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Autore: Deathbed    27/03/2013    5 recensioni
Londra non è il miglior posto in cui poter girare per strada di notte, da soli. Soprattutto se sei una ragazza. Soprattutto se rischi di incontrare persone ben poco raccomandabili. A me l'hanno sempre fatto presente "torna a casa prima che faccia buio, se riesci! E così non rischi di prenderti qualcosa, che di notte può fare tanto freddo!" Ma io mi ero abituata da tempo a non sentirlo, il freddo. Mi ero abituata a non sentire un sacco di cose.
E mi ero abituata a non vedere quelli come me.
Perché da tempo avevo capito che due cose sbagliate insieme non fanno una cosa giusta. Adesso però non la penso più così, diciamo che dopo averlo incontrato le mie idee sulla vita sono cambiate radicalmente.
E ho capito che due cose sbagliate insieme forse possono salvarsi
Genere: Drammatico, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Ok, è che in questo periodo sono un po' in fissa e ascolto praticamente solo loro. E mi sono innamorata di questa canzone, penso sia semplicemente perfetta *-* ah e il nome della protagonista, ovviamente, è preso da Chelsea Smile. rawr!

~Don't go,
I can't do this on my own



Don't go, I can't do this on my own.
Don't go, I can't do this on my own.
Save me from the ones that haunt me in the night.
I can't live with myself, so stay with me tonight.
Don't go, I can't do this on my own.
Save me from the ones that haunt me in the night.
I can't live with myself, so stay with me tonight.
Don't go!

{Bring me the Horizon-Don't go}




"E poi ho scoperto quando difficile fosse cambiare realmente, anche l'inferno può diventare confortevole una volta che ti sei sistemato al suo interno. Volevo solo che il gelo dentro di me se ne andasse, non importa quanto ti spacchi, è sempre li quando ritorni là in fondo. La cosa buffa è che tutto ciò che ho sempre voluto ce l'ho già, ci son spiragli di paradiso in ogni giorno, negli amici che ho, nella musica che faccio, nell'amore che sento. Dovevo solo ricominciare da capo. "

