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Autore: Iria    11/10/2007    7 recensioni
Le strade quella notte avevano un’aria davvero spettrale.
Nell’ombra, una giovane donna osservava con rammarico quel ragazzo che perdeva sempre più sangue, quel ragazzo che era stato tanto importante…
Con occhi malinconici gli diede un’altra rapida occhiata e sorrise a un dolcissimo ricordo che in quel momento la sua mente aveva deciso di donarle.
Una lacrima solitaria le scivolò lungo la guancia e la ragazza scomparve nell'oscurità, sussurrando queste parole:
“Era solo uno stupido gioco, hai deciso di partecipare… ed ora stai pagando.”

Mia primissima fic, spero vi piaccia!
Iria.
In revisione: 03/10/2013 ho sistemato il primo capitolo, cercando di restare fedele il più possibile a quello che era il mio stile sei anni fa. Non è perfetto, ma almeno è meno terribile e più leggibile rispetto a prima! ^^
Genere: Introspettivo, Song-fic, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Boris, Kei Hiwatari, Nuovo personaggio, Yuri
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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THE GAME IS OVER
I start with…

In una notte di luna piena, senza stelle, una figura oscura camminava barcollando per le innevate stradine di Mosca. Reggeva una pistola fumante in una mano, mentre con l’altra si teneva una spalla ferita. Ad un certo punto si fermò, poggiandosi stancamente ad uno dei muri che affiancavano il piccolo e sporco vicolo dove si trovava.
A fatica si portò l’arma ancora calda davanti al volto, la mano che sfiorava lo squarcio cremisi era ricoperta di sangue: sorrise, osservando e assaporando quel liquido scarlatto ormai freddo…
Proprio in quel mentre, una frase riaffiorò nella sua testa:
“Non esiste animale più cattivo di un lupo ferito…”
Lo sussurrò inconsciamente, ed una risata lo scosse.
“Ahahahah! Quanto è vero!” Si disse, mentre un sorriso malvagio gli deformava il volto.
Anche quella notte aveva fatto il suo dovere, però non si era aspettato una tale resistenza: la sua vittima aveva reagito.

Due figure si scrutavano in una stanza buia, una avvolta in un lungo cappotto nero, l’altra, fiera ed orgogliosa, se ne stava nell’ombra…
Due scatti, due spari: un proiettile si conficcava in una spalla, un altro, con la sua precisione mortale ed il suo sinistro sibilo, colpiva un cuore, uccidendo.

Spalancò gli occhi, risvegliandosi dallo stato di trance in cui era caduto.
Aveva rivissuto per l’ennesima volta ciò che aveva fatto qualche ora prima…
Non capiva perché la cosa gli pesasse tanto: in fondo non era la prima volta che uccideva.
Possibile che quegli occhi ametista, che per un attimo avevano mostrato delusione e poi derisione, come se quel ragazzo sapesse chi lui fosse e soprattutto per quale scopo fosse lì, lo avessero tanto colpito?
Davvero in quello sguardo aveva scorto una scintilla di affetto, anche se solo per un attimo?
No.
Assolutamente.
Lui non aveva mai compreso cosa fosse l’affetto… quindi, come avrebbe potuto riconoscerlo?
Eppure…
Scosse la testa, digrignando i denti: da quanto in qua si faceva tutti quegli schemi mentali?
Infastidito da quel martellante dubbio, si sollevò a fatica da dove si era poggiato. La pistola era nuovamente fredda fra le mani insanguinate, il dolore alla spalla lo consumava e più volte trattenne una bestemmia fra le labbra screpolate.
Con lentezza, ripose l’arma in una tasca interna del lungo cappotto che indossava; e fu a quel punto che le sue dita sfiorarono qualcosa di circolare.
Sorrise ancora, estraendo una trottolina dal colore argenteo.
Però, questa volta il suo sorriso era diverso: non un ghigno, non una smorfia di derisione, ma un'espressione nostalgica e triste.
Ma così come s'era perso in quello stato di insolita umanità, immediatamente si riscosse e, col fastidio a pulsargli nelle tempie, lentamente riprese a camminare.
Piccole gocce di sangue macchiavano la neve, lasciando chiare tracce del suo passaggio. Il dolore aumentava, ma doveva resistere: era quasi giunto alla sua meta.

