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Autore: IoNarrante    24/03/2013    12 recensioni
Ven, aspirante avvocato, ragazza determinata, ligia al dovere, trasferitasi a Londra con un unico obiettivo: diventare socia di uno dei più grandi studi legali della capitale.
Il sogno per cui ha lasciato la sua famiglia a Tivoli, salutato tutti i suoi amici, riducendosi a vivere in un piccolo monolocale vicino a Regent Park.
La fortuna però gira dalla parte di Ven, perché le verrà affidato un caso importante e allo stesso tempo spinoso, che la costringerà a collaborare con un avvocato brillante e terribilmente sexy ma che allo stesso tempo rispolvererà alcune sue vecchie conoscenze.
Non è necessario aver letto Come in un Sogno
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Se il Sogno chiama...'
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CAPITOLO 17
betato da nes_sie
Il telefono ovviamente era stato requisito e portato nel bagno, dove ora si sentiva lo scrosciare intenso dell’acqua della doccia. Me ne stavo spaparanzata sul letto, udivo i tuoni in lontananza che squarciavano il cielo e pensavo.
Pensai a quello che stava succedendo.
Ricordai i primi giorni a Londra, quando mi ero appena trasferita in via definitiva. Mi ricordai del caos della Tube, del mio piccolo appartamento a soqquadro, delle corse per arrivare in tempo in ufficio.
Sembrava una vita diversa da quella che avevo ora.
La fine del vecchio anno si avvicinava inesorabile e mai mi ero sentita così ansiosa che ciò non accadesse. Ero partita decisa con l’intenzione di mettere fine a quella specie di tresca che si era instaurata tra me e il calciatore – cliente, tra l’altro – e di metterlo immediatamente al corrente dell’appuntamento con James.
Avevo fallito su entrambi i fronti.
Mi alzai in piedi decisa ad ignorare quei pensieri che avrebbero altrimenti finito per mandarmi ai pazzi, così cominciai a girare per la stanza a grandi passi, cercando qualsiasi cosa da fare. Fuori era buio e le verdi campagne del Sussex venivano illuminate di tanto in tanto da uno sporadico lampo che squarciava il cielo.
Raggiunsi il davanzale e vi posai le mani sopra.
Mi cadde lo sguardo sui vestiti di Simone abbandonati malamente sulla sedia lì accanto, accartocciati come giornali vecchi. Sbuffai e roteai gli occhi al cielo, per poi cominciare a piegargli i pantaloni e tentaredi lisciarli il più possibile.
Neanche fossi sua madre, mamma mia. Gli ci voleva la balia ventiquattr’ore al giorno!
Non appena afferrai il maglioncino a righe firmato Ralph Lauren, una zaffata di profumo mi assalì le narici ed io rimasi completamente pietrificata. Era la stessa, identica fragranza di quella notte, di quando smise la maschera del calciatore arrogante, di quando aveva, per un attimo, fatto crollare il muro.
Senza pensarci, lo avvicinai alle narici, quasi guidata da quell’odore pieno di ricordi.
«Stai annusando il mio maglione?» mi sorprese la voce di Simone ed io sobbalzai per lo spavento.
Si era mosso furtivo, quasi come una pantera. Non mi ero minimamente accorta che la porta del bagno si fosse aperta.
Presa in contropiede, strinsi tra le mani l’indumento incriminato.
Dovevo inventarmi una scusa alla svelta, oppure avrei segnato la mia fine. Secoli e secoli di prese in giro made in Simone Sogno.
Non sarei sopravvissuta alla prima settimana.
«Certo che no!» sbottai, forse un po’ troppo forte. «Stavo solo controllando che fosse 100% cotone. Sai, queste cose sintetiche possono far irritare la pelle…» e cominciai a rigirare il maglione tra le mani.
Simone mi fissò esterrefatto. «Davvero pensi che me la beva?»
Ovviamente no. Certo, Mr. Furbetto non poteva credere alla cazzata del secolo. Sbuffai e lanciai il maglione sulla poltrona. «Credi quello che vuoi,» tagliai corto, pur di non dargliela vinta.
Era chiaro che avessi mentito, ma per principio non gli avrei mai dato ragione. Si era trattato solo di una debolezza, di qualcosa di incontrollato. Non si sarebbe mai più verificato un evento del genere, questo era certo.
Voltai lo sguardo per incrociare il suo e mi accorsi solo in quell’istante il mini-mini-mini-davveromini asciugamano, praticamente un insulto agli asciugamani, fissato alla vita di Simone. Era ciò che avrebbe dovuto coprirgli il Santonoré, ma che falliva miseramente il suo intento.
Ovviamente lui ghignò soddisfatto, come se lo avesse fatto di proposito.
Lo ha fatto di proposito.
Ma va?
«Vorresti un assaggino di Simo tuo, eh?» ridacchiò soddisfatto, slacciandosi lentamente il nodo. «Basta una parola, e lo lascio cadere…»
L’Ormone si svegliò d’improvviso, pregandomi in ginocchio di parlare.
Tentai di fare forza su me stessa, perché lo avevo accontentato fin troppo, impelagandomi in quell’incresciosa situazione.
«Tieni a freno il fagiolino laggiù,» gli intimai tagliente.
Lui mi fissò stupito e si risistemò l’asciugamano. «È tornata la Regina Delle Nevi,» asserì. «Sei più divertente dopo un orgasmo.»
Linciai Simone con uno sguardo che avrebbe incendiato mezza foresta pluviale. «Dobbiamo parlare, se ben ricordi.»
Fu allora che Simone, in barba al suo corpo ancora umido della doccia, si spaparanzò sul letto, incrociando le braccia dietro la nuca e fissandomi sorridente. «Parliamo, allora. Anche se con questo,» e indicò il suo corpo. «Potremmo fare molto altro.»
Roteai gli occhi al cielo e mi sedetti sulla sponda opposta del letto, il più lontano possibile da lui.
Per non cadere in tentazione.
Amen.
Rimanemmo però in un imbarazzante silenzio. Avrei dovuto trovare le parole adatte per quello, per introdurre la faccenda di James e spiegare il perché continuassi ad oscillare tra l’uno e l’altro senza mai decidere.
«Dobbiamo smetterla,» cominciai, decisa. Simone arcuò un sopracciglio. «Smettere con tutto questo, col vederci al di fuori delle questioni che riguardano l’ufficio,» precisai.
Lui scrollò le spalle. «Pensavo fossero degli extra concessi dalla Abbott&Abbott.»
«Cretino!» ringhiai. «Fai il serio per un momento.»
Simone allora tornò quella persona che di rado riuscivo a scorgere. Quella di quando c’era il padre, di quando doveva affrontare le sue partite, quel ragazzo che forse era il vero Simone Sogno.
«Va bene,» disse solamente, con un tono menefreghista. «Per me possiamo anche far finta che  non sia successo nulla. Sai quante volte l’ho fatto.»
Rimasi estremamente delusa da quella sua risposta.
Certo non mi sarei aspettata i pianti disperati o i vani tentativi di concedergli una seconda occasione, ma quella risposta fu uno schiaffo in piena faccia.
È evidente che ti ha soltanto usata.
