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Autore: Axul    26/03/2013    0 recensioni
Désirée aspirò l’acre fumo e lo gettò fuori solo quando sentì la gola pizzicarle. Lei era una donna importante in quel mondo, ma aveva deciso di demandare ogni suo compito al suo consigliere e di dedicarsi alla ricerca della felicità. Fu in quel turbinio di disperazione che perse gran parte del suo patrimonio e finì con l’entrare in casa degli altri nobili in veste di “dama di piacere”, come si definiva lei. Le sembrò quasi naturale con un nome come il suo indossare quei panni, o meglio, togliere i suoi abiti e lasciarsi al piacere.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Et puis la nuit

Accarezzò lentamente le bianche lenzuola di seta con la punta delle dita mentre si avvicinava al suo amante: un uomo sulla trentina dal petto villoso e dall’accurata barba nera. Lui ansimava dal piacere, nella tensione dei suoi muscoli poteva ancora leggere la voglia che in lui si era accesa spasmodica anche quella sera.
Monsieur Olivier le cinse le spalle tirandola verso di sé con poca grazia. «Désirée, io la amo!»
Lei non poté che ridere con quel tono particolare e delicato che aveva studiato con gli anni, quello che usava solo nelle occasioni in cui era amante, dama di compagnia, donna del piacere, come ironicamente ricordava il suo nome. «Addirittura? Non credete che siano parole un po’ esagerate, Monsieur Olivier?»
L’uomo sospirò sconsolato. «Speravo che vi innamoraste di me.»
Lei si liberò dalla sua presa con grazia, senza fare il minimo suono e si allontanò facendo scivolare la seta sul suo corpo. Adorava le case dei ricchi per i loro tessuti così soffici. Si rivestì senza dire nulla, assaporando il profumo delle candele per dimenticare quello del suo compagno.
«Potrò rivederla, Désirée?»
Fece cadere i soldi sul comodino nella borsa. «Non credo che accadrà.»
Preso da un terrore cieco, Monsieur Olivier le afferrò il braccio strattonandola con foga. «Io posso renderla felice, sia mia, la prego!»
Quante volte aveva dovuto assistere a quella pietosa scena! Si alzò avviandosi verso la porta. «Io non sono di nessuno e mai lo sarò.»
 
Désirée aspirò l’acre fumo e lo gettò fuori solo quando sentì la gola pizzicarle. Lei era una donna importante in quel mondo, ma aveva deciso di demandare ogni suo compito al suo consigliere e di dedicarsi alla ricerca della felicità. Fu in quel turbinio di disperazione che perse gran parte del suo patrimonio e finì con l’entrare in casa degli altri nobili in veste di “dama di piacere”, come si definiva lei. Le sembrò quasi naturale con un nome come il suo indossare quei panni, o meglio, togliere i suoi abiti e lasciarsi al piacere.
Non trovò la felicità, come mai avrebbe potuto in mezzo a degli uomini vecchi e maleodoranti? Pensò di cercarla dentro di sé, per questo affinava costantemente la sua voce, perfezionava di giorno in giorno i dettagli del suo corpo che ancora non erano idilliaci.
Era bella, la donna più bella della città e molti vociferavano dell’intero Paese, ma era sola, terribilmente sola. Tutti i suoi amanti le confessavano sentimenti che lei non aveva mai provato e la sua reazione era sempre la sua delicata risata che faceva impazzire ogni uomo, quella con cui attirava le sue vittime inesorabilmente.
Intorno a lei milioni di uomini catturati dalla sua tela di seta.
Ogni volta che qualcuno diceva di amarla, lei scompariva prendendo i soldi e, magari, un bicchiere di vino.
Intorno alla sua figura si era costruito un alone di fascino, quando entrava nei salotti dei nobili, tutti si voltavano verso di lei con sguardi ammaliati e rapiti, non riuscivano a non cercare la sua approvazione o il suo appoggio. Lei, però, annuiva distratta pensando al passo successivo nella sua faticosa ricerca.
Il fumo l’aveva concepito quando aveva visto dei ricchi su un balconcino concedersi qualche risata e una boccata d’aria mischiata al tabacco. Si era fatta comprare il necessario dal suo maggiordomo e aveva cominciato. Ovviamente anche quell’ipotesi di felicità era fallita, ma era pur sempre un metodo per rendere la sua figura più misteriosa. Una donna che fumava non era all’ordine del giorno all’epoca.
 
