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Autore: Hebi_Grin    29/03/2013    2 recensioni
[UsagixAikawa]
Fanfic sul (molto crack) pairing UsagixAikawa, con una velatissima Lime (tanto velata da non sembrarlo), motivo per cui non metto il rating rosso, tanto è solamente accennata.
Lei parlava, veloce, a voce alta, inarrestabile. Lui neanche la sentiva, appena svegliato dalle sue urla in casa sua. Alle sue orecchie, tutto ciò che arrivava erano una serie di suoni sconnessi, intraducibili, fastidiosi. Eppure sapeva benissimo cosa gli stava dicendo, non aveva bisogno di sentirla. Il motivo era sempre lo stesso: manoscritto, ritardo, rimproveri, una serie di aneddoti sui salti mortali che ha dovuto fare per giustificare il suo ritardo, qualche pasticcino per addolcire tutto.
Genere: Erotico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akihiko Usami, Eri Aikawa
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Salve, innanzitutto! Io sono Grin. Perdono. So che è un Fandom Yaoi, e suppongo che l'Het non vada granché, ma questo pair mi intrigava troppo per non scriverci qualcosa. >.< E cosa ancora più strana, interrompo la mia serie di cinque BoyxBoy di seguito scritte in Fandoms Shounen con una Het, in un fandom Yaoi. Forse mi serve uno psicologo. E anche uno bravo, UGH.

Spero di non essere andata OOC, l'espediente narrativo che ho usato mi sembrava il migliore per mantenere l'ICness dei pg, ma non si sa mai. Ovviamente, non esitate a dirmi che mi sbaglio, o se ci sono errori, o qualunque altra cosa. Potrebbe essermene sfuggito qualcuno. Non son stata l'unica a leggerla (ho chiesto consulto a BeaLovesOscarinobello, che ringrazio ovviamente per il velocissimo betaggio nato dall'espressione dei miei dubbi su questa OS su Facebook).



Grazie e buona lettura! 

 


Daydream

 

«Usami-sensei, ti ho portato dei bigné alla crema!»

Una squillante voce femminile risuonava nell’ampia casa dello scrittore, il rumore dei tacchi su cui compiva i suoi passi, lenti e cadenzati, come il ticchettio di un orologio, accompagnavano il suono di essa. L’esile figura femminile si avviava verso la stanza dell’uomo, mentre rimetteva nella borsetta il proprio mazzo di chiavi, con cui aveva aperto la porta.

«Usami-sensei!» lo chiamò ancora lei a voce alta, aprendo con noncuranza la porta della camera di lui.

Una scena a lei ben nota si rivelava ora di fronte agli occhi della donna. Lui, in quella camera buia e chiusa, sdraiato a pancia in giù sul suo letto, vestito, avvinghiato al suo pupazzo. Dormendo.

No, ora non dormiva più. Aveva aperto un occhio, svegliato dalle urla di lei. Ed era furente, era evidente dallo sguardo bieco che le rivolgeva, ma lei non se ne curava.

«Usami-sensei, ti ho portato dei dolci, e poi volevo parlarti del manoscritto, sei nuovamente in ritardo!».

Lei parlava, veloce, a voce alta, inarrestabile. Lui neanche la sentiva, appena svegliato dalle sue urla in casa sua. Alle sue orecchie, tutto ciò che arrivava erano una serie di suoni sconnessi, intraducibili, fastidiosi.  Eppure sapeva benissimo cosa gli stava dicendo, non aveva bisogno di sentirla. Il motivo era sempre lo stesso: manoscritto, ritardo, rimproveri, una serie di aneddoti sui salti mortali che ha dovuto fare per giustificare il suo ritardo, qualche pasticcino per addolcire tutto.

Almeno quando mangiava quelli stava zitta. Sempre che non fosse a dieta, allora lei avrebbe continuato a parlare per chissà quanto ancora, senza sosta.

Lui si alzò su un gomito e stropicciò un occhio.

«Sì, sì. Lo so.» disse svogliatamente, biascicando lievemente le parole nel sonno. «L’ho quasi finito». Rispose automaticamente, senza pensare, senza badare al fatto che non fosse vero. Non aveva “quasi” finito, per nulla.

«Bene» esclamò lei con un largo sorriso «Perché non mi allontanerò da casa tua finché non avrai finito!».

Ogni volta la stessa storia. Dopo i rimproveri e prima dei pasticcini, prima che lei lo lasciasse, finalmente, in pace.

D’altronde, già alcune volte gli aveva proposto ciò che aveva poi usato come materiale per i suoi racconti.

La sua Musa?

Scosse la testa, inorridito al solo pensiero.

“Ma che diamine mi salta in mente?”

«Okay, okay, tra poco mi metto a lavoro» disse lui prendendo una sigaretta dal pacchetto ormai semivuoto, accendendola e aspirando il fumo, per poi buttarlo fuori, assieme a un sospiro.

Osservato, ecco come si sentiva. Quella donna riusciva a farlo sentire terribilmente a disagio, era l’unico essere che potesse incutergli un – seppur vago – timore. E in effetti, era ciò che lei stava facendo, gli osservava la guancia, su cui ancora era ben evidente il segno del cuscino, per poi passare alla camicia col colletto lievemente storto e sgualcito a causa della posizione in cui si era addormentato, la cravatta allentata per evitare di strozzarsi nel sonno. Perché non se la togliesse semplicemente, poi, non lo sapeva nemmeno lui. Lo osservava sforzando gli occhi, a causa del buio della stanza. Forse neanche vedeva davvero tutti quei dettagli, ma – poteva starne certo – lo sapeva. Era sempre così, in fondo.

