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Autore: Bloody_Schutzengel    25/03/2013    2 recensioni
(Letteralmente "Il Gatto ed Il Filo Rosso"). Non posso riposare, ma alla fine l'ho fatto. E si sono approfittati di me mangiando un pezzo della mia libertà. Taglierò via la mia sofferenza e ne ucciderò l'artefice, ma mi sorge una domanda: posso ancora vivere con un'anima lacerata dal mondo?
Genere: Angst, Drammatico, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Giappone/Kiku Honda
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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猫と赤い針金
Neko To Akai Harigane


Il Gatto ed Il Filo Rosso



I passi del piccolo Kiku correvano dritti a casa, sguazzando ogni tanto in qualche pozzanghera facendo inumidire i calzini del bambino. Il disegno floreale lilla del suo piccolo kimono si confondeva con l’ombra frastagliata delle foglie degli alberi soprastanti che correva su tutto il corpo di Kuku insieme a lui, quasi la nascondeva e la trasformava in altri disegni sul tessuto. La quiete era interrotta solo dal rumore dei suoi sandali legnosi, che cessarono il loro rumore solo una volta arrivati a casa.
In realtà non aveva nessuna casa, ma gli piaceva chiamare così quel piccolo rifugio che si era ricavato in un vicoletto del paesino.
Aveva comprato qualcosa da mangiare con delle monete che aveva trovato in quei giorni per strada, essendo povero.

Scartò il primo Onigiri ed iniziò a mangiare guardando di fronte a lui, dallo scorcio del vicoletto, quel paesino deserto ma sul quale il sole non tramontava mai e vi era la quiete più totale. Tutto sommato gli piaceva. Tutta quella calma lo rilassava e lo rattristiva, ma a lui stava bene così, dopotutto aveva solo dieci anni.
Mentre scartava il secondo ed ultimo Onigiri, una palla di pelo nera, sbucata quasi dal nulla, con un balzo glielo sottrasse in un secondo, correndo via. Il piccolo, un po’ irritato gli corse dietro gridandogli di fermarsi inutilmente.
Gira a destra dietro un ristorante, a sinistra, entra in un vicolo ed esci affacciandoti su un grande viale deserto. Ecco dove ora si trovava. Non aveva acchiappato l’animaletto, ma si era casualmente fermato, dando l’occasione al bambino di prendere dolcemente il suo pasto ancora commestibile dalla sua piccola bocca. Solo ora, il piccolo si era reso conto che al micio mancava una zampa, e si stupì Rimase sbigottito da ciò che si trovava davanti, che il suo sforzo fu vano, non facendogli mangiare di ciò di cui si era rimpossessato.
Una persona, un uomo a dirla tutta, era lì, da solo, che lo guardava. Egli era normale, ma la cosa che inquietava il piccolo e che, forse, lo incuriosiva, era la strana maschera che aveva sul volto e lo copriva, nascondendolo. Maschera a lui non nuova, però: ne aveva viste tante in giro, ma lo avevano sempre inquietato, gli facevano quasi paura quegli occhi da gatto chiusi, il materiale bianco colorato in parte con colori vivaci come rosso, nero ed arancione, l’espressione ingannevole della maschera felina. Quando veniva il periodo della festa di fine estate, infatti, si nascondeva da loro, dalla loro vista, nei vicoli, credendo potessero fargli del male.
Ma la festa era passata da un po’ di tempo, era fine settembre, perché quell’uomo la indossava?
Kiku era fermo lì ad osservarlo, quando gli parlò.

“Ehi tu, piccolo!”

Lo chiamò la sua voce leggera, acuta ed angosciosa. Non disse niente, fece solo cenno con la mani verso di sé come per chiedere se stesse parlando con lui, il che era piuttosto ovvio, essendo le uniche due persone lì in mezzo.

“Sì, tu… vieni qui! Non ti mangio mica! Eh… eh… eh…”

La sua risata gli metteva i brividi, non prometteva nulla di buono, tuttavia si avvicinò. L’adulto gli mise delicatamente una mano sulla spalla lontana e lo strinse a sé iniziando a camminare.

“Dì, cosa ci fai qui tutto solo…?”

Domandò con un tono falsamente preoccupato. Nessuna risposta.

“Sei timido eh…? Non hai nessuno con cui andare? Che tenerezza, povero bambino… ih ih…”

La sua mano gli accarezzò una guancia, ma non fu piacevole a cause delle affilate, se ben corte, unghie che si ritrovava. Il piccolo scostò leggermente la faccia, socchiudendo per un attimo gli occhi.