Un giorno, decise di farsi ritrarre da uno di quei pittori che stava spopolando in città. In qualunque casa c’erano austeri volti di tempera intenti a fissarla e lei doveva essere al passo con i tempi, se non superarli, fu per questo che, quando vide il ragazzo entrare in casa con la sua tela e la sua tavola, gli disse: «Usa la tua fantasia per rendere unico il mio ritratto».
Indossava una sottile veste azzurra che le arrivava al ginocchio e una semplice mantellina bianca a coprirle le spalle; in mano il lungo bocchino nero con la sigaretta; e il volto perso fuori dalla finestra.
L’artista le fece stendere le gambe diversamente, le spostò i boccoli castani tinti d’oro e le fece socchiudere leggermente le labbra.
Il suo consigliere disapprovò immediatamente, ma non poté opporsi alla sua decisione di esporre il quadro nella sala del tè, quella dove si soffermava a parlare con gli uomini che trascorrevano la notte da lei.
Non erano in molti a sapere della sua seconda vita, l’argomento era come un tabù, nessuno voleva ammettere di essere stato suo amante e di essere quindi stato rifiutato, per questo nessuno ne parlava e a lei andava bene così.
 
Fu in una calda serata d’estate che rivide l’artista del dipinto. Lei era seduta in un costoso caffè insieme ad alcune donne che avevano cominciato a seguire i suoi bizzarri modi, la sua indipendenza e le sue abitudini. Aveva pensato che avere delle amiche potesse essere fonte di gioia, ma aveva ben presto compreso che quelle erano solo oche curiose, con loro non poteva avere dei veri discorsi. Fu mentre loro spettegolavano sul cane di uno dei vicini, e quindi sulla sua padrona, che lo notò correre trafelato dall’altra parte del fiume.
Lei era sulla riva destra della Senna, quella noiosa, quella degli affari. Dall’altra parte c’erano i bohémiens.
Si alzò sorridendo pacata come sempre e si avviò verso casa. Finalmente aveva capito dove indirizzare i suoi sforzi. Non appena varcò la soglia del suo palazzo, cominciò ad aprire tutti i suoi armadi cercando vestiti dismessi, abiti che poteva stracciare e ricucire senza doversi poi pentire di aver perso pregiati vestiti che aveva faticato a far confezionare esattamente come li voleva lei.
 