-Oliver Sykes-


Mi ricordo che faceva freddo. Non era uno di quei freddi piovosi e umidi, da cui non puoi proteggerti neanche con il migliore degli ombrelli, e sembra che ti si infradici anche l'anima. Ma non era nemmeno un freddo triste e grigio, come quando c'è vento così forte che devi piegarti in due per camminare. Era semplicemente freddo, ci saranno stati uno o due gradi sopra lo zero. Il fiato si condensava in tante nuvolette, sembrava fumo. Ed era notte. Io avevo un chiodo di pelle, troppo leggero per una notte di gennaio, ma mi ero abituata a non sentire più il freddo. A dire il vero, mi ero abituata a non sentire più un sacco di cose.
Ero uscita di corsa dai locale, piangendo, dopo che James mi aveva picchiato di nuovo. Non potevo più sopportarlo, quella storia andava avanti da più di sei mesi e io volevo scappare, ma dove? Dove sarei potuta andare? Dove? Non c'era niente che potessi fare. Potevo scappare, sì, ma ero stanca, non ne avevo più la forza. L'avevo fatto troppe volte e troppe volte non avevo pensato, tanto che ora per colpa delle mie stupide scelte da bambina capricciosa e viziata mi ritrovavo a vivere nei bassi fondi più infimi di Londra, solamente con i soldi necessari per sopravvivere, quando andava bene, senza uno straccio di vita sociale, solo con un lavoro, se così si poteva definire. Facevo la cameriera in un bar, un posto che mi faceva ribrezzo, e accettavo di andare al letto con il proprietario del locale per qualche spicciolo extra. Ero una puttana? Beh, forse sì, accettavo soldi in cambio di sesso, ma le bollette c'erano e l'affitto anche, e avevo bisogno di mangiare, anche se quello non era un grande problema, dal momento che James mi passava anche della droga. Riduceva di molto la sensazione della fame e mi faceva stare sveglia più a lungo, potevo lavorare di più. A volte mi vergognavo di me stessa, mi vergognavo di ciò che ero. Spesso avevo la tentazione di tornare a casa mia, dai miei genitori, dire loro "no non ce l'ho fatta, avevate ragione" ma ero troppo orgogliosa per farlo. Come avrei potuto? Ammettere di aver fallito? No, mai. Preferivo davvero vivere lì, così, per sempre. E adesso so che, se non mi fosse successo niente durante quella notte, probabilmente le cose sarebbero andate davvero così, non sarebbero mai cambiate.
Come sempre mi incamminai verso casa mia, che distava circa sette chilometri dal mio... posto di lavoro. Faceva freddo e la strada era tanta, ma non avevo soldi per chiamare un taxi e di bus non ne passavano molti, a quell'ora. Mi strinsi nel mio giubbetto, con lo sguardo basso e il passo spedito. Non passava nessuno di là, ma non volevo farmi vedere piangere. Solo i deboli lo fanno. Ad un tratto sentii degli schiamazzi dietro di me, che mi distolsero dai miei pensieri. Mi voltai e vidi dei ragazzini, di quindici, sedici anni, che probabilmente erano lì a cazzeggiare, come se avessero come unico scopo quello di vagare per Londra di notte. Stavano fumando, e quando mi girai verso di loro scoppiarono a ridere e si misero a fischiare. Li ignorai, feci dietrofront e accelerai il passo. Per sentirmi più al sicuro cambiai strada, passai per l'Hyde Park, dato che era un'area video sorvegliata magari ci avrebbero pensato due volte prima di seguirmi. Infatti non lo fecero. Mi sentivo stupida, non avrei dovuto comportarmi così. Non dovevo dimostrarmi debole e impaurita. Mi accesi una sigaretta mentre lanciavo occhiate furtive alle poche coppiette che ancora si godevano la loro serata romantica stesi sul prato, abbracciati. Passai accanto ad uno dei tanti laghetti che c'erano lì. Mi piaceva quel posto, era bello, anche se non ero proprio dell'umore più adatto per mettermi ad osservare il paesaggio. L'acqua lì rifletteva la luce della Luna, sembrava quasi un posto da favola, dove si sarebbe potuto ambientare qualcosa come "Il giardino segreto". Feci una sorriso sghembo, pensando che lì l'unica cosa che andava resa segreta erano le persone come me, che, a quanto pare, rovinavano la città, con il suo Big Ben e Greenwich e la regina, e tè e pasticcini e grazie tante.
Ero talmente presa da questi pensieri che avevo rallentato il passo, quasi senza rendermene conto, e in quel momento mi accorsi di lui.
Su una delle panchine sotto l'ombra assente di un grande albero c'era un ragazzo che, forse addormentato, se ne stava sdraiato con un braccio che gli copriva la faccia. Di barboni a Londra se ne vedevano e se ne vedono tanti, ma quello non aveva l'aria di un barbone, o almeno non corrispondeva alla mia idea di barbone. Mi avvicinai lentamente, più che altro per controllare se fosse vivo, cosa che non era da dare per scontata.
-Hey?-
Niente.
Mi avvicinai di più e lo vidi sbuffare in modo quasi impercettibile. Oh, allora era vivo.
