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Autore: Gaia Bessie    29/03/2013    2 recensioni
Le urla sono tutte uguali: hanno tutte una base comune, un fremito segreto che scuote il cuore e sale fino alle corde vocali. Alcune sono turbate da una nota acuta e sgradevole, altre rese ridicole da un suono raschiante di una voce stentorea, altre ancora sono le urla mute di chi non può parlare. Ma, tolti questi orpelli inutili, la base è sempre identica: una paura prorompente che spinge la voce a uscire, straziandoci l’anima.
(...)Eri chino sul corpo di Annie ed eri sporco del suo sangue, in bocca il suo sapore e sotto le mani quello scempio che non guardavi mai.
Le avevi chiuso gli occhi perché, ne eri certo, non saresti riuscito a sopportare quella vista.
(...)Erano neri, gli occhi di Annie, ma tu non te lo ricordi.
Prima classificata al contest "Un'introspezione caduta nell'oblio" indetto da Save_Me sul forum di Efp
[Vincitrice dell'oscar per il miglior film Drammatico al contest "Anche noi abbiamo fatto la nostra parte" indetto da MedusaNoir sul forum di Efp]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Fenrir Greyback, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Attenzione: Presenza di tematiche delicate quali antropofagia e omicidio. Leggeri accenni di malattie mentali non meglio precisate. Lettore avvisato.


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Le urla sono tutte uguali: hanno tutte una base comune, un fremito segreto che scuote il cuore e sale fino alle corde vocali. Alcune sono turbate da una nota acuta e sgradevole, altre rese ridicole da un suono raschiante di una voce stentorea, altre ancora sono le urla mute di chi non può parlare. Ma, tolti questi orpelli inutili, la base è sempre identica: una paura prorompente che spinge la voce a uscire, straziandoci l’anima.
Di urla, ne hai sentite tante: tutte diverse esteriormente, uguali in profondità. Tutte rimandano alla paura.
Ormai la conosci così bene che non devi nemmeno nominarla, per riconoscerla, ne sei un esperto conoscitore e intimo amico. L’hai vista nascere sul fondo di occhi sempre diversi, sbocciare su labbra sottili come le pieghe nei fogli, esplodere nelle tue orecchie sempre uguali. Ogni tanto, hai avuto paura di quell’emozione.
 La maggior parte delle volte hai urlato anche tu, con gli occhi pieni di una luce folle.
A mente lucida, ti chiedi cos’abbiano visto in te le persone, prima di urlare. E ogni volta, nel buio ostinato della tua stanza, ti sei spogliato dei tuoi veli e ti sei accorto che il tuo corpo rispecchiava la medesima oscurità della stanza: ti confondevi con le linee sfumate e tristi della carta da parati grigia e anonima, somigliante a te per certi versi, macchiata di caffè proprio nello spazio dove stava il tavolo. È apparsa improvvisamente, quella macchia, da un giorno all’altro. Quando, non te lo ricordi.
 Sono pochi i momenti in cui hai una reale concezione del tempo che passa o degli avvenimenti che accadono o delle urla che minacciano di esploderti in testa.
Non ti accorgi mai di niente, sei come chiuso in una bolla asettica e silenziosa. Un posto dove tutte le urla sono uguali, sempre e comunque: orpelli diversi e base uguale.
Un suono costante, una presenza continua, inquietante. Forse non lo sai, Fenrir, ma sei sempre tu a provocarle.
Anche se adesso sono scolorite nella noia e nell’abitudine, lasciando solo una patina di divertimento a farti ricordare cosa le provocava, fino a confondersi con la tua stessa oscurità.
Cosa ti rimane, adesso? Non rispondi mai “niente” perché una  risposta più bugiarda di questa, non potresti concepirla. Così guardi le tue mani e fingi di non notare il sangue secco sotto le unghia e ti concentri sulla storia che hai inciso sulla pelle, la tua storia. Scritta con sangue e inchiostro nero affinché non si cancelli, sangue e inchiostro per non dimenticare. Ma chi potrebbe mai dimenticare, dopo aver capito?
Di certo, non tu.
 