Si ritrovò sulla rive gauche con una lunga gonna nera, una camicia nera e una mantella rossa. Ai piedi aveva degli stivali usati, logorati, comprati appositamente, che le dolevano da impazzire, ma doveva proseguire.
Girò fra le strade stupendosi di quanto diverso fosse il mondo da quella parte, così attivo, solare, così… vivo. Fu con immensa fortuna che ritrovò il pittore: era appoggiato vicino alla porta di un locale da cui arrivavano canti di ubriachi e canzonette popolari.
Gli toccò il braccio e spostò il cappello sormontato da una piuma nera perché lui la riconoscesse.
«Madame!» sbottò il ragazzino spalancando incredulo la bocca e portandola in una via secondaria «Perché siete qui?».
«Voglio che mi porti dai tuoi amici artisti, voglio che mi conoscano.»
«Vuole altri ritratti? Glieli posso portare a casa sua!» affermò l’altro con una gentilezza che raramente aveva visto nelle persone e una preoccupazione che da anni ormai invadeva il suo consigliere.
Gli sorrise con quel suo modo di fare che conquistava tutti e lui cadde letteralmente ai suoi piedi. «Non è per questo, voglio che mi porti da loro. Adesso.»
Il ragazzino si presentò come Lucien e la riportò all’entrata del locale facendole varcare la porta. Le disse di non badare a quegli scorbutici che bevevano birra dalla mattina alla sera e la pregò di seguirlo accompagnandola verso una scala che conduceva ad un locale poco luminoso, silenzioso, dove i tavoli erano nascosti da delle vetrate colorate. Lucien percorse il corridoio fermandosi poi davanti a due uomini. Uno aveva un cilindro appoggiato vicino al suo braccio, una giacca marrone, una camicia azzurra e una cravatta malamente annodata; un pizzetto nero e dei baffi dove già s’intravedevano dei fini peli bianchi; gli occhi erano cerchiati dalla stanchezza, anche se lui sprizzava energia. Accanto a lui un ragazzo, forse aveva la sua stessa età, gli occhi scuri, impenetrabili e i capelli biondi.
Lucien li salutò con un cenno e la indicò. «Lei è Désirée! Loro due sono Basile e Stéphane.»
Si sedettero negli altri due posti vuoti, lei era fra Stéphane, quello più giovane, e Lucien.
«Dove hai trovato questa ragazza?» domandò Basile perplesso nel vedere una donna in un posto come quello, per di più in compagnia di Lucien.
Lo fulminò con lo sguardo; Lucien capì immediatamente di dover tacere la verità. «Lei è mia cugina. Le piacciono molto i quadri.»
Stéphane ordinò quattro bicchieri di assenzio. «Dovresti vedere i miei, allora, sono tutt’altra cosa rispetto a quelli di Lucien.»
Sorrise. In un istante capì che lui non era caduto vittima del suo atteggiamento accuratamente studiato. «Con piacere.»
Il biondo guardò Lucien come a cercare conferma, le fece bere l’assenzio e la portò fuori da quel posto quasi con fretta.
Quella era la prima volta che provava un alcolico che non fosse vino o champagne. La testa prese subito a girarle, ringraziò quando Stéphane aprì una porta per condurla al suo studio. Era immenso, avrebbe potuto guardare attentamente tutte quelle opere e godersele, ma stava troppo male anche solo per alzare lo sguardo. Si accasciò a terra semplicemente, faticando a mantenere gli occhi aperti.
«Immaginavo fosse la prima volta che bevevi, forse sono stato cattivo con l’assenzio, ma fa parte della nostra vita» la prese in braccio facendola sedere su un logoro divano rosso «Per ora resta qui e non addormentarti».
Lui riprese a dipingere disinteressandosi completamente di lei.
Non riusciva a credere che un uomo la stesse ignorando.
Sciolse il fiocco che teneva legato il cappello e lo poggiò accanto a sé insieme alla mantella rossa. Sentì i piedi dolerle da impazzire nonostante avesse i sensi confusi. Si tolse le scarpe senza neanche riflettere e si alzò avvicinandosi a Stéphane. Lui diede qualche altra pennellata per poi girarsi verso di lei.
«Migliori in fretta, mi sa che non era il tuo primo alcol quello.»
Lei sorrise, mise le mani sui fianchi e si sporse leggermente in avanti. «Sono abituata al vino e mi sono già ubriacata, solo che non avevo mangiato.»
Lui annuì compiaciuto da quella rivelazione e le offrì un pezzo di pane. «Allora dovresti essere in grado di guardarti intorno e di dirmi chi sei.»
Si voltò per osservare un dipinto sul muro. «Désirée, la cugina di Lucien.»
«Nessuna contadina profuma come te. Sei una nobile?»
Sospirò. Aveva trovato una persona intelligente, qualità che apprezzò immediatamente di lui. «Sì, ma continua pure a darmi del “tu”.»
«Come mai sei qui?»
Fece passare lo sguardo sui quadri, finché uno in fondo alla sala non attirò la sua attenzione. Era un cielo pieno di nuvole, bellissimo e fatto così bene da sembrare quasi reale. Si avvicinò senza neanche rispondere e rimase in contemplazione per alcuni istanti provando in sé qualcosa di magico, quella stessa sensazione che provava ogni volta che sentiva una piacevole melodia.
«Questo è uno dei miei studi sulle luci, laggiù ce ne sono altri» spiegò Stèphane andandole accanto.
Désirée si mosse immediatamente, ma fu bloccata dalla sua salda stretta.
«Te li farò vedere solo se mi dirai perché sei qui.»
Fu un secondo. Era la prima volta che degli occhi attiravano la sua attenzione. Le sembrò essere di fronte ad un dipinto. Dentro di sé seppe di aver fatto un ulteriore passo verso la felicità, ma non ne comprese il motivo. «Sto cercando la felicità.»
«Non la troverai bevendo assenzio, mi dispiace» affermò l’altro tornando al suo posto di lavoro.
«Sì, avevo intuito, esattamente come non l’ho trovata con il fumo o con il sesso.»
«Una nobile così scurrile? Mi sorprendi, Désirée, se è davvero questo il tuo nome.»
Rimase spiazzata. Anche lei era rimasta sconvolta da quella parola che aveva usato, l’alcol doveva aver inibito la sua mente, non doveva accadere di nuovo. «Mi chiamo davvero Désirée.»
«E immagino che avrai fatto innamorare molti uomini…»
«Tutti quelli che ho incontrato.»
Non si accorse che lui la stava seguendo fino a quando non l’abbracciò. «Non tutti, mi dispiace, io sono rimasto immune ai tuoi occhi azzurri e al tuo sorrisetto.»
Sentì il battito accelerare. Doveva farsi controllare da un medico, non le era mai successo prima. «Buon per te.»
Lui si allontanò ridendo. «Immagino che tu non sia stata così scontrosa con loro, che ironia! Sono l’unico uomo che non cade subito ai tuoi piedi e tu non sei abbastanza padrona di te stessa per cogliere questa sfida!»
La testa prese a pulsarle insopportabilmente, si sedette a terra non trovando un posto più comodo vicino a sé. Stéphane accorse subito porgendole un bicchiere d’acqua. Bevve, ma non cambiò nulla.
«Portami a casa» sussurrò quasi supplicandolo.
«E come? in braccio?» domandò lui ironico, poi un borsellino di tessuto entrò nella sua visuale tintinnando.
«Chiama una maledetta carrozza e portami a casa.»
Lui obbedì immediatamente, non sapeva neanche perché, avrebbe potuto benissimo lasciarla lì stesa su quel pavimento; si disse che l’aveva fatto perché un’ubriaca avrebbe potuto rovinargli i quadri e anche la concentrazione, ma sapeva che non era la risposta esatta. Quando scese dalla carrozza, lei gli ordinò di entrare e disse al maggiordomo di farlo attendere nella sala da tè.
 
