L’uomo
con il grande cappotto nero è agitato.
Non dovrebbe. Non lo è mai e non lo è mai stato, eccetto quella volta sul tetto
del Barts. Inizia ad essere quasi un abitudine e, per quanto in altri tempi
l’avrebbe seccato, questa sua debolezza, ora l’uomo non riesce a pensare ad
altro che alla sua strada e al cammino da seguire.
Non prende nessun taxi: troppo pericoloso. Nessuno deve riconoscerlo, o,
meglio, non ancora.
Il primo a vederlo deve essere lui:
lo aveva promesso a sé stesso ed è ciò che farà. Così l’uomo in nero cammina a
passo svelto per le vie di Londra, poggiando i piedi sulle righe delle
mattonelle come faceva da bambino. Ma, quando arriva al 221B, è tutto buio e
vuoto.
Sherlock non ha il coraggio di chiedere niente a Mrs. Hudson, perché sa che
dovrebbe concederle fin troppe spiegazioni che non ha tempo né voglia di dare.
O, perlomeno, non a lei. Le sue mani iniziano a tremare, irritate, il suo
labbro si alza in un gesto di nervosismo.
Squilla il cellulare. È Mycroft. Sherlock non risponde, decidendo di restare
seduto davanti all’appartamento. Tuttavia, naturalmente, qualche minuto dopo
una macchina nera si accosta a lui.
«Mi spiace», dice il più grande degli Holmes. «Non sono riuscito a dirtelo».
«Dov’è?», chiede lui.
«Waterloo. Sposato. Un figlio».
Sherlock si prende la testa fra le mani e, in quel momento, si rende conto di
essere arrabbiato. Non con Mycroft, perché ad essere arrabbiato con lui ormai
c’è abituato.
Non con John, perché aveva tutto il diritto di crearsi una vita senza di lui.
Con sé stesso, poiché, da egocentrico com’era, non aveva mai pensato che anche
John l’avrebbe abbandonato.
Piove.
John è solo in casa.
L’unica cosa che gli fa compagnia è il rumore dell’acqua che cade sui vetri.
Il rumore gli è mancato. Non il rumore della pioggia, ma proprio il rumore in
generale. La casa nuova non gli piace, è… silenziosa. Tranquilla. Non sa di
casa, sa di ospedale per malati mentali.
I primi giorni erano stati perfetti: John era arrivato a credere che sarebbe
ricominciato tutto da capo, che ce l’avrebbe fatta anche stavolta. William
piangeva tutta la notte e, grazie al cielo, ciò contribuiva ad evitare i
consueti incubi che ultimamente facevano compagnia al sonno del dottore.
Ma il tempo era passato ed i tempi erano cambiati. John ora siede sulla
poltrona del suo salotto, guardandosi in giro: è uno di quei salotti dipinti di
colori sgargianti, con tutti i soprammobili provenienti da diversi paesi del
mondo e i giocattoli del bambino sparsi in giro per la camera. Decisamente non
il suo genere.
Ed è certo che John ami Mary e William, ma la situazione, da un mese a questa
parte, continua incessantemente a sembrargli strana e sbagliata. Come se
qualcosa non andasse. Come se fosse tutta finzione.
E questo è proprio ciò sul quale la terapista fa forza.
“Riconosci il vero e il falso”, dice. “Basati sulle cose che ti sembrano più
razionali e stabilisci qual è il vero e quale no”.
John allora ci prova: e, non sa perché, il pensiero che tre anni fa fosse a
correre in giro per Londra con Sherlock e che ora sia rinchiuso in casa con una
vita normale e monotona gli sembra molto più falso e improbabile di quanto
altre cose lo possano essere.
E, ad un certo punto, tre colpetti sul legno della porta d’entrata lo
distraggono.
Toc. Toc. Toc.
John lascia perdere i suoi pensieri e s’avvicina alla porta, titubante, perché
William e Mary erano appena usciti e si aspettava di non vederli più per almeno
le prossime due ore. Appoggia la mano sul pomello dorato della porta, poi la
tira verso di sé.
Davanti
a sé ha Sherlock Holmes.
Sherlock se ne sta lì, con le mani congiunte dietro la schiena ed
un’espressione neutra sul viso. Non sa cosa dire. Ha dimenticato tutto ciò che
voleva dirgli e tutti i suoi buoni propositi sono scivolati via dalle sue
membra stanche non appena ha scoperto del nuovo stato sociale di John.