Mi ritrassi lievemente, forse avrei dovuto lasciarlo in pace, ma chi mi diceva che stava bene? È che si vedeva lontano un miglio che era come me, che aveva bisogno d'aiuto, e io potevo darglielo, anche se magari non gli sarebbe servito più di tanto, almeno ci avevo provato, no? No. In realtà queste erano scuse, non lo facevo per la buona azione quotidiana, lo facevo senza un motivo. Allora, però, non mi feci troppe domande. E tutto sommato probabilmente è stato solo un bene.
-Ti senti male?- continuai.
Lui non rispose. Rimase fermo, e seguì un attimo di silenzio durante il quale decisi di andarmene. È che avevo freddo e volevo andare a casa. E a Londra a nessuno importa di nessuno, perché io sarei dovuta essere diversa? Perché...forse lo ero. Dopo aver fatto qualche passo mi fermai a pensare, poi mi girai nuovamente verso il ragazzo, che intanto si era messo a sedere, ma si copriva ancora la faccia con le mani. Erano completamente ricoperte da tatuaggi. Pur non avendolo ancora visto in faccia sembrava giovane, poco più grande di me forse, e mi chiesi cosa stesse facendo a quell'ora in quel posto. Mi avvicinai di nuovo, e in quel momento spostò le mani dal viso, lasciando scoperto un volto tanto bello quanto sofferente. Aveva dei profondi occhi castani contornati da occhiaie molto evidenti, segno probabilmente di poche ore di sonno in troppe notti. Le labbra erano carnose e quasi incolore, e aveva un labret nell'angolo destro della bocca. I capelli lunghi fin sopra le spalle, lisci e scuri erano scompigliati. E sembrava non farsi la barba da giorni. Indossava solo una felpa e un paio di jeans, e a guardarlo mi vennero i brividi. Non sentiva freddo? Anche sul collo aveva dei tatuaggi, tra cui una rosa molto grande, con un teschio al posto del bocciolo. Il suo aspetto era malandato, triste, i suoi occhi sembravano vuoti. In quel momento non sapevo cosa fare, mi stava fissando e, a essere sincera, avevo un po' paura. Il suo sguardo non era esattamente quello di qualcuno con le migliori intenzioni, ma era magnetico, non riuscivo ad allontanarmi.
-Ti... ti senti male?- balbettai. Lui mi guardò per un istante che mi parve eterno, poi scosse lentamente la testa. La sua bocca si mosse ma io non riuscii a udire alcun suono, dal labiale lessi però "sto bene". Mi si mozzò il fiato, sembrava di parlare con un corpo senza più vita, costretto a rimanere però in questo mondo. Mi guardò intensamente senza sbattere ciglio. Io gli restituii lo sguardo, anche se avevo paura. Piegò la testa di lato con lentezza innaturale, le labbra di poco dischiuse. Poi, con il solito movimento teatrale, si voltò dall'altra parte e iniziò a fissare il vuoto, come se avesse deciso che non ero uno spettacolo particolarmente degno di nota. Feci per andarmene, ma il ragazzo si girò di nuovo e riprese a guardarmi, e ancora dal labiale lessi “aiuto”. Sgranai gli occhi. Era la vita reale? Quel ragazzo aveva un qualcosa di innaturale, qualcosa di sovrumano, qualcosa che solo le persone che hanno raggiunto il fondo e non riescono più a vedere la luce possono avere.
-Aiutarti a far cosa?- sussurrai.
Mi fece cenno di avvicinarmi e io, un po' esitante, lo accontentai. Col dito mi invitò ad avvicinarmi di più, fin quando non trovai il suo viso a pochi centimetri dal mio. Lo osservai, ma lui si spostò per avvicinare le sue labbra al mio orecchio.
-Salvami-
Rimasi un attimo immobile, poi mi spostai e lo guardai, inquietata.
-Salvarti da cosa?- gli chiesi.
Il suo sguardo si fece come impaurito e iniziò a tremare. E nei suoi occhi trovai un pezzo di me. Annuii debolmente e vidi l'ombra di un sorriso farsi spazio sul suo volto. Si alzò e cominciò a camminare, invitandomi a seguirlo. Rimanemmo in silenzio finché non arrivammo sotto a un grande palazzo cadente. Con una spallata non troppo forte aprì il portone, e salimmo otto rampe di scale fino ad arrivare all'ultimo piano che sembrava una soffitta, ma in realtà ospitava un appartamento isolato, che sembrava dimenticato dal mondo. Attaccato al campanello c'era un pezzo di carta rovinato, con su scritto "Oliver Sykes". Avrei voluto chiedergli se era il suo nome, ma non lo feci. Forse era ovvio, o forse avevo semplicemente paura della sua risposta. Dopo che fui entrata chiuse la porta e si diresse verso un corridoio. Non lo seguii. Quel posto mi faceva paura. Era una “casa” molto, molto peggiore della mia. Era buio. Sul pavimento c'era ogni genere di cosa, strati di sporco sopra i mobili, una radio che parlava a vuoto sin da quando eravamo entrati. Vicino a una grande e vecchia tv appoggiata a uno scaffale c'era una scrivania, alla quale mi avvicinai. Era ricoperta da decine di fogli sparsi, scritti, scarabocchiati o accartocciati. Per quanto fosse un brutto posto, quello era quasi uno spettacolo affascinante. Mi avvicinai e sfiorai alcuni fogli. Sembrava che a nessuno importasse niente di loro, tanto che nemmeno c'era la forza di buttarli nella pattumiera. Però ce ne era uno scritto con una bella calligrafia, e senza pensare lo presi e cominciai a leggerlo..

