THE
GAME IS OVER
I start with…
In
una notte di luna piena, senza stelle, una figura
oscura camminava barcollando per le innevate stradine di Mosca. Reggeva
una
pistola fumante in una mano, mentre con l’altra si teneva una spalla
ferita. Ad
un certo punto si fermò, poggiandosi stancamente ad uno dei muri che
affiancavano il piccolo e sporco vicolo dove si trovava.
A fatica si portò l’arma ancora calda davanti al volto, la mano che
sfiorava lo
squarcio cremisi era ricoperta di sangue: sorrise, osservando e
assaporando
quel liquido scarlatto ormai freddo…
Proprio in quel mentre, una frase riaffiorò nella sua testa:
“Non esiste animale più cattivo di un lupo ferito…”
Lo sussurrò inconsciamente, ed una risata lo scosse.
“Ahahahah! Quanto è vero!” Si disse, mentre un sorriso malvagio gli
deformava
il volto.
Anche quella notte aveva fatto il suo dovere, però non si era aspettato
una
tale resistenza: la sua vittima aveva reagito.
Due
figure si scrutavano in una stanza buia, una
avvolta in un lungo cappotto nero, l’altra, fiera ed orgogliosa, se ne
stava
nell’ombra…
Due scatti, due spari: un proiettile si conficcava in una spalla, un
altro, con
la sua precisione mortale ed il suo sinistro sibilo, colpiva un cuore,
uccidendo.
Spalancò
gli occhi, risvegliandosi dallo stato di
trance in cui era caduto.
Aveva rivissuto per l’ennesima volta ciò che aveva fatto qualche ora
prima…
Non capiva perché la cosa gli pesasse tanto: in fondo non era la prima
volta
che uccideva.
Possibile che quegli occhi ametista, che per un attimo avevano mostrato
delusione e poi derisione, come se quel ragazzo sapesse chi lui fosse e
soprattutto per quale scopo fosse lì, lo avessero tanto colpito?
Davvero in quello sguardo aveva scorto una scintilla di affetto, anche
se solo
per un attimo?
No.
Assolutamente.
Lui non aveva mai compreso cosa fosse l’affetto… quindi, come avrebbe
potuto
riconoscerlo?
Eppure…
Scosse la testa, digrignando i denti: da quanto in qua si faceva tutti
quegli schemi
mentali?
Infastidito da quel martellante dubbio, si sollevò a fatica da dove si
era
poggiato. La pistola era nuovamente fredda fra le mani insanguinate, il
dolore
alla spalla lo consumava e più volte trattenne una bestemmia fra le
labbra
screpolate.
Con lentezza, ripose l’arma in una tasca interna del lungo cappotto che
indossava; e fu a quel punto che le sue dita sfiorarono qualcosa di
circolare.
Sorrise ancora, estraendo una trottolina dal colore argenteo.
Però, questa volta il suo sorriso era diverso: non un ghigno, non una
smorfia
di derisione, ma un'espressione nostalgica e triste.
Ma così come s'era perso in quello stato di insolita umanità,
immediatamente si
riscosse e, col fastidio a pulsargli nelle tempie, lentamente riprese a
camminare.
Piccole gocce di sangue macchiavano la neve, lasciando chiare tracce
del suo
passaggio. Il dolore aumentava, ma doveva resistere: era quasi giunto
alla sua
meta.
Le strade quella notte avevano un’aria davvero spettrale.
Nell’ombra, una giovane donna osservava con rammarico quel ragazzo che
perdeva
sempre più sangue, quel ragazzo che era stato tanto importante…
Con occhi malinconici gli diede un’altra rapida occhiata e sorrise a un
dolcissimo ricordo che in quel momento la sua mente aveva deciso di
donarle.
Una lacrima solitaria le scivolò lungo la guancia e la ragazza
scomparve
nell'oscurità, sussurrando queste parole:
“Era solo uno stupido gioco, hai deciso di partecipare… ed ora stai
pagando.”
Finalmente
aveva raggiunto il posto… Dio quanto
disgustava quel luogo!
Si trovava davanti ad un antico cancello nero, sormontato da due
gargoyle in
pietra, che fungeva da ingresso ad una magnifica, quanto inquietante
villa. Le
ombre che la struttura creava sul vialetto di ingresso erano dei
fantastici
giochi di forme, e chiunque si sarebbe fermato e avrebbe osservato con
estrema
attenzione lo scenario che aveva di fronte, ma, beh, lui non era
“chiunque”.
Spinse il cancello, che si aprì facilmente, e attraversò con fatica il
vialetto,
fermandosi davanti alla grande porta di quercia intarsiata da mille
ghirigori.
Anche quest'ultima si aprì senza troppe difficoltà sotto la sua debole
e
tremante spinta, ed il giovane entrò nell’ingresso della grande villa.
Nonostante l’oscurità regnasse sovrana all’interno della struttura, il
troppo
lusso era percepibile nell’aria.
Cercando di non far rumore si avviò verso le scale, ma una voce
dall’oscurità
richiamò la sua attenzione:
“Sei in ritardo.”
