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Autore: Eternal_Blizzard    30/03/2013    2 recensioni
[Questa fan fiction partecipa al contest "Parallel times" indetto da Flame_Fairy e _Nyarlathotep_.]
Erano già una cinquantina d’ore che le bombe piovevano su diverse città tedesche e la loro non faceva eccezione. Frastuono, frastuono ovunque. Il rumore era talmente forte che le loro teste sembravano dover esplodere da un momento all’altro mentre la terra sotto di loro tremava a causa degli schianti e delle esplosioni.
Genere: Angst, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Axel/Shuuya, Yuuka Gouenji/Julia Blaze
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Eternal_Blizzard
Titolo:Quando ti sveglierai, la guerra sarà finita
Prompt (se c'è): /
Epoca:  Seconda Guerra Mondiale
Parole: 4000
Pairing: Nessuna
Note (potete scriverle anche alla fine): UN PARTO. Più di tante altre, meno di altre. Comunque, mi ero detta che non avrei mai scritto su una guerra mondiale, e invece… Ho fatto 4000 parole tonde tonde però <3 Btw, non so, non mi convince. Per carità, non sto dicendo che fa schifo, ma… boh, ha poca sostanza, non riesco a mettere i sentimenti, io. Almeno, a me non ne trasmetto… magari a voi sì, lo spero! Comunque, avevo avuto tante altre idee, ma non sarei riuscita a svilupparle, quindi, ripensando al racconto che ho messo del sale che mi aveva raccontato mia nonna, mi son fatta coraggio e ho scritto… ‘sta cosa. Non ho voluto parlare della persecuzione degli ebrei perché a mio avviso se n’è parlato in ogni dove fin troppo, quindi ho provato a descrivere uno… “slice of life” di alcune persone conivolte la guerra da “non emarginati”. Anzi, il padre dei due fratelli ha anche un bel lavoro, anche se è per un uomo non proprio raccomandabile. Eeeee niente. Ho provato a mostrare –anche se 4000 parole pensavo fossero… di più – come una famiglia anche straniera, se al servizio di chi comanda può avere molti più privilegi di quelle “native” (cibo, vestiti, giocattoli), ma di come poi la guerra non risparmi nessuno e quindi anche i suddetti privilegiati vengano privati di tutto. Ho fatto ricerche sui bombardamenti in Germania e… niente, ho provato a immedesimarmi. La parte finale è vera: nel senso, i tedeschi avevano costruito dei bunker per la popolazione per proteggerli dalle bombe, ma dopo un po’ hanno deciso di metterli a disposizione solo della loro gente, non facendo più entrare nessuno straniero anche s dei paesi alleati. Basta. Ora sono le quattro meno venti di notte, direi che posso andare. Che dire, spero vi piaccia e… grazie di leggere xD Spero vi venga voglia di lasciare un commento (A proposito, ho tanto altro da pubblicare ma mi ero ripromessa che l’avrei fatto solo dopo aver pubblicato capitoli delle mie long, che posterò a breve. Questa fa eccezione perché essendo per un contest aveva una scadenza)
PS. Sono in Germania perché come ricorderete, il padre voleva mandare Gouenji a studiare lì, so…
PPS. As usual, tiolo orribile
PPPS. OMG è la prima volt ache scrivo di Yuuka e Shuuya- spero sia usicta una roba decente e un minimo IC…
 
La loro non era mai stata una di quelle famiglie giapponesi doc, che passava l’inverno intorno al kotatsu, indossava kimono decorati per le cerimonie importanti o che celebrava feste tipiche come il Tanabata; per qualche motivo, avevano sempre mantenuto uno stile vita piuttosto occidentale e questo gli aveva permesso di ambientarsi subito in Germania ed abituarsi in pochissimo tempo alla quotidianità tedesca, in fondo non così diversa da quella che conducevano nel loro paese natale.
Avevano deciso di trasferirsi lì in seguito alla prematura dipartita della madre e alla proposta di un proficuo lavoro al servizio diretto del fuhrer: il padre, il capofamiglia, era un prestigioso medico conosciuto non solo in Giappone, ma in tutta l’Asia, le Americhe e nella stessa Europa e perciò il portavoce del nazismo lo voleva al suo fianco per ogni evenienza. Un’offerta di lavoro come quella ricevuta da parte degli uomini di Hitler non gli sarebbe mai più capitata ed avendo due figli al carico sarebbe stato da sciocchi rifiutare, soprattutto vista la crisi dovuta alla guerra in cui versava la maggior parte dei paesi. In più, a sua detta, far carriera all’estero, al servizio di uomini così importanti, non poteva che essere positivo.
Non sembravano essere così d’accordo i due figli, Shuuya e Yuuka, ma avendo rispettivamente dodici e quasi sette anni, non avevano diritto di mettere voce in capitolo. Probabilmente, la bambina non poteva nemmeno capire davvero quanto grave fosse la situazione intorno a lei e il fratello avrebbe fatto di tutto perché ciò non accadesse, proteggendola fino a che finalmente non fosse giunta la pace. Yuuka, però, non era una bambina stupida e non ci volle molto perché comprendesse quanto fosse tremenda la guerra.
«Fratellone… Questo è un brutto periodo, per la storia, vero?» domandò appoggiando la testa sul cuscino. Nonostante la sua voce fosse estremamente flebile e delicata, quella semplice e quasi innocua domanda trapanò i timpani di Shuuya, che quasi fece cadere il libro che teneva in mano a causa del sussulto avuto.
«Perché dici questo, Yuuka?» le chiese con tono delicato, voltandosi per mostrarle il sorriso più dolce che potesse.  La piccola socchiuse gli occhi ed affondò leggermente faccia e mani nel guanciale, cercando le parole giuste da dire. Boccheggiò qualche secondo e poi alzò bene lo sguardo, così da puntare i suoi grandi occhi neri in quelli di Shuuya, così simili ai suoi.