Le strade quella notte avevano un’aria davvero spettrale.
Nell’ombra, una giovane donna osservava con rammarico quel ragazzo che perdeva sempre più sangue, quel ragazzo che era stato tanto importante…
Con occhi malinconici gli diede un’altra rapida occhiata e sorrise a un dolcissimo ricordo che in quel momento la sua mente aveva deciso di donarle.
Una lacrima solitaria le scivolò lungo la guancia e la ragazza scomparve nell'oscurità, sussurrando queste parole:
“Era solo uno stupido gioco, hai deciso di partecipare… ed ora stai pagando.”

Finalmente aveva raggiunto il posto… Dio quanto disgustava quel luogo!
Si trovava davanti ad un antico cancello nero, sormontato da due gargoyle in pietra, che fungeva da ingresso ad una magnifica, quanto inquietante villa. Le ombre che la struttura creava sul vialetto di ingresso erano dei fantastici giochi di forme, e chiunque si sarebbe fermato e avrebbe osservato con estrema attenzione lo scenario che aveva di fronte, ma, beh, lui non era “chiunque”.
Spinse il cancello, che si aprì facilmente, e attraversò con fatica il vialetto, fermandosi davanti alla grande porta di quercia intarsiata da mille ghirigori.
Anche quest'ultima si aprì senza troppe difficoltà sotto la sua debole e tremante spinta, ed il giovane entrò nell’ingresso della grande villa. Nonostante l’oscurità regnasse sovrana all’interno della struttura, il troppo lusso era percepibile nell’aria.
Cercando di non far rumore si avviò verso le scale, ma una voce dall’oscurità richiamò la sua attenzione:
“Sei in ritardo.”
Dall’ombra comparve un uomo di mezza età, dai lineamenti marcati, i capelli scuri e profondi occhi neri come la notte, che si rispecchiarono e vennero risucchiati dal mare di zaffiro che ricambiò lo sguardo.
“A te cosa importa?” Chiese con aria di sfida l'altro.
Grosso errore.
L’uomo gli si avventò contro, tirandolo per i lunghi capelli rossi e scagliandolo contro un muro. Il giovane non ebbe modo di rispondere all’attacco, troppo accecato dal dolore per la ferita che pulsava senza tregua.
Un rivolo di sangue gli colò dalla bocca, che subito leccò via.
Si rialzò, poggiandosi al muro ora macchiato di rosso, senza dire una parola o aggiungere un lamento, nonostante il dolore alla spalla fosse aumentato sommato, in quel momento ,alle fitte alla testa.
“Sei ferito. Hiwatari ha opposto resistenza…” Sorrise malvagio l’uomo.
Ma il ragazzo non fece caso al ghigno che si era formato su quel volto tanto odiato, perché nella sua mente risuonava quel nome appena pronunciato:

“Hiwatari, Hiwatari, Hiwatari…”