La prima volta è nata da un impulso stupido e umano, dal desiderio di diventare un tutt’uno con una persona che amavi davvero. Hai detto così, mentendo, quando ti avevano chiesto come tutto è cominciato. E tutti ti guardavano e vedevano solo i tuoi occhi, del giallo di un folle, un castano girasole che era sbiadito nel tempo. E dentro di te sapevi di mentire: la prima volta non l’avevi fatto per amore.
Avevi guardato Annie, per la prima volta dopo tanto tempo, e ti eri detto che dovevi farlo. Non perché l’amavi, non perché volevi averla dentro: perché volevi sapere com’era, in realtà, uccidere una donna. E sapere che sapore ha il sangue di un altro, sentire la pelle che si frantuma contro canini affilati. Ma non l’hai detto, Fenrir, non ne hai avuto la forza.
Perché sapevi, nel profondo del tuo cuore bugiardo, che non potevi dirlo. Ti danno del pazzo, dello psicopatico, del malato. E forse lo sei, ma non puoi escludere la premeditazione nelle tue azioni. Volevi farlo. E non era un impulso momentaneo e irrefrenabile, lo sai.
L’hai fatto ancora, lo vedi bene: senti ancora le urla di quel ragazzo, il proprietario di quel sangue che ti scorre addosso. Che ti macchia, irrimediabilmente.
L’hai sentita urlare, la povera Annie, l’hai vista piangere. Ed era illuminata dal patetico baluginio della luna e non sapeva cosa stava succedendo. Ma tu, tu certamente lo sapevi. E hai sorriso tutto il tempo, hai sorriso anche le volte successive. Sorridevi sempre, al suono delle urla, suono che poi finiva col gorgoglio del sangue.
Adesso, però, non sorridi più. Adesso ridi, semplicemente.
Ridi perché non hai altro.
 
Di Annie, non ricordi poi molto: è sbiadita anche lei, lei che ti sembrava la donna perfetta, l’unica. Di lei, non ti rimangono che gli ultimi riverberi di ciò che gelosamente avevi promesso di conservare. Ma ogni tanto, quando sei solo e ti fissi le mani, leggendo le ultime parole incise sotto la pelle, ti chiedi perché. Perché proprio lei, di cui ricordi il vago celeste degli occhi e i capelli fra il rosso e il biondo.
Ogni tanto, la senti ancora mentre ti urla di lasciarla andare. Cos’è che ti aveva detto, prima, Fenrir?
Aspetto un bambino.
E tu l’hai guardata e hai pensato che non potevi sopportarlo, un bambino, un ibrido che ti somigliava. L’hai spaventata col tuo sorriso, ricordi? Sai cosa le hai detto?
Mi dispiace.
Hai guardato la luna, meravigliosamente piena e ti sei avventato su di lei, senza pietà, senza pensare. No, in verità un pensiero l’hai avuto.
Ti piaceva il sapore della carne umana. E il suono delle urla.
Adesso ci pensi più che mai. La cosa buffa – ti fa ridere, vero? Fa maledettamente ridere – è che Annie è la persona che ricordi meglio. Quei pochi dettagli che ti sono rimasti sono troppi, se confrontati al resto.
Ma sono le urla che ti uccidono, sempre: hanno tutte lo stesso suono. Quando dormi, le senti. Un grido comune scuote i tuoi nervi già tesi.
E tu ti unisci a loro, regolarmente.
 
Col tempo, lo sai bene, hai ucciso così tante persone che ormai la tua memoria tende a tentennare sul numero preciso. La maggior parte, questo però lo ricordi, erano uomini.
Le donne le evitavi.
Voltavi la testa e assaporavi altra carne, ma non guardavi le donne. Non sapevi il perché, ma provavi una crescente sensazione di disagio davanti alle loro grida.
Assomigliavano tutte ad Annie, nella tua testa.
Ogni tanto, ti sorprendevi perfino a chiederti se l’odore della morte avrebbe mai lasciato il tuo fiato.
E se tutte quelle grida sarebbero mai sbiadite insieme a tutti i tuoi ricordi.
 

***

 
Qualche volta, lo ricordi: è come un intricato incubo da cui non riesci a uscire. Ti incanta e tormenta regolarmente e tu non capisci mai come fare per uscirne.
Avevi sei anni, questo lo ricordi: eri un paffuto e alquanto scontroso bambino.
Amavi uscire di notte. Ti piaceva quel silenzio prolungato, interrotto solo dai rumori ovattati del sonno.
La luna t’incantava con quella luce biancastra, che sfumava i tratti delle persone.
A volte, ti addormentavi nel bosco vicino casa, lontano dai tuoi genitori, e ti svegliavi che il sole doveva ancora sorgere. Allora, tornavi a casa.
Poi, durante il plenilunio, accadde: non tornasti più a casa.
 