Dall’ombra comparve un uomo di mezza età, dai lineamenti marcati, i
capelli scuri
e profondi occhi neri come la notte, che si rispecchiarono e vennero
risucchiati
dal mare di zaffiro che ricambiò lo sguardo.
“A te cosa importa?” Chiese con aria di sfida l'altro.
Grosso errore.
L’uomo gli si avventò contro, tirandolo per i lunghi capelli rossi e
scagliandolo contro un muro. Il giovane non ebbe modo di rispondere
all’attacco, troppo accecato dal dolore per la ferita che pulsava senza
tregua.
Un rivolo di sangue gli colò dalla bocca, che subito leccò via.
Si rialzò, poggiandosi al muro ora macchiato di rosso, senza dire una
parola o
aggiungere un lamento, nonostante il dolore alla spalla fosse aumentato
sommato, in quel momento ,alle fitte alla testa.
“Sei ferito. Hiwatari ha opposto resistenza…” Sorrise malvagio l’uomo.
Ma il ragazzo non fece caso al ghigno che si era formato su quel volto
tanto
odiato, perché nella sua mente risuonava quel nome appena pronunciato:
“Hiwatari,
Hiwatari, Hiwatari…”
Una
scossa elettrica gli attraversò la spina dorsale e
un incredibile malessere si impossessò di lui. Ignorando le risate
malvagie
dell’uomo che godeva nel vedere lo stato in cui era caduto dopo aver
sentito
quelle parole, si precipitò su per le scale arrivando al secondo piano
della
villa, dove vi era la sua camera e, dopo aver attraversato il lungo
corridoio
di corsa ed aver aperto con forza l’ultima porta, corse all’interno
della
stanza, catapultandosi in bagno.
In quei lunghi minuti, gli sembrò di star rimettendo la fetida anima
che ancora
testarda si aggrappava al suo corpo.
Il dolore lo avvolgeva e la nausea masticava ogni brandello del suo
corpo.
Si rialzò lentamente, non del tutto sicuro che gli fosse passata.
Ma che diavolo stava succedendo? Perché appena udito quel nome si era
sentito
così male? Sensi di colpa? No, lui
non aveva mai visto quel tizio ed ancor meno gli importava di avergli
strappato
la vita.
Probabilmente, era tutto una coincidenza: d'altra parte non era nelle
migliori
condizioni fisiche.
Eppure c’era qualcosa di familiare…
In fondo lui non ricordava nulla del suo passato.
E se..?
Basta.
Quella notte l’immaginazione gli stava facendo troppi brutti scherzi…
Con delicatezza si tolse il cappotto e il maglione nero a collo alto
zuppo di
sangue che indossava, rimanendo a torso nudo.
Quindi, raccolse i lunghi capelli rossi in una coda, lasciando alcune
ciocche
di fili ramati libere di accarezzargli il volto.
Osservò il suo riflesso allo specchio: uno sguardo di ghiaccio lo
fissava
prepotentemente, ma subito quella boria si trasformò in una smorfia di
dolore.
Un’improvvisa fitta lo costrinse ad appoggiarsi ai lati dello specchio
ed a
quel punto ritenne che fosse meglio pensare ad estrarsi quel maledetto
proiettile, piuttosto che perdersi in stupide teorie senza senso…
Si chinò su un mobiletto lì di fianco e ne tirò fuori un paio di pinze,
del
disinfettante, dei batuffoli di cotone, ago e filo. Bagnò con l’alcool
uno dei
batuffoli e cercando di ignorare il dolore lo passò sulla ferita.
Ripeté più
volte quell'operazione senza emettere alcun suono, poi, si portò
davanti al
volto le pinze, che sterilizzò con la fiamma dell’accendino che portava
sempre
nella tasca dei pantaloni.
Il fumo era proprio uno dei suoi vizi più
brutti, se non anche l’unico…
Finita quella poco adeguata opera di sterilizzazione e stringendo i
denti, portò
le pinze alla ferita, cominciando a cercare all’interno della carne il
proiettile.
Il sangue scorreva lentamente lungo la sua schiena e il suo petto,
sporcando
con sottili gocce il pavimento bianco.
Finalmente, trovò ciò che stava cercando da alcuni minuti nella sua
povera
spalla e tirò con forza, estraendo l’odiato proiettile.
Lo ripose sul piano del lavello e riprendendo l’alcool e i batuffoli di
cotone,
si disinfettò ancora quello squarcio, per poi tentare di ricucire quel
macello
di carne.
Alla fine, nonostante il dolore continuasse ad accecarlo, riuscì a
sistemare
maldestramente la ferita; quindi, fra un profondo sospiro e l'altro,
prestò la
sua attenzione al souvenir appena tirato fuori dal suo corpo.
Lo prese tra le mani tremanti e, osservandolo attentamente, aprì
l’acqua del
lavandino per sciacquarlo.
Quando il sangue fu completamente defluito da quel piccolo aggeggio che
con
tanta facilità riusciva a strappare la vita, se lo portò davanti agli
occhi.