Si aspetta che lui stesso dica qualcosa, che dopo sarà tutto più semplice e che
magari, anche se non tornerà al 221B con lui, che John potrà tornare ad essere
suo amico.
Ma John lo fissa per una decina di secondi, in silenzio, mantenendo le sue
labbra in una linea dritta e non battendo ciglio. Non mostra la minima parvenza
di sorpresa o di gioia o di rabbia, ed i suoi occhi sembrano perforare la
figura alta di Sherlock senza proprio riuscire a vederla sul serio.
Poi, senza dire niente, gli chiude la porta in faccia.
Sherlock passa i due mesi seguenti senza muoversi dall’appartamento dove era
stato nascosto durante i tre anni di lontananza da John. Mycroft lo implora di
tornare a vivere normalmente, triste per la sua infelicità, ma Sherlock non ne
vede un senso. Tornare a Londra sarebbe troppo strano.
Non che non c’abbia provato: era stato il giorno dopo la disavventura con John,
quando aveva preso un taxi per arrivare a Scotland Yard ed incontrare per la prima
volta Lestrade. Nessuno sapeva ancora del suo ritorno, e probabilmente era
meglio così.
Il tassista non lo aveva riconosciuto. Sherlock aveva tenuto gli occhi serrati
per tutto il tempo, continuando a rivedere dentro la sua mente il viso di John
privo di ogni emozione e la porta che si sbatteva contro il suo naso. E poi
ancora, ancora, ancora, come se qualche dannatissimo tarlo avesse mangiato il
tasto “pausa” dentro la sua testa.
Sbam, sbam, sbam. E dentro quei tonfi
Sherlock ci vedeva e ci vede milioni di piccoli “ti odio” e di “non avresti mai
dovuto abbandonarmi”. Aveva voluto farsene una ragione e accettare il distacco
di John, ma non ci era riuscito. Aveva preso quel taxi e basta.
Ma il taxi era così vuoto, le strade così tranquille, i momenti così
silenziosi. Sherlock si era avvicinato alla porta della sede di Scotland Yard e
poi era corso via, di nuovo, perché non sarebbe mai più stato come prima.
Dopo quei due mesi di isolamento spontaneo, Sherlock si nasconde dentro un
vicolo di prima mattina e guarda John mentre esce di casa. Poi, una volta che
il medico è andato al lavoro, inizia a tentare di convincersi di tornarsene a
casa; tuttavia la tentazione è troppa. Si siede per terra e aspetta il suo
ritorno, quella sera.
Dopo quel giorno, Sherlock va a trovarlo quasi tutte le mattine e le sere. Ogni
tanto gli sembra che John lo veda, ma quello gli passa di fianco senza degnarlo
di un’attenzione e ci passa oltre.
Tre mesi dopo le allucinazioni di John aumentano. Ne parla con Mary e lei lo
rassicura e gli consiglia di tornare dalla sua terapista. Ma l’aiuto della
donna non serve a nulla: John continua a vedersi Sherlock ogni mattina sotto
casa, come se lo stesse aspettando per una nuova avventura. Tutte le mattine e
tutte le sere è lì, in quel vicolo di fianco al suo nuovo condominio, a
guardarlo con aria triste e a pregarlo con lo sguardo di venire con lui. Ma
John guarda dentro di sé, e si convince: non
è reale. Non è reale.
Cinque mesi dopo il giorno in cui John è tornato dalla terapista, Sherlock non
ne può più. Una volta era un uomo duro, fermo, che non si badava dei sentimenti
e si limitava semplicemente ad andare avanti, senza contare la solitudine e la
tristezza. Ma ora è cambiato. John lo ha cambiato e, come è stato l’unico a
chiudere le sue ferite, è stato l’unico che è riuscito a riaprirle.
Mycroft ha deciso che era troppo: il modo in cui Sherlock aveva smesso di
mangiare e dormire per seguire John, la sua tristezza, la sua solitudine. Ha
preso una decisione: questa sarà l’ultima volta che Sherlock potrà vedere John,
per ora. Da domani, Sherlock tornerà a casa e rimarrà lì per un po’. Ha bisogno
di cibo, di rimettersi in forma e di non pensarci più. Deve tornare ad essere
soddisfatto della sua vita e a prendersi cura di sé stesso.
«Vai da John, domani mattina», dice. «Ti vengo a prendere con l’auto quando lui
è uscito».
Ma, ovviamente, Sherlock non ci sta. Non ora.
Quell’ultima mattina arriva di nuovo a casa di John: è lunedì e Mary è andata a
portare William a scuola. John uscirà a momenti, quindi deve fare in fretta. Si
accosta al portone, prende un respiro. Poi bussa.