Scuoti la testa, spalanchi gli occhi: castano screziato di giallo, un tempo. Adesso è solo il giallo di quei girasoli slavati che crescevano sulla collina della casa dei tuoi genitori
Babbani.
Non li ricordi nemmeno più. Sono passate così tante lune dalla loro morte che ormai i loro volti sono confusi nella massa indistinta dei tuoi ricordi.
Ti vergogni di loro.
E pensi che, come pochi altri, loro ti torneranno sempre in mente. E non perché li hai uccisi e lasciati nel bosco, sotto un cumolo di terra.
Li ricorderai sempre perché, lo sai, li hai uccisi per primi.
 
Di urla, ne hai udite tante e ti sei sempre concentrato su quella base comune che le caratterizza. Adesso, le urla che spezzano il silenzio notturno sono le tue e tu non capisci perché ti risultano così estranee. Perché credi di non averle mai sentite.
Eppure, nelle urla, ritrovi parte di te. Le tue grida non ti piacciono.
Il perché, però, non lo sai: le urla dovrebbero essere tutte uguali, se provate di quegli orpelli inutili che conducono all’identità del proprietario della voce.
Le tue urla partono dal nulla e finiscono dove c’era Annie.
 
Basta, Fenrir.
Smettila di tormentarti con questi pensieri, non ti serviranno a nulla.
Non guardarti attorno con quello sguardo, sai che a lei non piace.
A te, non piace il suo sguardo: duro, dello stesso colore del carbone, in linea con quel sorriso di sangue che ti rivolge.
Bellatrix.
Ti graffia, ride di te e tu continui a chiederti perché continui a vedere Annie in quel sorriso.
Ti chiedi perché urli, in silenzio, ogni volta.
 
Ti hanno dato del pazzo parecchie volte. Guardavano i tuoi occhi e vedevano il giallo dei folli e tu non li contraddicevi mai.
Avevano ragione, Fenrir? Sei davvero pazzo?
 
Guardi gli occhi neri di Bellatrix e vedi riflesso il tuo dolore. E le urla ti scuotono, come sempre, stranamente diverse dalle altre.
 

***

 
Capisci sempre quando le tue paure sono semplici incubi.
Inizia tutto quando chiudi gli occhi e continui a vedere uno sguardo azzurrognolo che non ti lascia mai.
Non capisci mai se sei tu ad urlare.
 
Respiri, Fenrir, ascolti il tuo cuore che prende velocità nel battito. Muori, Fenrir, anche se pensi di non essere più vivo da parecchio tempo.
– Senso di colpa, Greyback? – ride Bellatrix, irriverente.
Tu sospiri e ti chiedi perché. Perché continui a vedere la tua vittima negli occhi degli altri.
– No – grugnisci, irritato.
Non si prova pena per il cibo.
 
Ti svegli che ricordi poco e niente, con la sensazione di aver fatto qualcosa di tremendamente sbagliato.
E pronunci qualcosa che non senti e il minuto dopo hai già dimenticato. Una sola parola, Fenrir.
La dimentichi sempre.
Scusa.
Verso chi ti senti in colpa, Fenrir?
 
– La chiamano “Selezione naturale”, Greyback – sussurra Bellatrix, divertita. – Noi viviamo e  la feccia muore. O diventa cibo, nel tuo caso.
Perché la odi, Fenrir?
 
I tuoi incubi non finiscono mai con il risveglio, lo sai.
 

***

 
Hai provato a spiegarti il perché, Fenrir. Com’hai fatto a finire così, ancora nel fiore dell’età, ancora un ragazzino.
Perché l’hai uccisa, Fenrir?
 
È stata Bellatrix a trovarti, questo lo ricordi. Eri chino sul corpo di Annie ed eri sporco del suo sangue, in bocca il suo sapore e sotto le mani quello scempio che non guardavi mai.
Le avevi chiuso gli occhi perché, ne eri certo, non saresti riuscito a sopportare quella vista.
 