Lo sapevo, eppure ci rimasi male.
Una strana sensazione di fastidio cominciò ad impossessarsi del mio corpo, e non riuscii a sopprimerla. Avevo voglia di urlargli addosso, di dirgli quanto potesse essere immaturo e stupido questo suo comportamento, però mi feci forza e tacqui. In fondo era ciò che volevo: separarmi da Simone.
«Perfetto,» sentenziai. «Allora non ha alcuna importanza se ti dico che a Capodanno andrò alla villa di James,» buttai fuori in un sol colpo.
Era una granata pronta ad esplodere, me lo suggerì lo sguardo di fuoco del calciatore.
Strinse la mascella. «Fai come cazzo ti pare.»
Mi presi quella piccola rivincita e nel frattempo riuscii finalmente a confessargli quel piccolo “segreto” di James, se così si poteva chiamare.
«Mi farò vedere al locale prima della mezzanotte. Me l’ha promesso,» spiegai, arrivando poi al punto in cui avrei dovuto convincerlo ad andare comunque, altrimenti Sofia mi avrebbe ammazzata.
Simone scrollò le spalle e si alzò dal letto con stizza. «Non devi dirlo a me. È mia sorella che ci tiene.»
Camminò lungo tutta la stanza, soffermandosi davanti una cassettiera. Ne prese un bel pigiama lungo, di seta sembrava, e cominciò a slacciarsi l’asciugamano in vita.
Stavo per fermarlo, o almeno per coprirmi gli occhi, quando la stoffa umida cadde sul pavimento di parquet.
Cercai di non far indugiare il mio sguardo sulle natiche sode o su quelle spalle nude e possenti. Ovviamente fallii su tutta la linea.
Simone indossò i boxer puliti che aveva afferrato dal comò e il pigiama, sempre dandomi la schiena, senza parlare. Non c’era nulla da dire e nient’altro da aggiungere. Finalmente avevo ottenuto ciò che volevo, una pausa da tutto quel tornado di avvenimenti che mi aveva travolta.
«Ho promesso a Sofia che dovrai esserci al locale la notte del 31,» aggiunsi, sperando non mi lanciasse qualcosa in faccia.
Lui si limitò ad indossare la maglia del pigiama che gli spettinò ancora di più quei capelli ribelli che si ritrovava, poi mi sorrise. «Ti pare che mi possa perdere un’occasione per rimorchiare?»
Assottigliai lo sguardo. «C’è sempre quel piccolo accordo di non correre dietro alle gonnelle fino a processo concluso…» gli ricordai.
«Ovviamente esclusa la tua, di gonnella,» commentò lapidario.
«Io porto i pantaloni,» replicai.
Rimanemmo in silenzio a fissarci reciprocamente, senza aggiungere altro. C’era della tensione irrisolta tra di noi, che era sfociata in qualcosa di fisico e penosamente immaturo. Ci ero cascata un paio di volte, ci eravamo divertiti, okay. Ora basta, sarei tornata alla realtà.
Stai convincendo me, oppure te stessa?
Entrambi.
Dovevo farlo per forza, altrimenti non sarei sopravvissuta. Era troppo difficile per me relazionarmi a qualcuno, figurarsi un calciatore che aveva ancora il cervello di un quattordicenne.
Simone si infilò sotto le coperte, voltandosi dalla parte opposta alla mia.
«Non mi hai ancora detto cos’è questo luogo,» gli chiesi, cercando di fare un po’ di conversazione.
Mi serviva una distrazione per non pensare al fatto che avremmo passato la notte insieme, di nuovo, dormendo e basta.
Lo sentii sbuffare annoiato. «È una pensione. Cosa c’è da capire?»
In quel momento lo avrei volentieri preso a cuscinate. «Grazie, genio! Intendevo perché tua nonna ti riserva questa stanza. Ci porti forse le tue giraffone preferite? È una sottospecie di bordello non autorizzato?» ipotizzai.
Simone si voltò di scatto e mi fissò malissimo. «Nonna Eleonor è una donna rispettabile,» ringhiò.
Alzai le mani in segno di scuse. «Stavo solo scherzando, calmati.»
Il calciatore allora distese i nervi e posò la testa sul palmo, con l’avambraccio piegato. Mi fissava con quegli occhi neri così dannatamente espressivi. Sembravano scuri tanto quanto il cielo di quella notte.
«Non è un luogo di perdizione come pensi tu,» iniziò sospirando, poi si distese a guardare il soffitto. «Diciamo che i primi tempi in cui divenni famoso, non sopportavo tutta la pressione che mi faceva Gabriele, i giornalisti, l’allenatore e i fans. Allora, di tanto in tanto, prendevo la macchina e mi rifugiavo qui ad Aton, da nonna Eleonor. È una sorta di scappatoia dalla realtà. Soddisfatta?»
No. Non ero per nulla soddisfatta.
Il vedere questo Simone mi rendeva ancor più inquieta rispetto a quando l’avevo conosciuto. Sarebbe stato tutto più semplice se lui fosse stato quello proprio ciò che appariva. Invece no. Quando tirava fuori questo suo lato più maturo, lo detestavo.
«Non era la storia che mi aspettavo,» ammisi, delusa.
Simone sbuffò. «Trai sempre conclusioni affrettate e spari giudizi su tutti prima di conoscerli,» mi ammonì subito.
Stava cominciando a farmi la morale?
«Non è vero!» protestai.
Fu allora che incrociai di nuovo il suo sguardo. «Allora credi ciò che vuoi. Non fai altro che sparare sentenze su qualsiasi persona tu conosca. Sei proprio un avvocato nell’anima.»
«Perché forse tu non sei viziato e arrogante? Non sei un bambino capriccioso e immaturo? Correggimi se sbagli,» lo pungolai.
C’era un limite a tutto. Voleva la guerra? Beh, l’avrebbe avuta.
«Non ti correggo, è vero. E ne vado fiero,» asserì sicuro. Era stramaledettamente insopportabile questa sua arroganza e spavalderia.
«Sei irrecuperabile,» sbuffai.
«E te sei lunatica.»
Sgranai gli occhi esterrefatta. «Prego?»
«L.U.N.A.T.I.C.A.» sillabò lui. «Significa che cambi idea ogni tre secondi, che sei volubile come un’ape.»
«So cosa significa, idiota. E poi che c’entra l’ape?»
Simone ghignò. «Voli di fiore in fiore,» alluse maliziosamente.
Rimasi a fissarlo con gli occhi socchiusi che mandavano saette intimidatorie. Come si permetteva di appellarmi a quel modo? Lui che cambiava ragazza più spesso di quanto si lavasse i denti!
«Senti chi parla,» lo apostrofai.
«Beh, io almeno lo ammetto. Tu fai tutta la santarellina, poi mi usi e mi getti via. Hai spezzato il mio tenero cuoricino, sai?» ridacchiò.
«Certo, come no,» bofonchiai.
Simone allora si chinò a terra e raccolse un oggetto che poi mi porse. Era il mio telefono cellulare.
«L’hai sterilizzato?» gli chiesi con una smorfia.
Lui ridacchiò. «Tranquilla, se avessi qualche malattia te la saresti già beccata.»
Era un ovvia allusione a quello che avevamo fatto, ma la sottoscritta era superiore e avrebbe sorvolato.
Per ora.
Afferrai il cellulare e lessi i cinque messaggi che lampeggiavano sul display a cristalli liquidi. Si trattava di due chiamate perse da Celeste, una da Sofia e ben due messaggi in segreteria. Chiamai il 42050 e li ascoltai.
Simone non la smetteva di fissarmi divertito.
Il primo messaggio mi fece sussultare all’improvviso. Era la voce di James.
 