“Che ne dici se da oggi vieni a vivere con me…? Diventeremo grandi amici!”

A quel punto, non capendo niente, Kiku lo guardò dal basso.

“Chi sei tu?”

Chiese innocente.

“Io? Io sono tuo amico, piccolo Kiku.”

Come sapeva il suo nome? Perché lo sapeva? Quando l’aveva scoperto? Che lo stesse osservando…?

“Mi sembri impaurito, Kiku, come mai? Io non ti farò del male, anzi! Ti divertirai a stare con me! E non sarai solo!”

“Ah, no…?”

“No affatto! Ci sono tanti altri bambini con cui farai amicizia! Li ho trovati tutti soli come te in mezzo alla strada che non sapevano dove andare… cosa fare…”

Il piccolo lo guardava con attenzione, incominciando a capire che gli interessavano le sue parole, dopotutto.

“Ah! Poi giocheremo insieme tutto il tempo! Ho tantissimi giochi che non conosci sicuramente, in particolare uno che facciamo ogni giorno insieme.”

“Ogni giorno?”

“Certo! Poi te lo spiegherò davanti ai tuoi compagni!”

Il piccolo ridacchiò un po’ all’idea che si potesse divertire un po’. In effetti non sapeva cos’era il divertimento, ma vedeva e percepiva come una cosa bella, pur non conoscendola. Dopo essere usciti da quel paesino, entrarono in un altro, ma quest’altro era popolato e pieno di vita, le sue luci e suoni incantavano il piccolo dal caschetto nero. Arrivarono davanti ad una casa abbandonata, e l’uomo che era con lui gli aprì la porta scorrevole facendolo entrare.

Kangei, Kiku”

Gli dissero in coro i ragazzini e l’uomo. Erano allegri all’apparenza, ma in realtà erano obbligati a sorridere dall’uomo dietro di Kiku, che glielo ordinava con dei gesti, e presto, sarebbe stato così anche per Kiku.



La sera del giorno dopo…



“Allora, bambini, ora si gioca! Siete felici? He… he… Certo che lo siete, anche tu, no, Kiku?”

Ed egli annuì sorridente.

“Ora, tutto quello che devi fare è andare in quella casa lì all’angolo, dove troverai un simpatico signore, con il quale giocherai.”

Non capiva, lo guardava perplesso. Che senso aveva? Non poteva giocare con quei bambini?

“E poi viene la parte più bella, Kiku. Questa è una specie di gara: più si divertirà il vostro amico, più denaro riceverete e potremmo comprare tantissime cose! Ed io vi ricompenserò col mio affetto… he he…”
Concluse ridacchiando. A quel punto, tutti i bambini e le bambine si sparpagliarono per la città, chi correndo e chi camminando titubante come Kiku.

“Andate, miei piccoli… andate e portatemi denaro…”

Sibilò tra sé e sé quel misterioso uomo.

Kiku entrò dalla porta scorrevole accennando un piccolo sorrisetto, divertito all’idea di potersi divertire, come dicevano loro, ma dopo che l’uomo lo salutò, iniziò ad avvicinarsi troppo e Kiku senti un brivido percorrergli la schiena: aveva paura, quel gioco non gli piaceva più. E dopo un “giochiamo”, il nulla. Il silenzio della mente. Il cuore infranto. La tristezza. La consapevolezza di essere stato ingannato. Solo questo poteva avvertire Kiku, oramai.


Erano ormai tutti nel “covo” dell’uomo misterioso, che avevano terminato la partita. Chi più, chi meno, ma tutti avevano dei soldi in mano.

“Bene, facciamo l’appello”

Incominciò a recitare dei nomi e tutti i bambini uno alla volta gli consegnavano la loro ricompensa, e quando arrivò Kiku, ancora con le lacrime agli occhi, non disse niente, ma gli porse solo la considerevole somma di denaro guardando per terra ancora straziato dalla vergogna.

E tante sere passarono così, tra lacrime disperazione e sensi di colpa, per il povero Kiku, ed in parte per gli altri suoi compagni e compagne che erano abituati a quella vita, ma che in fondo avevano un’infanzia altrettanto distrutta e rubata.