Un ghigno divertito gli si formò sul volto.
Un proiettile d’argento! Quello era un fottuto
proiettile d’argento!
Le leggende raccontavano che fosse l’unica cosa in grado di uccidere un
lupo
mannaro...
Osservandolo più attentamente, notò una piccola incisione in cirillico
sulla
sua superficie:
“Per te.”
Incredibile!
Quel tipo, quell’Hiwatari aveva caricato quel proiettile nella sua
pistola
apposta per lui!
Ma perché?
Lo sorprese un’altra fitta al capo e decise che per quella notte ne
aveva piene
le scatole.
Pensò di farsi una doccia: poco importava se i punti mal fatti alla
spalla sarebbero
saltati, li avrebbe ricuciti.
Al momento doveva solo riordinare le idee.
Quando,
finita l'acqua calda, uscì dalla doccia, il giovane aprì la
porta del bagno ed il
vapore si disperse nella sua stanza.
Fu allora che si sentì finalmente sfinito.
Quella camera, diversamente dal resto della villa, era la meno
lussuosa, ma
forse lo era fin troppo per i suoi gusti…
Un grande letto a baldacchino con i tendaggi di velluto rosso si
trovava al
centro della stanza, morbide lenzuola di seta nera, invece, fungevano
da
copriletto. Il legno di quercia che formava la testata e le colonne era
intarsiato e rappresentava delle
magnifiche composizioni floreali.
Vi erano, poi, un cassetto ed un antico armadio dello stesso tipo, un
magnifico
specchio con intarsi d’oro e, infine, una bella scrivania ai piedi
della
finestra.
Senza soffermarsi troppo a lungo su quel lusso spettrale che lo
circondava da
tempo, gettò stancamente l’asciugamano che stava usando per i capelli
sul letto
ed andò verso l’armadio per tirarne fuori dei vestiti per la giornata: ormai
era quasi l'alba.
Non facendo caso a cosa avesse preso,
si ritrovò a fissare allo specchio la sua immagine vestita con una
familiare, fin troppo familiare, tuta bianca…
E lui non ricordava di avere un capo
simile.
Senza badare alla nausea che aveva ripreso a farsi strada nel suo
stomaco, stava
per sistemarsi i capelli nella sua solita coda, quando, ipnotizzato da
un qualcosa
che nemmeno lui riuscì a definire, si ritrovò a pettinarsi i capelli in
una
maniera assurda.
Erano corna, quelle..?
Rise di gusto; poi, come se si fosse reso conto di ciò che aveva appena
fatto, si
sfiorò le labbra con le dita…
Aveva riso?
Era davvero divertito e allo stesso tempo felice di ciò che vedeva
riflesso in
quello specchio?
Oh, beh, in effetti doveva ammettere che era davvero ridicolo conciato
in quel
modo...
Quell’immagine di se stesso, però, gli richiamava alla mente qualcosa.
Riprese la spazzola e si risistemò i capelli in modo più normale,
quindi, sfinito,
si gettò sul letto, cominciando ad accarezzare lentamente la seta nera
delle
lenzuola.
Rimase così per qualche minuto, poi la sua attenzione fu catturata da
un
luccichio poco distante. Si alzò lentamente, ignorando la spalla e la
testa che
giustamente reclamavano il riposo che meritavano, e si chinò sul
pavimento per
raccogliere la trottolina argentea che aveva nel cappotto.
Si ridistese sul letto, osservandola attentamente.
Probabilmente, gli era caduta mentre correva verso il bagno.
Si rigirò il beyblade tra le mani… già, sapeva benissimo cos’era quella
trottolina e ricordava anche il nome che gli aveva dato: Wolborg.
Le sole e uniche certezze del suo
passato.
Osservò il bit-chip del bey, dove, fiero e maestoso, si ergeva uno
splendido e
candido lupo alato.
Un’altra fitta al capo lo costrinse a sedere, facendogli cadere il bey,
nel
tentativo di tenersi la testa fra le mani.
Sbarrò gli occhi ed il suo respiro si fece sempre veloce.
Non comprendeva cosa potesse essere quella crisi, sapeva solo che
avrebbe voluto
morire, mentre sentiva il capo spaccato in due, il cuore correre rapido
ed
alcune, calde lacrime rigargli le guance.
Stava piangendo.
Lui, Yurij Ivanov, stava piangendo per la prima volta da quando aveva
perso la
memoria.
La ragione?
I suoi ricordi stavano tornando e lentamente, dolorosamente si facevano
spazio
nella sua mente, in quella notte che aveva giocato talmente sporco
contro di
lui.
Una figura avvolta in un mantello stava osservando la scena
da un albero di fronte alla finestra della
camera del ragazzo.
Un sorriso si intravide da sotto il cappuccio del mantello, seguito da
queste
parole:
“Il gioco… sei quasi arrivato alla fine,Yurij: resisti, puoi farcela.”
Ci fu un bacio nel vento ed un lieve profumo di rosa addolcì il gelido
inverno
russo.