Ciao spaghetti-girl! Dove sei finita? Ho provato al tuo appartamento, ma Celeste mi ha risposto che avresti passato la notte fuori. Nemmeno lei sapeva dove ti trovassi. Stai per caso facendo la vagabonda? Sentii una risata imbarazzata.
Chiamami appena senti questo messaggio Poi ci fu il bip che segnalava la fine della telefonata.
 
Simone grugnì infastidito. «Ma non ti scoccia la sua pedanteria?» commentò. «Si accolla…»
Lo linciai con un’occhiataccia. «Almeno lui dimostra che ci tiene, a differenza di qualcun altro,» sibilai, alludendo ovviamente al suo comportamento perennemente menefreghista.
Simone alzò un sopracciglio e indicò il telefono. «Davvero vorresti uno che ti scassa le palle continuamente come Mr. Avvocatuncolo?» mi chiese esterrefatto.
Ignorai quel pensiero e ascoltai il secondo messaggio.
Era Cel questa volta.
 
Amica! Si può sapere che fine hai fatto? Leonardo sta vagando da ore e ore su e giù per la cucina perché il frigorifero è vuoto. Credo che andremo a cena fuori, tu cosa fai? Chiamami.
 
Mi sentii in colpa per non aver avvertito la mia migliore amica, ma più di tutto sentii una rabbia montarmi dentro perché era unicamente colpa di quel marmocchio infantile che ora sedeva accanto a me.
«Devo fare alcune telefonate,» dissi perentoria, alzandomi dal letto e dirigendomi verso il corridoio.
«Ed è necessario uscire dalla stanza?» mi chiese lui sospettoso.
Ignorai palesemente quel commento infimo. Posai la mano sulla maniglia della grande porta laccata di bianco e mi precipitai all’ingresso.
Simone si alzò a sedere sul materasso e mi fissò ombroso. «Detesto quando fai così,» mugugnò.
«Così come?» chiesi dubbiosa, prima di accostare l’infisso.
Simone sospirò. «Quando mi nascondi le cose.»
Ignorai quella punta di delusione che lentamente si stava facendo strada nel mio petto e non gli risposi. Mi limitai a socchiudere l’uscio e ad avvicinare il cellulare all’orecchio prima di voltare le spalle alla stanza numero 6.
Meglio così, tanto avete tagliato i ponti giusto?
Giustissimo.
 
Finii il mio giro di telefonate quando ormai l’orologio da polso segnava mezzanotte e ventitré. Dopo un lungo e umido sbadiglio, decisi che era venuto il momento di meritarmi un po’ di riposo, così rientrai nella stanza prenotata da Simone e mi diressi verso il grande letto matrimoniale.
Avremmo dovuto dormire insieme, a quanto pareva, ma questa volta non fui tanto polemica.
Per ovvi motivi.
Soppressi i pensieri del mio Cervello e mi tolsi il maglione, optando per la maglietta a maniche lunghe che indossavo sotto e un paio di culotte post-ciclo che mettevo unicamente per spaventare eventuali maniaci.
Simone dormiva profondamente.
Mi mossi furtiva e scostai le coperte per poi prepararmi ad una lunga notte di sonno. Dovevo ammettere che il caso che stavo seguendo mi stava succhiando parecchie energie, per non contare i litigi estenuanti con Simone a causa di James, della sua famiglia, poi di nuovo James, Leonardo, Sebastian e tutto il mondo contro cui litigava ogni giorno.
Posai la testa sul cuscino e mi rivolsi verso di lui. Era di schiena, ma anche se non potevo vederlo riuscii ad immaginare perfettamente il suo volto rilassato. L’avevo visto dormire tante di quelle volte da quando condividevamo lo stesso appartamento, eppure quel pensiero non mi fece vergognare.
Sapevo di doverla pensare diversamente, anzi, di non dover pensare affatto. Purtroppo mi aveva fatto qualcosa quel marmocchio, una specie di macumba.
È riuscito a scavarsi un piccolo rifugio dentro di te.
Sì, ma devo riuscire a farlo sloggiare.
«Possibile che devi essere così?» sussurrai.
Allungai una mano soltanto per stiracchiarmi, per distendere la schiena che era completamente annodata a causa della tensione di quei giorni. Rivolsi lo sguardo al soffitto e chiusi gli occhi. Immediatamente si materializzò davanti al mio viso il volto sorridente di James.
Il mio cuore cominciò a battere all’impazzata e forse quello fu un chiaro segno di come si sarebbero svolte le cose di lì in futuro.
James era davanti a me, era l’uomo della mia vita. Lo sapevo, ne ero certa.
Anche se Simone dormiva nel mio stesso letto, anche se le sue mani erano state in punti del mio corpo che avevo permesso a pochi di raggiungere, anche se quando ero con lui, spesso e volentieri il resto del mondo si fermava, anche se tutto questo mi legava profondamente a lui, sapevo che il mio futuro era con James.
Era come quando leggevo un libro e sapevo già come sarebbe andato a finire.
La mia storia era già scritta, mancava solamente la parte centrale.
Aprii nuovamente gli occhi, sentendo che la stanchezza volava via con la stessa velocità con cui mi aveva appesantito le membra. Tutta la stanza profumava di Simone. Sentivo il suo odore sul cuscino, sulle federe, ormai anche su di me.
E lo detestavo.
«Non riesco nemmeno a dormire. Bene,» bofonchiai acida.
«Se non la smetti di cianciare, non riesco nemmeno io,» brontolò il calciatore.
Sussultai a quella risposta perché non mi aspettavo che fosse sveglio. In quel preciso istante desiderai sotterrarmi, scavarmi una tomba e poi seppellirmi al suo interno.
«Scusa,» dissi solamente, mortificata.
Sentii Simone agitarsi nel letto e poi voltarsi nella mia direzione, aprendo quei meravigliosi pozzi scuri che erano i suoi occhi d’ebano.
«Non puoi cambiarmi, se è questo che intendevi prima,» disse sicuro.
«Cosa?»
Sbuffò. «Prima mi hai chiesto perché devo essere così. Ebbene, non voglio cambiare. Mi piace come sono e non intendo modificare nulla. La perfezione ormai è insita nel mio stesso essere. O prendi tutto il pacchetto, o niente.»
La risposta era fin troppo ovvia. «Credo che opterò per il “niente”, grazie. Buonanotte,» tagliai corto.
Simone allora grugnì infastidito da quella mia imposizione, poi avvertii le sue mani che si facevano strada, senza alcun timore, verso i miei fianchi.
Spalancai gli occhi e lo fissai furibonda. «Che cazzo pensi di fare?» lo ammonii.
«Dormo, mi sembra ovvio,» commentò lui, sbadigliando subito dopo.
Mi beai di tutta la sua giugulare, fino alle tonsille. «E queste?» ringhiai, indicando le sue manone avvinghiate attorno ai miei fianchi coperti appena da quelle culotte in puro stile Bridget Jones.
«Sono abituato a dormire con un corpo di donna schiacciato contro. Anche se il tuo non può nemmeno avvicinarsi a quello di Francine o Bernadette… per stavolta mi accontento,» sorrise.
Ovviamente si meritò un ceffone ben assestato su quell’enorme testone.
«Ahi! Ahi! Okay!» protestò, alzando le mani. «Pensavo fosse un premio d’addio.»
«Ti do un calcio come regalo, va bene?» lo minacciai. «Rimani al tuo posto.»
Simone non la finiva di fissarmi con quel solito ghigno arrogante in volto, ma io tentai di ignorarlo.
«E ora dormi,» ordinai.
«Va bene, mammina,» ridacchiò lui.
 
