di zolfo che ancora ammorbava l’aria, non vi sarebbe stata alcuna testimonianza del prodigio al quale aveva appena assistito.
Deglutì e sbatté le palpebre, più volte, inspirando a fondo nel tentativo di riprendere il controllo di sé; indietreggiò di alcuni passi, fino a trovarsi con la schiena contro una delle colonne del parcheggio e, con la punta delle dita, sfiorò la boccetta che giaceva nella tasca del camice.
Col trascorrere dei secondi, il suo stato d’animo passò dal terrore alla meraviglia e, infine, all’esaltazione.
Un potere spaventoso: ed era nelle sue mani.
Mentre la rabbia che gli aveva scaldato il sangue lasciava il posto alla consapevolezza dell’enormità di ciò che aveva fatto e il senso di colpa già iniziava a lacerargli l’anima, si rese conto che non era abbastanza forte per sostenere un peso come quello da solo: aveva bisogno di raccontare il suo segreto a qualcuno… a qualcuno di cui potersi fidare, che l’avrebbe aiutato a capire e a decidere come comportarsi.
Col cuore in gola, trasse un respiro profondo e prese a correre verso gli ascensori.
 
***
 
Durante i minuti che la cabina impiegò per raggiungere il trentaquattresimo piano - e che non gli parvero mai eterni come in quell’occasione - il dottor Hawkes si ritrovò a pregare con tutte le sue forze che Mac Taylor a quell’ora così tarda fosse ancora in ufficio.
In effetti, considerò speranzoso, se c’era uno che (come lui stesso e forse persino di più) appariva completamente dedito al suo lavoro, tanto da sacrificarvi persino le notti e il week-end, quello era senza dubbio il suo supervisore: certo, una volta trovatolo avrebbe dovuto spiegargli quella stranissima faccenda, tentando di farlo credere a qualcosa cui lui per primo, se non avesse avuto ancora negli occhi il terrore dipinto sul viso dell’avvocato e le fauci spalancate del demonio che l’aveva inghiottito, non avrebbe mai prestato fede.
Ma Mac era la persona più saggia che lui avesse mai incontrato e più di una volta l’aveva sorpreso, rivelando un’apertura mentale all’apparenza inconciliabile con i suoi modi burberi e il suo assoluto rigore verso i sottoposti.
Cercando di scacciare dalla mente le immagini, ancor vivide, dell’atroce fine del noto legale e sforzandosi di preparare - per quanto possibile, dato che era sconvolto - le parole che avrebbe usato per convincere il collega, Sheldon balzò fuori dalla cabina e percorse a passo veloce i corridoi bui e deserti che lo separavano dall’ufficio del tenente: quando vide che una luce, seppur fioca, vi era accesa, tirò un sospiro di sollievo e rallentò la sua corsa.
Si fermò dietro la porta a vetri, che non era chiusa a chiave ma solo accostata, e sollevò la mano per bussare, quando il suo gesto venne bloccato da un suono soffocato proveniente da dietro l’uscio: era a metà strada tra una risata e un gemito - non di dolore ma chiaramente di piacere - e quando il dottore si rese conto di aver riconosciuto senza ombra di dubbio a chi appartenesse la voce che l’aveva appena esalato, per poco non gli sfuggì un grido.
Si trattenne invece, abbassò il braccio e, spinto da un’improvvisa e inopportuna curiosità, si accostò senza far rumore allo spiraglio che lasciava intravedere l’interno della stanza.
Nella penombra dorata, riuscì a distinguere due sagome che divennero sempre più chiare man mano che le sue pupille si adattavano alla semioscurità: infine, riconobbe Mac Taylor e Danny Messer strettamente allacciati, sorpresi in un atteggiamento inequivocabile.
Il tenente baciava con foga il ragazzo, tenendogli il viso fermo con le mani come se la sua bocca fosse una coppa dalla quale bere grandi sorsate di nettare lieve per dissetarsi: un bacio lungo, appassionato e dolcissimo.
La veridica spiegazione dei continui turni straordinari di Danny e del rinnovato stakanovismo del loro capo si fece strada in un lampo nella mente dello sbigottito dottore, al quale veramente la sorte aveva deciso di non risparmiare nulla. Arretrò di un passo e masticò tra i denti: “Che mi venga un colpo!”.
D’improvviso, i due uomini avvinghiati udirono un rumore - come un grido strozzato, seguito da un pesante tonfo - entrambi nello stesso istante e s’interruppero, allontanandosi bruscamente l’uno dall’altro.
Ma il loro segreto non sarebbe stato divulgato, almeno non quella notte.
Perché appena dietro la porta giaceva il corpo, ormai senza vita, del dottor Sheldon Hawkes.
 
FINE
 
Note:

 

  1. La bilancia di Mohr-Westphal è uno strumento utilizzato per misurare la densitàbasandosi sul principio di Archimede, secondo il quale ogni corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso verso l'alto uguale, per intensità, al peso del volume di fluido spostato. È costituita da un piedistallo in metallocon alla base tre piedi fissi e uno regolabile in altezza, per poter posizionare centralmente la punta di controllo all'estremo di un braccio della bilancia. Sull'altro braccio, più lungo, sono presenti dieci pioli dove verranno appesi quattro pesini, detti cavalieri, con rispettivo valore di densità 0.1, 0.01, 0.001 e 0.0001; il galleggiante all'estremo del braccio lungo della bilancia viene immerso nel liquido e i bracci della bilancia sono equilibrati con i pesini, il cui valore corrisponde alla densità del liquido. Per misurare la densità di un solido(ovviamente non solubile in acqua) si applica al posto del galleggiante in vetroun piattino forato di metallo (fonte:wikipedia).
  2. Il nome del personaggio cita quello di uno scrittore autore di opere in tema, come “The Age of Miracles” e soprattutto “The Diary of a Modern Alchemist”.
  3. Anche questo nome è “rubato” a una persona realmente esistente: il professor Chintamani è nato a Bangalore nel 1934 ed è uno dei più celebri chimici del mondo, distintosi soprattutto per le ricerche sulla struttura molecolare e nel campo della spettroscopia (fonte: wikipedia).
  4.  La disavventura e le sue conseguenze sul comportamento di Hawkes sono raccontate nella puntata “È successo anche a me” della sesta stagione di CSI NY.
  5. Questo e tutti i riferimenti successivi sono legati alle procedure alchemiche finalizzate alla creazione della cd. pietra filosofale; chiaramente ho dovuto semplificare un po’ le cose per non appesantire il racconto, ma se qualcuno volesse approfondire lascio il link a questo sito http://www.labirintoermetico.com/01Alchimia/Schema_della_grande_opera_per_via_secca.pdf;
  6.  La mia passione per le citazioni qui diventa crudele: il nome, oltre ad appartenere al grande autore del “Paradiso perduto”, è anche quello del personaggio interpretato da Al Pacino in “L’avvocato del diavolo”. E non aggiungo altro per non rovinarti la sorpresa.
  7. Fighissima auto con livrea che riproduce la pelle di una balena. Per foto, vedi qui. http://www.autoemotori.it.
  8. L’immagine riprende il mostro Acheronte, descritto nella medievale “Visio Tundali”, considerata una delle fonti di Dante Alighieri e ripresa da J.L.Borges in “Manuale di zoologia fantastica”, Einaudi, 1998.

Il racconto è liberamente ispirato alle novelle “Soffio” di Luigi Pirandello e “Qual buon vento” di Massimo Bontempelli.
 

  
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