Aspettò mezzora, poté osservare attentamente il quadro di Lucien e in quella figura che appariva così forte e distaccata da quel mondo scorse una fragilità infinita, un’insicurezza imprescindibile che l’aveva costretta a creare una maschera.
Désirée entrò con una vestaglia bianca e la stessa veste azzurra che aveva nel quadro. Non era la prima volta che di una donna vedeva altro oltre al collo, ma non in una circostanza come quella.
«Perdona il mio abbigliamento, ma non avevo voglia di mettere un corpetto» e si sedette su un divano bevendo del tè caldo da una tazza in porcellana.
Lui si guardò la giacca consumata sui gomiti e si chiese se lo stesse prendendo in giro.
«Ma immagino che non te ne freghi nulla» sentenziò poi massaggiandosi le tempie «Grazie per avermi riportata qui, ora puoi andare».
«Mi hai fatto aspettare mezzora solo per ringraziarmi?» sbottò Stéphane sconvolto.
Désirée fece un gesto stizzito, come a dirgli di abbassare la voce perché le dava fastidio. «No, avevo in mente altro, ma ho cambiato idea.»
Si alzò da quella scomoda sedia in legno per accomodarsi accanto a lei sul divano di piume. «Potrei sapere cosa? Mi hai incuriosito.»
Poggiò la tazza sul tavolo sorridendo come mai aveva fatto, in un modo quasi impercettibile. «Credo che ti rimarrà la curiosità, sono troppo stanca.»
«Come mai hai sorriso?»
Da quando era entrata nella stanza, quello fu il primo istante in cui lo guardò negli occhi. «Perché sei l’unico a darmi del “tu”.»
Stéphane si schermì dicendo: «Mi hai detto tu di farlo».
«Era ironico e, comunque, continua a farlo, mi piace» si alzò dirigendosi verso la porta «Buona notte».
 