“I was raised in the valley, there was shadows and death, go out alive but with scars I can't forget. This kid back to school, subdued and shy, an orphan and a brother are unseen by most eye. I don't know what it was that made a piece of him die, took a boy to the forest, slaughtered him with a scythe. Stamped on his face, an impression in the dirt. Do you think the silence makes a good man convert? We all have our horrors and our demons to fight, but how can I win, when I'm paralyzed..?”

-Hey!- mi sentii chiamare e di scatto mi voltai.
Lui era lì che mi osservava, e mi resa conto che era la prima volta che parlava sul serio. Lo guardai avvicinarsi a me furioso.
-Che cazzo fai?!- mi urlò spingendomi con violenza, quasi facendomi perdere l'equilibrio.
-Ti ho forse detto che potevi leggerlo?! Ti ho forse detto che potevi farti i cazzi miei?! Leggere i miei fottuti testi?!- urlò ancora, prendendomi e stringendomi le braccia a tal punto da farmi male. Feci una smorfia di dolore e tentai di liberarmi, anche se non con troppa convinzione, avevo paura. Credevo mi avrebbe picchiata, o violentata, e anche se non erano esperienze poi così nuove per me, non mi andava troppo a genio.
Si fermò.
Non lo guardai finché non sentì qualcosa di umido cadere sulla mia mano. Piangeva. Lentamente allentò la presa su di me fino a liberarmi del tutto. Lo guardai mentre piangendo disperatamente si accasciava a terra, portando le ginocchia al petto e nascondendo il viso tra le braccia.
Ma non era di certo il pianto che mi poteva intenerire. Che cazzo, io volevo aiutarlo e lui stava per picchiarmi! Così, approfittando del fatto che era ancora per terra, presi la mia borsa che avevo lasciato sulla scrivania e feci per andarmene. Avevo già aperto la porta quando sentii una voce dietro di me. -Don't go, I can't do this on my own...-
Mi fermai. Lui invece continuò.
-Don't go, I can't do this on my own; save me from the ones that haunt me in the night, I can't live with myself so stay with me tonight..-
-Don't go- mormorai. Erano le parole che avevo letto, don't go. Era come se si fosse spezzato qualcosa dentro di me.
Richiusi la porta, mi voltai e tornai indietro. Come potevo non restare?
-Come ti chiami?- gli chiesi, sedendomi accanto a lui.
-Oliver...-
-Oliver, dimmi cosa ti sta succedendo, perché io non me ne andrò, ma sono spaventata. Dimmi cosa devo aspettarmi ancora, a cosa devo prepararmi...- dissi, sentendo gli occhi bruciarmi.
Lui si avvicinò a me a tal punto che riuscivo a sentire il suo respiro sul mio viso. Rimasi immobile, spaventata da ciò che avrebbe potuto dirmi. Ma non disse nulla. Solamente si chinò verso di me e depose sulle mie labbra un bacio. Quando si staccò rimanemmo qualche secondo a guardarci, E poi ci baciammo di nuovo, e di nuovo. Sentii le sue mani scorrere sui miei fianchi finché non afferrarono la mia maglietta e me la tolsero. Quasi automaticamente feci la stessa cosa con lui, che intanto mi aveva sfilato i pantaloni. Mi spinse verso un divano malmesso, e mi ci fece sdraiare. Mi ricordo che mi sentivo confusa, che quella non mi sembrava la realtà, che era molto peggio della realtà, e che era bellissimo. Passammo circa un'ora a farlo su quel divano come se ci conoscessimo da sempre, come se stessimo insieme da sempre. Quando finimmo rimanemmo per un po' sdraiati, stretti in un abbraccio, un po' per ripararci dal freddo londinese, un po' perché tra le sue braccia mi sentivo protetta, anche se forse non lo ero davvero.
-E tu come ti chiami?- mi chiese.
Abbozzai un sorriso. È vero, non gli avevo ancora detto il mio nome.
-Chelsea-
Lo sentii accennare una risata.
-Hai un bel nome-
-Grazie...- risposi.
-Oliver, per favore, dimmi cosa sta succedendo, perché io mi sento davvero confusa...-
Lui mi guardò per un attimo, poi si tirò a sedere e iniziò a raccontarmi della sua vita, ma soprattutto dei suoi problemi con la droga. Era un cantante, senza una band, senza degli amici, senza un posto dove stare, in pratica senza un cazzo, che cercava di sfondare nel mondo della musica, ma non ci riusciva, che cercava di smettere di drogarsi ma non ci riusciva. L'eroina era la sua unica amica. E si sentiva solo. Si sentiva morire ogni giorno. Perso nel suo mondo, lasciato lì, senza che nessuno se ne curasse. Sarebbe potuto morire e nessuno se ne sarebbe accorto. Passava giornate intere in casa sua a drogarsi, poi la notte usciva da solo, girava per Londra e tornava a casa solo all'alba, dopo essere svenuto da qualche parte. E aveva bisogno di qualcuno. Qualcuno che lo aiutasse, e che volesse stare con lui, qualcuno che lo poteva far sopravvivere. Qualcuno come me, pensava. Ma cos'ero io? Ero come lui, e due cose sbagliate insieme non fanno una cosa giusta.. Ma forse avrei potuto salvarlo, forse avrebbe potuto salvarmi...
Appoggiai la testa sul suo petto e chiusi gli occhi.
-Tell me that you need me cause I love you so much...- sussurrò.
Alzai lo sguardo su di lui.
-Say you'll never leave me cause I need you so much-
  
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