Una scossa elettrica gli attraversò la spina dorsale e un incredibile malessere si impossessò di lui. Ignorando le risate malvagie dell’uomo che godeva nel vedere lo stato in cui era caduto dopo aver sentito quelle parole, si precipitò su per le scale arrivando al secondo piano della villa, dove vi era la sua camera e, dopo aver attraversato il lungo corridoio di corsa ed aver aperto con forza l’ultima porta, corse all’interno della stanza, catapultandosi in bagno.
In quei lunghi minuti, gli sembrò di star rimettendo la fetida anima che ancora testarda si aggrappava al suo corpo.
Il dolore lo avvolgeva e la nausea masticava ogni brandello del suo corpo.
Si rialzò lentamente, non del tutto sicuro che gli fosse passata.
Ma che diavolo stava succedendo? Perché appena udito quel nome si era sentito così male? Sensi di colpa? No, lui non aveva mai visto quel tizio ed ancor meno gli importava di avergli strappato la vita.
Probabilmente, era tutto una coincidenza: d'altra parte non era nelle migliori condizioni fisiche.
Eppure c’era qualcosa di familiare…
In fondo lui non ricordava nulla del suo passato.
E se..?
Basta.
Quella notte l’immaginazione gli stava facendo troppi brutti scherzi…
Con delicatezza si tolse il cappotto e il maglione nero a collo alto zuppo di sangue che indossava, rimanendo a torso nudo.
Quindi, raccolse i lunghi capelli rossi in una coda, lasciando alcune ciocche di fili ramati libere di accarezzargli il volto.
Osservò il suo riflesso allo specchio: uno sguardo di ghiaccio lo fissava prepotentemente, ma subito quella boria si trasformò in una smorfia di dolore.
Un’improvvisa fitta lo costrinse ad appoggiarsi ai lati dello specchio ed a quel punto ritenne che fosse meglio pensare ad estrarsi quel maledetto proiettile, piuttosto che perdersi in stupide teorie senza senso…
Si chinò su un mobiletto lì di fianco e ne tirò fuori un paio di pinze, del disinfettante, dei batuffoli di cotone, ago e filo. Bagnò con l’alcool uno dei batuffoli e cercando di ignorare il dolore lo passò sulla ferita. Ripeté più volte quell'operazione senza emettere alcun suono, poi, si portò davanti al volto le pinze, che sterilizzò con la fiamma dell’accendino che portava sempre nella tasca dei pantaloni.
Il fumo era proprio uno dei suoi vizi più brutti, se non anche l’unico…
Finita quella poco adeguata opera di sterilizzazione e stringendo i denti, portò le pinze alla ferita, cominciando a cercare all’interno della carne il proiettile.
Il sangue scorreva lentamente lungo la sua schiena e il suo petto, sporcando con sottili gocce il pavimento bianco.
Finalmente, trovò ciò che stava cercando da alcuni minuti nella sua povera spalla e tirò con forza, estraendo l’odiato proiettile.
Lo ripose sul piano del lavello e riprendendo l’alcool e i batuffoli di cotone, si disinfettò ancora quello squarcio, per poi tentare di ricucire quel macello di carne.
Alla fine, nonostante il dolore continuasse ad accecarlo, riuscì a sistemare maldestramente la ferita; quindi, fra un profondo sospiro e l'altro, prestò la sua attenzione al souvenir appena tirato fuori dal suo corpo.
Lo prese tra le mani tremanti e, osservandolo attentamente, aprì l’acqua del lavandino per sciacquarlo.
Quando il sangue fu completamente defluito da quel piccolo aggeggio che con tanta facilità riusciva a strappare la vita, se lo portò davanti agli occhi.
Un ghigno divertito gli si formò sul volto.
Un proiettile d’argento! Quello era un fottuto proiettile d’argento!
Le leggende raccontavano che fosse l’unica cosa in grado di uccidere un lupo mannaro...
Osservandolo più attentamente, notò una piccola incisione in cirillico sulla sua superficie:
“Per te.”
Incredibile!
Quel tipo, quell’Hiwatari aveva caricato quel proiettile nella sua pistola apposta per lui!
Ma perché?
Lo sorprese un’altra fitta al capo e decise che per quella notte ne aveva piene le scatole.
Pensò di farsi una doccia: poco importava se i punti mal fatti alla spalla sarebbero saltati, li avrebbe ricuciti.
Al momento doveva solo riordinare le idee.