Il giorno dopo mi ritrovai stretta in una morsa d’acciaio, completamente spalmata contro il corpo di Simone.
Maledetto moccioso.
 
***
 
«Dove passerai il capodanno, eh, Ven?» domandò la voce acuta e petulante di Yuki.
Stavo riordinando delle pratiche per conto di Mr. Abbott quando me l’ero ritrovata alle spalle come un avvoltoio pronto a colpire.
O a nutrirsi della tua carcassa.
«Con degli amici,» risposi distrattamente.
Era incredibile la quantità di doppie copie che ogni cartelletta conteneva, così mi era stato chiesto di ridurre drasticamente la quantità di carta straccia e mettere un po’ d’ordine nell’archivio.
«Io sono invitata ad un party a Londra, alta società... non puoi capire,» sospirò, sistemandosi i capelli dietro le orecchie elfiche.
«Mh…» commentai distrattamente.
«Chissà, magari riesco ad incrociare James.»
Sussultai a quel nome e mi voltai alla ricerca degli occhi a mandorla della Giapponese. «Come?»
Lei sorrise melliflua. «Pensi davvero che, essendo la sua assistente, lui abbia dei favoritismi nei tuoi confronti?» ridacchiò. «Mio padre ha detto che Jamie è uno dei rampolli della famiglia Abbott, erede di quasi tutto il patrimonio della famiglia. Ergo, un pesce appetibile per i Nakatomo.»
Ovviamente si riferiva alla sua facoltosa famiglia.
Cercai di sorvolare, anche perché per un attimo avevo avuto il sentore che la ragazza conoscesse il mio segreto.
«Auguri,» smozzicai, tornando ad occuparmi delle pratiche.
Fare finta di niente era il mio secondo mestiere. Sapevo nascondere le mie paure e i miei sentimenti fin quasi a credere di non provarli nemmeno. La tecnica del “muro” funzionava alla perfezione in questi casi delicati.
Il problema sorgeva quando tale barriera veniva abbattuta.
«E con il calciatore come ti va?» s’impicciò la Giapponese.
Sbuffai infastidita. «Simone è un mio cliente, come devo ripetertelo?» ringhiai. «シモーヌは私のクライアントである. Va meglio?»
Yuki sgranò gli occhi ed io mi presi una piccola rivincita. Sapevo sì e no quattro parole in Giapponese, ma quello che mi premeva di più era fargliela pagare.
Ringraziai mentalmente Mrs. Chiaki – la donna delle pulizie del vecchio palazzo –, che mi aveva costretta a seguire un corso on-line soltanto per comunicarle ogni volta di non allagare il bagno.
Altri due tirocinanti entrarono nella stanza per accatastare altre pratiche da riordinare.
«Non finirò mai!» sbuffai incredula.
Carl sogghignò. «Il signor Abbott ha specificato di farle riordinare a te,» disse.
Per quale motivo dovevo essere punita in questo modo? Possibile che avessi dato una così cattiva impressione a quel meeting prima di Natale?
«Okay,» sospirai. Ormai era più che certo che quella sera sarei rientrata non prima delle 21.00.
Yuki mi lasciò finalmente al mio lavoro, portandosi dietro anche quelle altre due iene che mi avevano appioppato tutte quelle cartelle.
Frugai nella tasca della giacca e afferrai il cellulare.
Rimasi interdetta a fissare lo schermo a cristalli liquidi, indecisa se scrivere o meno l’SMS. Cominciai a digitare:
faccio tardi in ufficio. non ci sono per cena.
 