Ringraziò di non avere i postumi della sbornia la mattina seguente. Scese nella sala da pranzo per la colazione e rimase immobile alla porta con la vestaglia che le cadeva dalle spalle a fissare Stéphane al tavolo intento a mangiare con gusto.
Il maggiordomo la affiancò per spiegarle la situazione. «Madame, l’ho trovato questa mattina in casa, dice che vuole ancora parlarvi.»
Immediatamente il suo consigliere le tuonò: «Madame, che diavolo significa che porta uno straccione in casa? Sta esagerando!».
Désirée si sedette e prese a spalmare la marmellata sul pane bianco. «Mi ha riportata lui ieri sera, pensavo però di avergli detto di tornare a casa.»
Stéphane alzò lo sguardo su di lei: il volto ricoperto da briciole e residui di marmellata e caffè. «Volevo parlarti.»
Il consigliere andò in escandescenza per quella mancanza di rispetto, ma lei lo bloccò con un cenno della mano. «Lasciateci soli.»
Quando fu sicuro che se ne furono andati, si avviò silenziosamente verso di lei, facendo attenzione a non fare il minimo rumore con lo spostamento della sedia, e si fermò a qualche millimetro dal suo volto. «Non voglio che ci sentano» spiegò frettolosamente «Voglio che tu mi faccia da modella».
Aggrottò la fronte. «Tutto qui?»
Sbuffò come se stesse parlando con una bambina. «Non m’importa nulla del tuo viso, mi interessa il tuo corpo.»
Spalancò sorpresa gli occhi. «Mi stai chiedendo di posare nuda?»
«Se vuoi non completamente, ma voglio davvero che…»
«Va bene.»
Sentì un tuffo al cuore, finalmente aveva trovato una modella. Era da mesi che aveva in mente un dipinto, ma non aveva mai potuto realizzarlo perché nessuna delle sue ragazze aveva mai accettato di farlo oppure perché non erano all’altezza dell’ideale che voleva esprimere. Si era accorto della perfezione di lei quando l’aveva vista andarsene, quando aveva potuto analizzare le sue gambe slanciate e le diafane braccia, quando si era sistemata i boccoli castani, quando l’aveva guardato negli occhi e lui si era sentito scrutato nell’anima da quell’azzurro così intenso, quando aveva bevuto il tè permettendogli di vedere le sue ciglia lunghe e la perfezione del suo labbro e delle sue dita.
Désirée mangiò composta la fetta di pane continuando a guardarlo. «Quando iniziamo?»
Lui aprì la bocca, sillabò qualcosa, poi corse fuori urlando che sarebbe tornato il prima possibile.
 