E John compare, ancora lì, ancora con la stessa espressione di cinque mesi
prima. Ma questa volta Sherlock non attende il suo rifiuto.
«Mi dispiace, John», sussurra, e sgattaiola dentro l’appartamento.
John richiude la porta dopo che Sherlock è entrato. Non è reale, continua a ripetersi. Qualsiasi cosa dica, non è reale.
«Lo sono, John. Sono reale», dice, ed ha un’espressione sorpresa sul viso. John
non si era accorto di aver parlato ad alta voce.
«Non lo sei», sibila, sfregandosi una mano sulla faccia.
«John, ascoltami, sono reale».
«E ALLORA PERCHÉ TE NE SEI ANDATO? PERCHÉ DIAMINE HAI FATTO UNA COSA DEL
GENERE?».
Sherlock chiude gli occhi e in una frazione di secondo si riprepara a quello
per cui era pronto cinque mesi prima. Ed il pugno arriva. Forte, anche.
Destabilizzante. Uno, due, tre. Tre pugni.
Sherlock cade a terra, si tasta il naso con una mano. C’è del sangue sul suo
viso e del sangue per terra. Tanto, anche.
«Scusa se me ne sono andato», sussurra al medico, e lo fissa.
Ma John non gli bada più. Si siede sul divano, come se niente fosse. «Non sei
reale».
Sherlock allora si lascia sfuggire una lacrima. Poi va via, chiudendosi la
porta alle spalle.
John non va al lavoro. Non ce la fa.
Mary rientra dopo un quarto d’ora e, dopo avergli sorriso e chiesto,
preoccupata, come mai non fosse al lavoro, il suo sguardo cade sul tappeto
ricoperto di sangue. Poi vede quello ancora incrostato sulle sue nocche.
«Cos’hai fatto?», chiede, inorridita.
E John sorride. «Tranquilla, Mary. Non è reale».
Mary e John divorziano dopo poco. Lei porta via il bambino e tre quarti degli
averi di John, terrorizzata del pazzo squilibrato con cui ha vissuto per anni.
John non ci rimane nemmeno tanto male. Sapeva di essere pazzo, ormai è
rassegnato. Piano piano, raggiunge la consapevolezza del suo desiderio più
grande: e decide di realizzarlo. Decide di smettere di combattere le sue
allucinazioni di Sherlock e di fare finta che siano vere. Perché, se proprio
deve impazzire, tanto vale essere pazzo e felice.
Ma, quando decide ti tornare al lavoro dopo la pausa che s’era preso per il
divorzio, Sherlock non è lì ad aspettarlo nel vialetto sotto casa sua. John non
ci fa caso. Va in clinica, lavora, poi prende un taxi e torna a casa.
Ma Sherlock non è tornato ad aspettarlo.
E non tornerà mai più.
Il corpo di Sherlock viene ritrovato da Mycroft stesso un mese esatto dal
giorno in cui lui aveva deciso di rinchiuderlo in casa. Sherlock si era
rifiutato di mangiare, di dormire e quant’altro e, per quanto Mycroft si fosse
sforzato di obbligarlo a prendersi cura di sé, era stato abbastanza stupido da
lasciare i medicinali a portata di mano del fratello.
Overdose, quindi. Sherlock non può avere un vero funerale, ma immagina che quello dell’altra volta abbia già
fatto soffrire fin troppe persone. Mycroft si chiede se Sherlock avrebbe voluto
perlomeno che qualcun altro, oltre a John, sapesse della vera storia della sua
finta morte; d’altronde, però, non è nemmeno troppo sicuro che il fratello
avesse rivelato tutto a John.
Così, con un’espressione solenne sul viso, Mycroft si fa strada per il
corridoio che porta alla camera di John. Non quella del suo appartamento, però,
ma quella dell’ospedale psichiatrico.
John Watson muore esattamente un anno dopo quello che sarebbe stato il presunto
ritorno di Sherlock, ovvero il giorno stesso nel quale Mycroft era venuto a
trovarlo. Quando, posandogli una mano sulla spalla, questo aveva rivelato tutta
la storia di Sherlock, John aveva riso.
«Lo so», aveva detto. «Sherlock è reale».
Originariamente scritta per il prompt “Johnlock. Il ritorno. Sherlock torna, John si è fatto una vita,
si è sposato, ha un figlio.”
La storia è inoltre un tributo alla saga di Hunger Games.