L’idea iniziale era quella di mandarlo a Simone, visto che l’ultima volta mi era venuto a raccattare direttamente in ufficio, eppure mi bloccai.
Come conti di tagliare i ponti se continui a cercarlo?
Perfettamente logico.
Cambiai il numero del destinatario e lo inviai a Celeste, sapendo che la mia migliore amica avrebbe avvertito tutti per mio conto. A cena erano stati invitati anche Sofia e Ruben, con nonna Annunziata, ma purtroppo avevo quel compito da portare a termine prima della fine dell’anno.
«Casi del 2009 a noi! Vi riordinerò come Dio comanda!» minacciai il plico di fogli.
L’orologio indicava le 20.35 quando notai che il mucchio di scartoffie da riordinare era diminuito soltanto della metà. Inspirai profondamente e tentai di non urlare. Di quel passo mi sarei dovuta portare il lavoro a casa, e non era mia intenzione.
«Si può?» mi chiese una voce, facendomi voltare.
James mi sorrise sulla soglia dell’ufficio ed io mi sentii molto più sollevata.
«Certo,» gli dissi esausta. «Sto finendo questo noiosissimo riordinamento di pratiche.»
L’avvocato mi si avvicinò e diede uno sguardo al cassetto di metallo dove erano archiviate, in ordine alfabetico, tutte i vecchi casi risolti dallo studio.
«Zio August ti ha messo ai lavori forzati, eh?» ridacchiò.
Io sorrisi di rimando. «Sarà una specie di punizione per non avergli risposto in modo adeguato l’ultima volta. L’avrò sicuramente deluso.»
James avvicinò il suo dito indice alla punta del mio naso, accarezzandola. «Secondo me ti sta mandando un segnale,» disse sicuro. «Zio August non fa mai nulla per caso.»
Guardai esterrefatta le cartelle tra le mie mani, poi notai le fotocopie da buttare che avevo accatastato in un angolo della stanza.
Vuoi vedere che…?
«Potrebbe essere un suggerimento per il nostro caso!» trillai eccitata, tuffandomi a pesce su quei fogli e cominciando a controllarli.
James si sedette sul pavimento accanto a me, con le gambe incrociate. Sembravamo dei ragazzini con dei Lego.
«Grayson contro Lawsheld?» chiese lui, mostrandomi un foglio.
Scossi la testa. «Lei si era inventata tutto, è bastato un semplice esame delle urine,» dissi.
Continuammo a cercare. Dopo quello che mi aveva detto Jamie, ero più che sicura che tra queste vecchie scartoffie ci fosse un caso analogo a quello di Simone.
Magari sarei riuscita a risolverlo da sola, prendendomi quasi tutto il merito.
«Mc Pherson e Carlson contro Yewitt?» domandò ancora.
«Non penso,» sospirai. «Dobbiamo trovare qualcosa di molto simile, che riguardi due persone potenzialmente famose.»
James smise per un attimo di cercare e mi guardò. «Il giudice ha approvato il test di paternità. Con l’inizio dell’anno Mr. Simone dovrà presentarsi in clinica e depositare il suo DNA.»
Non mi aspettai quella notizia, ma tutto sommato era di buon auspicio.
«Bene!» esclamai, posando le pratiche “inutili” in una pila diversa da quelle ancora “utili”.
James abbassò lo sguardo. «Già. Sarebbe fin troppo facile se il test risultasse negativo,» commentò.
Tentai di carpire qualcosa da quel suo comportamento. «Lo abbiamo richiesto noi, o sbaglio?»
L’avvocato annuì e cominciò a riordinare i documenti all’interno della cartelletta. «Sì, è la prima cosa da fare per togliersi ogni dubbio. Certo che…» e lasciò la conversazione a metà.
La pendola nel corridoio suonò le 21.30.
«Si è fatto tardi,» concluse infine James, alzandosi da terra e tendendomi una mano per aiutarmi a venir fuori da quel mare di carta stampata.
«Devo finire qui,» spiegai, mostrandogli l’archivio in disordine. «Non posso lasciare tutto in questo modo. Tuo zio mi ucciderà!» sospirai.
L’avvocato sorrise e si accucciò vicino a me. «Metterò io una buona parola per te,» e mi strizzò l’occhiolino.
Sorrisi di rimando, forse un po’ nervosa. Anche se mi sarei voluta abbandonare all’abbraccio malizioso degli occhi di James, avevo come qualcosa che mi pizzicava dietro l’orecchio. Non sapevo se si trattasse di irritazione cutanea, rosolia, zecche o quanto altro ma era davvero fastidiosa.
«Grazie dell’offerta, ma preferisco finire,» dissi gentilmente.
James non rimase per nulla deluso dall’essere metaforicamente respinto, anzi.
«Ci conto per il 31,» mi ricordò, posandomi una mano sulla guancia e spostando un ciuffo di capelli dietro l’orecchio. Si chinò quasi impercettibilmente a sfiorare le mie labbra, poi, in un fruscio di vestiti si alzò ed uscì dalla stanza dell’archivio.
Rimasi a fissare la porta da cui era appena uscito il giovane avvocato mentre il mio cervello registrava gli ultimi eventi. Dapprima mi soffermai ancora su ciò che era appena successo. Portai due dita alle labbra e vi sentii impresso sopra il calore di quelle di James.
Non sapevo se fossi innamorata o meno, se quello si potesse in qualche modo definire infatuazione, quello che era certo è che ne sentivo profondamente la mancanza.
C’era un lato di James di cui non potevo fare a meno. Quella sua gentilezza, i suoi modi riservati, l’essere sempre cauto e accorto.
E allora perché Simone?
Lasciai scivolare via il pensiero del calciatore, prima che potessi in qualche modo crucciarmi più del dovuto. Era finita? Okay, perfetto.
Ci avrei messo una pietra sopra.
Tanto nemmeno a lui sembravo interessare. Era stato solo un gioco. Una cosa stuzzicante.
«Bene, mettiamoci al lavoro!» esclamai, continuando a frugare nei vecchi casi giudiziari.
 