Eppure, continuavi.
Affondavi le mani e le zanne in quel corpo e mordevi brandelli di carne e inghiottivi quel sangue, come sotto Imperius.
Aveva un buon sapore.
 
Bellatrix ti trovò che affondavi le mani nelle interiora della ragazza – era quello, Annie: così giovane che per fattezze ricordava una bambina, – e la bocca piena di sangue rossastro.
Rise, davanti a quel grottesco spettacolo.
Per un attimo, e ti costa ammetterlo, hai valutato la possibilità di uccidere anche lei.
 
Ricordi che non hai mai smesso di assaporare la carne umana. Per un po’, hai avuto delle riserve con le donne: tutte somigliavano ad Annie.
Ma adesso?
Ti guardi allo specchio e non ti vedi, ti cerchi al buio e non ci sei. Urli e non ti senti.
Ti chiedi cosa sei e non lo sai.
 

***

 
Sei devoto al Signore Oscuro: lui la comprende, a tua brama di sangue. Ti permette di vivere in un mondo che non ammette quelli come te.
Comprende la tua oscurità, Fenrir.
 
Tu, quell’oscurità, non la vedi mai.
 
Credi solo nel tuo istinto, lui ti guida, ti sfida a togliere la vita a giovani innocenti. Come lo era lei, d’altronde.
 
Così, cedi ai tuoi istinti e mangi. Ascolti il gorgoglio del sangue che ti scende nello stomaco e sorridi soddisfatto.
Lentamente, lasci che la morte si annidi in un angolo buio della tua anima.
E mangi, Fenrir, mangi e chiudi gli occhi delle donne. Per non vedere quell’azzurro slavato che poteva essere azzurro o verde, ma non ricordi.
 
Non ricordi nulla, sei fedele solo alla fame che ti torce lo stomaco. Alla voglia di carne umana.
Al brivido che ti provoca udire quelle urla infinite, tutte uguali.
Il resto, così credi, non ti serve.
 
Erano neri, gli occhi di Annie, ma tu non te lo ricordi.
 

***

 
Le urla sono tutte uguali: sotto l’ampia varietà di voci e terrori giace una stessa base e tu la odi, perché continui a trovarla dentro le grida che ti tormentano, la notte.
Ma ci sono delle urla – e questo non lo dimenticherai mai, proprio non ci riusciresti – capaci di straziarti l’anima.
Il piccolo Potter ha sconfitto il Signore Oscuro.
 
Il terrore è sempre lo stesso, filtrato dalle corde vocali e rimandato all’esterno. Ma tu, Fenrir, questo non lo sai.
Guardi Bellatrix con aria vacua e non capisci perché.
Il Signore Oscuro non può essere morto.
 
Ti tirano via e non capisci senti solo Avery che vi Smaterializza con un “Pop”.
Ma non ti basta: pensi, urli, spalanchi gli occhi.
Dove sono tutti?
 
Senti con chiarezza le urla e gli incantesimi e la voglia di uccidere e tutto quello che ti stai tenendo dentro. Così, è semplice: corri, attacchi, mordi.
Ignori quella crescente sensazione di disagio, volti le spalle all’azzurro sbiadito nella tua memoria.
Annie.
Scuoti la testa e colpisci. Ingoi quel sangue che cola giù dal viso.
Ti trascinano via e tu non te ne accorgi.
 
Aspetti. Hai capito che è la cosa migliore da fare.
Così, siedi in un angolo e attendi che la ruota della fortuna di porti in alto.
Urli.
Ma non ti senti mai.
 
È una sola frase che non senti, una richiesta che dimentichi prima ancora di riuscire a pensarla. Ma lo dici e magari ci speri davvero.
Portatemi via da qui.
 
Via da quest’incubo.
 
Stringi la mano di Avery e lasci che ti trascini via. E urli, ma nessuno ti sente, in quella forzata confusione delle strade di Notturn Alley.
E le urla, le urla sono tutte uguali.



Spiegazioni necessarie: Penso che Greyback non sia totalmente sano di mente, ipotesi che ho tentato di suggerire con l'avanzare del racconto. Per cui, il dilemma sugli occhi di Annie (OC) non è una mia dimenticanza.
Bellatrix/Greyback è un Pairing che non shipperò mai. 
Per chiarimenti, lo sportello a destra è aperto :)
Bess
   
 
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