Stéphane arrivò quella sera stessa con tutto l’occorrente; Désirée lo guidò fra le varie stanze della casa perché lui potesse scegliere il luogo più adatto. Optò per una delle camere da letto, dove la luce era soffusa a qualunque ora del giorno e in fondo al corridoio in modo che avessero il tempo di accorgersi se stava arrivando qualcuno. Désirée affermò che quella era anche la sua stanza, così non sarebbe dovuto andare da una parte all’altra della città ogni giorno.
Cominciarono il mattino seguente. Lei arrivò indossando un pomposo vestito rosa salmone, si erano accordati che lui avrebbe fatto due quadri: uno rimaneva a lei, l’altro, quello osé, andava nel suo studio.
Désirée si tolse il vestito con estrema calma, assaporando la dolce sensazione dei vestiti che scorrevano sulla pelle; rimase con la sottoveste bianca e lo guardò confusa. «Dove devo mettermi?»
Stéphane le indicò il letto e nella sua testa si delineò chiaramente l’immagine del quadro; aiutò Désirée ad assumere quella posa muovendo il suo corpo come se lei fosse stata una bambola e annuì con convinzione.
Désirée chiuse gli occhi, impresse nella mente quella posizione e si mise seduta per togliersi la veste.
Stéphane, paralizzato dallo stupore, non poté trattenere i suoi occhi dal divorare quel corpo perfetto. Lei si sistemò senza dire una parola, guardandolo quasi con aria di sfida.
 
Passarono giornate intere chiusi in quella stanza, ne uscivano solo per mangiare e lei la sera per tornare nella sua camera a riposarsi. Non ricordò di essere mai stata così bene con se stessa: qualcuno la stava ritraendo così com’era, senza nessun artificio, senza intermediari fra lei e il dipinto; qualcuno parlava con lei come se fosse stata una normale persona con cui chiacchierare, la faceva ridere, si divertiva a scherzare con lei sulle strane abitudini del consigliere o del maggiordomo. Erano come chiusi in un loro idilliaco mondo.
Era la prima volta che lei andava d’accordo con qualcuno.
Era la prima volta che qualcuno la rispettava per quello che era realmente e non per il suo titolo.
Una sera lei si addormentò. Stava posando ininterrottamente dall’alba e non era riuscita a non cadere fra le braccia di Morfeo. Quando se ne accorse, Stéphane la raggiunse sul letto e la prese in braccio per farla sdraiare sotto le lenzuola di seta. A quel contatto così fresco e familiare, lei socchiuse gli occhi, in un istante comprese quello che era successo e scattò seduta scusandosi ininterrottamente.
Stéphane le accarezzò il volto. «Tranquilla, puoi riposarti, per oggi abbiamo finito.»
Normalmente, si sarebbe rivestita e sarebbe tornata in camera. Quella volta, rimase immobile, di nuovo quel battito accelerato e quella sensazione di volersi perdere in quei due pozzi scuri. Finalmente capì. Sentì la sua mano scorrere sul suo collo, lungo la sua spalla, lasciandole infiniti brividi che la fecero tremare.
Si era trovata in una situazione come quella un’infinità di volte, ma mai le era successo di provare qualcosa. Sorrise quasi senza accorgersene: anche lui era caduto ai suoi piedi, ma non vittima della sua tela, questa volta aveva fatto tutto Cupido, lei non aveva fatto altro che essere se stessa.
 
Finì i due quadri una settimana dopo, a malincuore dovettero separarsi. Sapeva di non poter rivelare anche quell’esperienza al suo consigliere, sapeva che mai avrebbe accettato.
Si incontravano ogni sera, su uno dei ponti sulla Senna e si baciavano fino a quando non mancava loro il fiato, fino a quando il battito impazzito del loro cuore non si bloccava.
Pensò di aver trovato finalmente la felicità.
 
«Madame, la vedo felice in questo periodo» affermò un giorno a pranzo il consigliere.
Sicuramente non sapeva nulla di lei e Stéphane, finse di non capire.
«Ha sempre il sorriso sulle labbra e spesso la vedo sorridere quando è soprappensiero. Non sono cieco, lei si è innamorata e, purtroppo, ho capito anche di chi. Si tratta di quel pittore, vero? Di quello Stéphane.»
Alzò lo sguardo sospirando. «Anche se fosse?»
«Ormai ho imparato che non posso farle cambiare idea, se la rende così, allora lo accetto, per una volta non è qualcosa che potrà farle del male, le chiedo solo di non farsi scoprire dagli altri nobili.»
 