Non mi accorsi nemmeno del tempo che passò, persa tra un Geoffrey Hummel – donnaiolo incallito – che era riuscito a dimostrare che Miss Van Hauten non solo aspettava il figlio di un altro, ma che tal Tizio non era altri che suo fratello, quando il cellulare cominciò a vibrare insistentemente.
Cercai di recuperarlo in mezzo al caos che regnava su quel pavimento, quando vidi comparire sul display il nome di Simone, ribattezzato amorevolmente Pisellino sul mio BlackBerry.
Sentii il cuore farmi una specie di mezza capriola all’indietro.
Inspirai forte, poi espirai e premetti il tasto “Ignora chiamata” tornando al mio solito impiego. L’orologio segnava le 21.55 e la pila di scartoffie non sembrava diminuire.
Continuai imperterrita ad esaminare documento per documento.
Brrr Brrr Brrr
Il telefono ricominciò a vibrare e a muoversi per tutto il pavimento, con più insistenza di prima.
Guarda se quel decerebrato capisce che deve piantarla di tormentarmi!
Magari è solo preoccupato…
Il mio buon senso mi mise in guardia. Più di una volta lo avevo giudicato male e se si fosse trattata dell’ennesima volta? Se davvero stesse chiamando solo per sentire se stavo bene?
Decisi di dargli un terzo tentativo.
Ignorai nuovamente il telefono, stavolta lasciandolo squillare a vuoto. Nel frattempo mi saltò all’occhio un documento interessante:
 
Sanders vs Hardy
 
Il giorno 09 – 10 – 2003, il giudice Henry Mills ha liberato da ogni obbligo e vincolo di parentela Mr. Kevin Micheal Hardy, giocatore professionista di golf, nei confronti di miss Samantah Juliett Sanders, attrice riconosciuta all’Albert Hall.
Dopo aver invalidato il test di paternità, richiesto dagli avvocati dell’accusa, a causa  di un’anomalia genetica presente nel corredo di Mr. Hardy e assente in quella del feto, il giudice Mills ha così dichiarato chiuso il caso di dubbia paternità Sanders-Hardy.
[…]
 