«Che c’è?» le chiese dopo un altro tiro, spinto in una conversazione che mai avrebbe voluto condurre dallo sguardo inquisitorio di lei.

«Non ti prendi abbastanza cura di te stesso, Usami-sensei!»

Sogghignò.

«È per questo che hai le chiavi di casa, no?»

«Non è questo il punto, non sei un ragazzino!»

Il sopracciglio di lui si inarcò all’ultima parola, prima di fargli recuperare l’espressione seria e sensuale che lei conosceva bene, quella su cui fantasticava.

«Un ragazzino non scrive ciò che scrivo io».

Colpita e affondata. Tra un tiro e l’altro si godeva trionfante l’espressione di lei che – per una volta – non sapeva che rispondere. O meglio, non rispondeva, perché era certo che gran parte delle volte che parlava non sapeva nemmeno lei ciò che dicesse, tanto sostanzioso era il fiume di parole con cui lo investiva, ogni singola volta.

La sola donna – il solo essere vivente – capace di metterlo a disagio, e di fargli venire un tremendo mal di testa con quella che sarebbe dovuta essere la sua arma.

Ma stavolta, finalmente, aveva da lei il silenzio.

«Non è questo il punto, Usami-sensei!»

Ecco finito il silenzio. Ma le sue parole, le sue argomentazioni, stavolta erano prive di forza, come se fosse rimasta distratta, incantata, da qualcos’altro.

Lui?

Per la seconda volta nel giro di pochi minuti, un altro brivido percorse la sua schiena. Fortunatamente, lei pareva non essersene accorta, grazie anche alla penombra nella stanza.

«Hai portato anche del caffè?» le chiese allora, dirigendosi verso il salotto, abbandonando la camera buia e dal letto che sembrava essere ormai perennemente sfatto, tanto frequenti erano i suoi riposini, lasciando una scia di fumo dietro di sé.

«Ovviamente, ho pensato che ti avrebbe aiut–»

Stavolta, si era bloccata, al cenno della mano di lui, che le indicava di calmarsi, di lasciarlo pensare, mentre con l’altra mano, con la sigaretta tra l’indice e il medio, si massaggiava le tempie nel tentativo di fermare sul nascere quel mal di testa, che lo sapeva, sarebbe durato fino a notte, così come il malumore.

Ed era ovvio che non l’avesse fatto per lui, ma per non rischiare che quel disagio ritardasse ulteriormente il lavoro.

E poi, non sarebbe stato necessario, era chiaro.

“Dannata calcolatrice…”. Lo sapeva bene, aveva portato il caffè per farlo svegliare, sapendo di trovarlo in quelle condizioni.

Lei ora, come se fosse padrona di quell’appartamento, dopo aver aperto la porta, gli porgeva un bicchiere di carta con un coperchio di plastica semitrasparente con del caffè fumante dentro, che aveva appannato completamente la copertura.

Tolsero entrambi il coperchio, e lui cominciò a bere, mentre lei posò il bicchiere sul tavolino e gli avvicinava il vassoio coi dolci.

Le sue mani grandi che si posavano sul suo viso, le sue labbra che si avvicinavano e si posavano senza delicatezza sulle sue. Irruento, come si sarebbe sempre aspettata.

Lui la baciava, lentamente ma con forza e passione. Le sue mani calde scivolavano lentamente sul suo collo, per poi posarsi sulle spalle, mentre la faceva indietreggiare fino alla sua camera.

Un passo dopo l’altro, la privava dei suoi vestiti uno ad uno, mentre le mani di lei gli scioglievano il nodo della cravatta già allentata, per poi sbottonargli, lentamente, la camicia azzurra, permettendole finalmente di toccargli il torace e gli addominali, cingergli la vita, e sfiorarli con le sue piccole mani la schiena, prima di fargli scivolare la camicia lungo il corpo, lasciandola cadere sul pavimento, prima di esser posata sotto di lui sulle lenzuola già sfatte, senza che smettesse di baciarla.

Le labbra di lui scivolavano sul suo collo, poi, lentamente, facendole sentire sulla pelle il suo caldo respiro.

La passione li aveva travolti, come i protagonisti dei romanzi di lui, ma stavolta era il suo nome che lui sussurrava, con voce roca e ansante, al suo orecchio, tra una spinta e l’altra.

 

«Aikawa-san…?»

La sua voce arrivava lontana al suo orecchio.

«Aikawa-san!»

Lei si destò, all’improvviso, sgranando gli occhi.

«Hai già messo sette zollette di zucchero».

Si guardò la mano, rendendosi conto che era stato solo un’illusione. Non era tra le lenzuola sfatte della sua camera, non le aveva tolto i vestiti, non l’aveva baciata.

Era solo stata l’ennesima delle sue fantasie su di lui. Eppure, quelle sensazioni le erano sembrate così vere.

«Usami-sensei, dopo che avrai finito questo romanzo, ho un’idea per un altro… Ma ora a lavoro».

Disse lei con un lieve sorriso malizioso, mentre sorseggiava quel – ormai dolcissimo e imbevibile – caffè.

 

 

 

   
 
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