Lei e Stéphane vivevano ormai insieme da un mese. Erano spesso chiusi in qualche stanza della villa, svestiti perché era ormai inutile rivestirsi se ogni volta che incontravano lo sguardo dell’altro li attraeva una passione incontrollata che gli mozzava il respiro in gola.
Passavano il tempo parlando delle loro vite, sdraiati su quei letti dalle lenzuola di seta che silenziose scivolavano sui loro corpi ricoprendoli di freschi abbracci.
Quando Désirée andava nei salotti dei nobili, lui tornava sulla rive gauche per incontrare i suoi amici, scoprire le novità del momento e comprare nuovi colori. Non aveva smesso di fare ritratti a Désirée, spesso glieli faceva mentre lei dormiva, intrappolando il suo sorriso mentre riposava tranquilla. Mai aveva incontrato una persona così fragile e il suo vero carattere lo attraeva inspiegabilmente.
Lei gli disse che avrebbe passato alcune notti fuori, non gli spiegò il motivo, sapeva che avrebbe capito: le servivano soldi se voleva continuare a vivere in quel lusso esagerato e l’unico modo che conosceva era quello, lei vendeva il suo corpo in cambio di qualche ora di piacere con altri. Un giorno l’aveva vista piangere, perché non riusciva più ad essere distaccata da quelle situazioni, si sentiva in colpa e spesso doveva trattenere la voglia di andarsene, quando tornava lo cercava immediatamente e lo abbracciava senza dire nulla, tremando impercettibilmente.
 
Quando seppe di quella notizia, non volle crederci, pensò che fosse un orribile scherzo. Era passato un anno da quando aveva conosciuto Stéphane, ormai erano diventati una cosa sola, fu per questo che non volle crederci, si disse che l’avrebbe sicuramente sentito se fosse stato vero. Corse sul ponte dove spesso si incontravano e immediatamente la gravità di quella situazione la colpì facendola quasi urlare.
Stéphane era lì, perfetto come sempre, con gli abiti leggermente trasandati e impolverati come suo solito, l’unico dettaglio impossibile era quella macchia rossa sul petto. E quell’uomo attaccato al parapetto del ponte che fissava incredulo il suo corpo steso a terra con accanto due ufficiali di polizia che invano tentavano di comunicare con lui.
Era Monsieur Olivier. L’aveva rivisto qualche giorno prima mentre usciva di casa, non l’aveva neanche degnato di uno sguardo, perché lei faceva così: colpiva e scappava.
Quante notti passò a maledirsi per quel giorno, per non essere stata più attenta, se solo si fosse accorta di lui quando era ritornata a casa, quando aveva abbracciato Stéphane sulla porta e l’aveva baciato sorridendo, come ogni sera.
Gelosia.
Il movente era stata la gelosia.
Lui non disse di chi era amante quell’artista, sempre per il tabù per cui nessuno dovesse pronunciare il suo nome.
Lei tornò a casa lasciando sulla strada quel corpo che aveva amato. Si era rifugiata nella camera del suo consigliere e aveva pianto per giorni interi con lui incapace di consolarla oltre a quelle impacciate carezze sul capo. I domestici lavorarono silenziosi e, quando la vedevano vagare come uno spettro fra i corridoi, si spostavano lasciandola passare.
Fu in uno di quei viaggi senza meta, tentando di ripercorrere tutto quell’anno insieme a lui che tornò nella stanza dove aveva dipinto il primo quadro. Quella dove si erano baciati per la prima volta, quella dove avevano consumato il loro amore in modo così perfetto da farle male al solo ricordo: la camera che era stata il fulcro di ogni loro azione e felicità.
Una persona qualunque sarebbe crollata a terra sommersa dalla tristezza, ma lei si concesse per la prima volta un sorriso. Non era finito nulla, la sua ricerca continuava ad esistere, non aveva più la felicità, allora doveva trovarla da qualche altra parte, senza esitare.
Non doveva rimanere indietro, doveva andare avanti.

Come sempre.
  
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