Era un buon inizio da cui partire. Mi tenni a mente di chiedere a Simone o a Sofia se casualmente la loro famiglia soffrisse di una particolare anomalia genetica, o qualsiasi particolare che potesse essere utile ai fini del caso.
Brrr Brrr Brrr
Ecco la terza telefonata.
Ora dovresti rispondere, mi suggerì il caro e acuto Cervello.
Afferrai il BlackBerry con stizza, poi premetti il tasto Rispondi. «Che c’è!» ringhiai, infastidita da quella serie di telefonate a raffica che mi avevano distratta proprio quando il caso mi aveva fatto trovare quel documento così importante.
All’altro capo del telefono, però, mi rispose una vocina esitante. «Z-Zia Vennie?» cinguettò una voce di bambina.
Sgranai gli occhi quando mi resi conto che si trattava di Susanna.
Porca di una tro… ta.
«C-Ciao tesoro…» smozzicai imbarazzata. Cosa diavolo ci faceva col telefono di quel babbeo di Simone?
La bambina sembrò ritrovare più serenità. «Zio Simo mi ha detto di telefonarti,» mormorò tranquilla. «Mentre ti viene a prendere ha detto di tenerti compagnia.»
«A p-prendere?» domandai confusa.
Udii una voce in sottofondo che sembrava suggerire le battute alla piccola. «Sì. Ha detto,» e qui finse di imitare la voce di Simone. Tentativo buffo, aggiungerei. «Possibile che debba star via fino a quest’ora? Cosa vuole che le diano, la medaglia? Ora la trascino fuori di lì!»
Sorrisi per l’intraprendenza di Susanna e me la immaginai con le guance arrossate e l’espressione concentrata nell’imitare alla perfezione la voce del suo giovane zio.
«E ti ho telefonato per farti compagnia, mentre zio Simeone viene a prenderti!» ridacchiò.
Mi scappò una risata genuina. «SimEone, eh?»
Susanna allora riempì quella telefonata con il suono squillante della sua voce, di quella risata dolce che possiedono soltanto i bambini.
«Da quanto tempo è uscito?» le domandai, così da evitare tutto quel trambusto e tornarmene a casa per conto mio.
Susanna rimase in silenzio per un po’, probabilmente rifletteva. «Da tanto tempo. Tu non rispondevi e zia Sofi ha continuato telefonarti. Ha detto “se vede il numero di zio Simo, risponderà di sicuro!”» e lì aveva imitato la voce della giovane Sogno.
«Capisco,» risposi, maledicendo quella testaccia dura del calciatore. Che bisogno c’era di venirmi a prendere? In fondo avevo avvertito che avrei fatto tardi. «Allora che mi racconti, piccola Susy?» le chiesi, ingannando l’attesa.
Tanto era più che sicuro che di lì a poco Simone avrebbe sfondato la porta a suon di testate.
O l’avrebbe buttata giù a colpi di arroganza.
O di vanteria.
...perché non di narcisismo?
La voce della piccola mi riportò alla realtà. «Quando avrò un cuginetto?» mi domandò a bruciapelo.
Cosa intendeva per “cugino”?
Cosa potrebbe mai intendere una bambina di cinque anni, genio?
Gli occhi mi si spalancarono e divennero grandi come piattini da caffè. «Direi che è un po’ presto per zia Sofi e zio Ruben, no? Sono giovani…»
La piccola ridacchiò. «No zio Puré e zia Fofi!» ripeté stupita. «Io voglio un cuginetto da te e da Simeone,» e continuò a ridere storpiando tutti i nomi.
Il sangue mi si gelò nelle vene. Premesso che per una bambina così piccola era del tutto fuori luogo che si pensasse a quella parola che iniziava per S…
Ti ha chiesto un cuginetto, non le analisi ginecologiche.
Finsi di ridere. «Vedremo, vedremo…» Vedremo un corno!
«Tu fai ridere zio Simone!» disse sinceramente la piccola Sofi.
Rimasi spiazzata da quell’affermazione, ma non potei approfondire perché udii distintamente qualcuno bussare alla porta dell’ufficio.
«Tesoro, credo sia arrivato. Ci vediamo a casa!» dissi alla piccola.
«Dai un bacio a zio Simone. L’ho visto tritte tritte.»
Quella sensazione di disagio andò aumentando. «Te lo prometto.» E riagganciai la chiamata.
Mi alzai dallo scomodo pavimento e mi diressi verso il portone. La prima immagine che mi si presentò davanti, attraverso la porta a vetri, fu un Simone dall’aria scocciata con indosso un enorme giaccone di piume d’oca, un paio di pantaloni della tuta e, calcato sulla testa, un berretto di pelo con le orecchie svolazzanti.
Da dove è uscito? Dal paese di Oz?
Era troppo buffo.