Una di quelle sere, Kiku si fece coraggio e scappò. Scappò mentre stava per entrare nell’ennesima casa, scappò lontano in un vicolo. Si sentiva protetto nelle anguste stradine deserte, come quella del suo vecchio villaggio altrettanto deserto, massacrato dalla povertà, da cui quasi tutti erano scappati. Si mise lì seduto contro il muro a piangere con le ginocchia piegate, le braccia appoggiate ad esse e la testa nascosta tra le braccia. Si sentiva male e ciò che provava non era descrivibile, non si poteva dire a parole, ed il pianto non bastava. Sentì un qualcosa di morbido sfiorargli la gamba, e si rivelò per guardare cosa fosse. Riconobbe il gatto visto giorni prima, quello nero che gli aveva rubato il cibo e che nonostante la zampa spezzata continuava ad andare avanti. Kiku si fermò a fissarlo, percepiva che gli voleva dire qualcosa, ed infatti, gli iniziò a trasmettere dei pensieri, delle immagini del suo passato.


Quel gatto era sano, ma durante una dormita, un topo lo vide e credendolo morto iniziò a mordergli la zampa, a strappargli lembi di carne, a mangiarla. Quando si svegliò l’animale, aveva una zampa deturpata e dolorante, che gli portava solo sofferenza così, in qualche modo, se la tolse, anche a costo di non poter correre più ed uccise il topo.


Quella notte tornò come suo solito alla casa dell’uomo misterioso, non portando denaro con se, stavolta, ma la scampò dividendosi una piccola somma con una sua amica, tanto per non passare guai. Quella notte, in sogno, gli apparvero tante immagini confuse, di cui riuscì a distinguere solo un bivio dove da una parte vi era un filo, o meglio, un cappio sottile e rosso appeso ad un albero e l’immagine di quell’orribile uomo che l’aveva ingannato, fatto umiliare, imbrogliato, morto. Non capiva quale fosse il nesso tra le cose e si pose mille domande: d'altronde era un bambino di dieci anni, era una situazione complicata per lui, anche ragionarci sopra, così si arrese e non ci diede conto più di tanto, ma aveva deciso di mettere fine a quella vita schifosa ed indegna. Dopotutto, i sogni hanno sempre un significato, no? Diceva.


La sera seguente, Kiku ebbe una bella ricompensa e perciò non passò inosservato dall’uomo mascherato, che lo chiamò in privato, chiedendogli di “giocare” con lui come aveva imparato a fare. Il piccolo entrò nella stanza, tranquillo, non aveva paura, e portò con se un filo. Il grande si avvicinò abbassandosi sulle ginocchia per guardarlo negli occhi ed accarezzandogli la guancia, si tolse la maschera, ma Kiku non fece in tempo a memorizzare il suo volto perversamente felice, che con un sorriso, lo sgozzò con quel filo rosso affilato e sottile che aveva preso dal suo kimono.
Ed Egli cadde a terra con la maschera ricaduta sulla sua faccia, mentre, allegramente, il bambino uscì da quella casa ridendo e saltellando per la strada. Tuttavia, realizzò che ora non poteva vivere, non aveva che mangiare e che la sua vita non poteva continuare così, straziata da quegli episodi.


Finì in un bosco smeraldino. In mezzo a tutto quel verde e marrone vide un pizzico di rosso, quasi una ragnatela, che pendeva da un albero. Salì su un tronco spezzato, tenendosi a quell’oggetto esile, che nonostante tutto lo teneva ben rigido. Prima il sasso, ora i piedi si facevano leggeri, con uno slancio ed adesso sembrava di stare su di un’altalena, ma senza poter aprire gli occhi.
E nel frattempo, dall’altra parte, un gatto nero giaceva in fin di vita col collo soffocato in un filo rosso mentre i loro cuori cessarono nello stesso momento e le loro anime trovarono la pace insieme.
 

FINE



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Allora, questa Oneshot mi è venuta in mente ascoltando per la milionesima volta Musunde Hiraite Rasetsu To Mukuro quindi se l'avete sentita capisco se avete trovato moltoe somiglianze con significato della canzone XD. E che dire, ora metterò delle note nel caso qualcosa non si sia capito (?).


Ovviamente siamo in un giappone non contemporaneo, ed il villaggio di Kiku è distrutto per qualche misterioso motivo e ci vive solo lui. Anche se non c'è nessuno, lui continua a vedere questi Rakshaka, le persone mascherate ad ogni fine estate, come nei festival.

Penso si sia inteso il gioco di cui parla il Rakshaka (uomo misterioso). 

Che dire più? Spero vi sia piaciuta e che se avete letto fin qui siete davvero suri di stomaco! XD Siate clementi con le recensioni, ma recensite, anche se possono essere negative, ma recensite per favore ç.ç.

 

Grazie! Alla prossima! - Ania.

   
 
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