Quando, finita l'acqua calda, uscì dalla doccia,  il giovane aprì la porta del bagno ed il vapore si disperse nella sua stanza.
Fu allora che si sentì finalmente sfinito.
Quella camera, diversamente dal resto della villa, era la meno lussuosa, ma forse lo era fin troppo per i suoi gusti…
Un grande letto a baldacchino con i tendaggi di velluto rosso si trovava al centro della stanza, morbide lenzuola di seta nera, invece, fungevano da copriletto. Il legno di quercia che formava la testata e le colonne era intarsiato e  rappresentava delle magnifiche composizioni floreali.
Vi erano, poi, un cassetto ed un antico armadio dello stesso tipo, un magnifico specchio con intarsi d’oro e, infine, una bella scrivania ai piedi della finestra.
Senza soffermarsi troppo a lungo su quel lusso spettrale che lo circondava da tempo, gettò stancamente l’asciugamano che stava usando per i capelli sul letto ed andò verso l’armadio per tirarne fuori dei vestiti per la giornata: ormai era quasi l'alba.
Non facendo caso a cosa avesse preso, si ritrovò a fissare allo specchio la sua immagine vestita con una familiare, fin troppo familiare, tuta bianca…
E lui non ricordava di avere un capo simile.
Senza badare alla nausea che aveva ripreso a farsi strada nel suo stomaco, stava per sistemarsi i capelli nella sua solita coda, quando, ipnotizzato da un qualcosa che nemmeno lui riuscì a definire, si ritrovò a pettinarsi i capelli in una maniera assurda.
Erano corna, quelle..?
Rise di gusto; poi, come se si fosse reso conto di ciò che aveva appena fatto, si sfiorò le labbra con le dita…
Aveva riso?
Era davvero divertito e allo stesso tempo felice di ciò che vedeva riflesso in quello specchio?
Oh, beh, in effetti doveva ammettere che era davvero ridicolo conciato in quel modo...
Quell’immagine di se stesso, però, gli richiamava alla mente qualcosa.
Riprese la spazzola e si risistemò i capelli in modo più normale, quindi, sfinito, si gettò sul letto, cominciando ad accarezzare lentamente la seta nera delle lenzuola.
Rimase così per qualche minuto, poi la sua attenzione fu catturata da un luccichio poco distante. Si alzò lentamente, ignorando la spalla e la testa che giustamente reclamavano il riposo che meritavano, e si chinò sul pavimento per raccogliere la trottolina argentea che aveva nel cappotto.
Si ridistese sul letto, osservandola attentamente.
Probabilmente, gli era caduta mentre correva verso il bagno.
Si rigirò il beyblade tra le mani… già, sapeva benissimo cos’era quella trottolina e ricordava anche il nome che gli aveva dato: Wolborg.
Le sole e uniche certezze del suo passato.
Osservò il bit-chip del bey, dove, fiero e maestoso, si ergeva uno splendido e candido lupo alato.
Un’altra fitta al capo lo costrinse a sedere, facendogli cadere il bey, nel tentativo di tenersi la testa fra le mani.
Sbarrò gli occhi ed il suo respiro si fece sempre veloce.
Non comprendeva cosa potesse essere quella crisi, sapeva solo che avrebbe voluto morire, mentre sentiva il capo spaccato in due, il cuore correre rapido ed alcune, calde lacrime rigargli le guance.
Stava piangendo.
Lui, Yurij Ivanov, stava piangendo per la prima volta da quando aveva perso la memoria.
La ragione?
I suoi ricordi stavano tornando e lentamente, dolorosamente si facevano spazio nella sua mente, in quella notte che aveva giocato talmente sporco contro di lui.

Una figura avvolta in un mantello stava osservando la scena  da un albero di fronte alla finestra della camera del ragazzo.
Un sorriso si intravide da sotto il cappuccio del mantello, seguito da queste parole:
“Il gioco… sei quasi arrivato alla fine,Yurij: resisti, puoi farcela.”
Ci fu un bacio nel vento ed un lieve profumo di rosa addolcì il gelido inverno russo.

   
 
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