Soffocai una risata nel vederlo e tentai anche di non farmi scorgere, ma i suoi occhi scuri mi beccarono subito.
«Muoviti che mi sto congelando!» Picchiettò sul vetro.
«Arrivo!» sghignazzai, recandomi alla porta e sbloccando la serratura.
Non appena Simone entrò all’interno dello studio Abbott&Abbott, emise un sospiro di sollievo che gli fece sbuffare una nuvola di fiato dalle labbra intorpidite.
«Cazzo, si gela lì fuori!» imprecò.
«Se ti fossi vestito più adeguatamente…» commentai, guardando soprattutto le ciabatte a forma di animale.
Lui sbuffò. «Avevo fretta, va bene? Ti rendi conto di che ore sono? Potevi portarti il sacco a pelo già che c’eri…»
Scrollai le spalle. «Devo lavorare, sono indietro con le pratiche,» spiegai, tornando nella sala dell’archivio e tentando di dare almeno un po’ d’ordine a quelle scartoffie.
Simone mi seguì incuriosito. In fondo, che io sapessi, non era mai entrato nel palazzo ed ora si trovava ad esplorare quel luogo “inospitale” che denigrava giorno per giorno ma che gli avrebbe salvato il culo.
«Allora…» bofonchiò, appoggiato allo stipite della porta.
Mi voltai squadrandolo minacciosa. «Metto in ordine, poi possiamo andare,» dissi.
Lui continuò a fissare le pareti interessato. «È l’ufficio del finocchio inglese, questo?» chiese ghignando.
E te pareva che non mettesse in mezzo Jamie. «No. È un archivio, come vedi.» Gli indicai i mobili dai grandi cassettoni che contenevano tutte le vecchie pratiche archiviate.
Passò qualche minuto di silenzio che adoperai per finire di impilare i documenti da rivedere. Rimisi apposto tutti quelli che non mi sarebbero stati di alcuna utilità.
Dopo cinque o sei sbuffi, Simone parlò di nuovo. «Dov’è?»
«Dov’è cosa?» domandai.
Il calciatore roteò gli occhi annoiato. «La tana del coniglio! L’ufficio di quel rammollito, dove sta?»
Alle volte era davvero scortese e fastidioso. Insopportabile.
«Quanto sei palloso, mamma mia!» sbottai, gettando le ultime cartelle nel mucchio e camminando stizzita verso l’ufficio del mio collega – non che capo.
Sentii i suoi passi dietro le spalle.
Aprii la porta girando la chiave ed entrai. Tutto era in ordine, compresa la cancelleria sulla scrivania in mogano.
«Soddisfatto?» brontolai.
Simone si guardò intorno incuriosito, quasi come un appassionato d’arte alla sua prima mostra di Dalì. Sondò il terreno con attenzione, studiando tutti i particolari, addirittura sfiorando i contorni dei mobili con la punta delle dita.
Quelle dita sottili e affusolate.
Capaci di fare grandi magie.
«Conclusioni?» insistetti, incrociando le braccia al petto.
Simone si fermò di fronte alla scrivania, poi mi sorrise – anzi, ghignò – prima di buttare tutto a terra con un semplice movimento del braccio.
«Che diav- …?» imprecai sconcertata, ma Simone colmò brevemente la distanza tra di noi, tirandomi per la giacca e gettandomi di peso sul tavolo di legno.
Il suo corpo mi fu sopra in pochi secondi, così come quelle mani sulla vita della gonna.
«È da una vita che sogno di farlo qui sopra,» disse, poi si avventò sulle mie labbra.



Okay, potete ufficialmente uccidemi *si offre volontaria come tributo!* (HG quotes).
Scherzi a parte, HO AGGIORNATO! 1) Perché ho iniziato a scrivere il capitolo 2O e quindi tento sempre di mantenere uno o due capitoli di distanza per quando ci sono giorni di "magra" e 2) Perché è quasi Pasqua e mi pareva brutto XD
Tra un pochito vado a rispondere alle recensioni arretrate, che sono TANTERRIME *.*, dovrei farlo volta per volta, ma sono pigra #js
Comunque! Insomma questi due sono un continuo tira e molla, ma alla fine dei conti finiscono sempre per avvinghiarsi l'uno all'altro come polipetti! E come biasimarli? Sono così pucci-pucci. Dunque, spero proprio che questo con questo capitolo mi sia guadagnata la vostra clemenza #spero e che mi diate un po' di respiro!
UHAAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH (tranne nessa e rosie che sono le mie stalker personali :3)

Bai Bai!
Alla prossima!

Non dimenticate di passare qui 
dove vi aspetta l'ultimo capitolo di Come in un Sogno (manca solo l'epilogo #sob).
Basiotti! E auguri per chi è credente (io no LOL) <3
   
 
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