«Ecco, è che…» strinse la fodera a fiori che le piaceva tanto, distogliendo nuovamente lo sguardo, insicura. «La mia classe si sta svuotando sempre di più» sussurrò. «Ormai siamo rimasti in sette di ventiquattro che eravamo… e non solo, stanno diminuendo gli alunni in tutta la scuola» spiegò, stringendo le labbra. «Molti se ne sono andati perché hanno detto che i loro genitori non riescono a pagare la retta scolastica. A dire il vero, ho sentito dire da una maestra che è così quasi per tutti… ma allora perché noi possiamo ancora frequentarla?» gli chiese con voce atona, guardando un punto indistinto del pavimento. Il più grande si alzò e scosse la testa, senza perdere quel sorriso che voleva rassicurarla.
«Noi possiamo perché siamo fortunati, perché siamo solo due» le disse, alzando due dita della mano. «I tuoi compagni hanno dovuto lasciare scuola solo perché alcune famiglie sono troppo numerose. L’hai visto, no? Ce ne sono alcune con anche nove figli e quindi non riescono a permettere a tutti lo stesso livello d’istruzione» risolse. «Tutto qui, non devi preoccuparti, capito?»
«Però papà ci farebbe andare a scuola anche se fossimo tanti, no? I soldi li abbiamo, allora perché le altre famiglie no? Cos’abbiamo noi di speciale?» chiese ancora e il fratello mosse un passo verso di lei.
«Dipende dai lavori che fanno gli adulti, non sono tutti uguali… papà lavora per una persona importante, gli altri no. È probabile che i compagni che sono rimasti nella tua scuola abbiano i genitori che fanno un lavoro come nostro padre. Tutto qui. vedrai che presto torneranno anche loro» tentò di rassicurarla, ma la bambina si tirò a sedere di scatto, con gli occhi lucidi.
«Ma Alberich è figlio unico! E anche Abel! Allora com’è possibile che non abbiano abbastanza soldi?! E poi alcuni hanno detto che sono addirittura… addirittura…» non riuscì più a trattenere le lacrime. Sentendo voci dei passanti per le strade, di alcuni maestri della scuola o ancora di altri suoi compagni, aveva intuito che sempre più persone stavano morendo, che fosse per la fame o, peggio, per alcune persecuzioni etniche di cui non capiva bene la ragione. Shuuya scattò verso di lei, avvolgendola in un abbraccio che lei, tremante, ricambiò. «Ho sentito dal fratello che Diotima è morta perché non riuscivano a mangiare…» singhiozzò stringendosi di più al fratello, che socchiuse gli occhi. Cosa poteva dirle? Come poteva spiegarle il perché della morte della sua amichetta, dei suoi compagni di classe, della povertà che incombeva su quasi ogni famiglia, ormai? Lui conosceva il fratello di Diotima, era un suo compagno di classe e sapeva che la sua famiglia versava in condizioni critiche già da un po’. Si era informato, era così per fin troppe famiglie: smettevano di mandare i bambini a scuola perché i pochi soldi che riuscivano a guadagnare dovevano spenderli in cibo, ma spesso non bastavano a permettersi nemmeno quello. Bambini o adulti che fossero, per la mancanza di nutrimento deperivano, si ammalavano, non riuscivano più ad andare a lavorare per quei pochi, miseri spiccioli che non gli permettevano nemmeno di arrivare a fine giornata. E alla fine, morivano.
Loro due, invece, avevano ancora una vita apparentemente normale, se non fosse per la gravità della situazione che li circondava: non solo potevano ancora garantirsi un’istruzione, ma ogni giorno avevano pane in tavola, patate e cibi di diverso genere. Talvolta riuscivano anche a comprare a Yuuka un peluche, un giocattolo o un pallone per Shuuya. Tutto perché loro padre aveva un buon lavoro. Un lavoro alle dirette dipendenze di Hitler. L’uomo che aveva portato la Germania alla guerra. L’uomo per cui le persone avevano iniziato a soffrire tanto.
L’uomo per cui, adesso, Yuuka soffriva.
«Yuuka…» sussurrò, cercando intanto le parole per consolarla e calmarla, ma proprio in quel momento sentirono la porta di casa aprirsi e richiudersi in pochi secondi con un sonoro colpo. Il ragazzo rimase in silenzio, in attesa e la ragazzina bloccò i singhiozzi, spostando appena lo sguardo quel tanto che bastava a vedere la porta della camera da sopra il braccio di suo fratello. Il padre entrò, togliendosi la pesante giacca e mettendone una leggermente più leggera.
«Shuuya, Yuuka, devo riuscire subito, alla cena dovrete pensarci da soli» li informò lanciandogli solo una rapida occhiata e facendo per riuscire. Mosse solo un passo e  poi si voltò, indicando la figlia con un cenno del capo. «Perché piange?» domandò secco. Istintivamente Shuuya l’avvicinò di più a sé e strinse le labbra, indeciso su quali parole utilizzare. Non dovette pensare a lungo, però, perché appena proferito un semplice “perché”, la sua risposta venne immediatamente troncata dall’adulto con un gesto della mano. «Non ho tempo, adesso» disse, frugando nella tasca dei pantaloni ed estraendone delle banconote, che posò indelicatamente sul comò vicino la porta, dalla quale non si era mai spostato. «Non c’è qualche pupazzo che vorrebbe? Appena puoi, vallo a comprare e passa tutto» disse senza guardarlo, uscendo dalla stanza.
Gli occhi neri e sottili del ragazzino si fissarono con disprezzo sui soldi lasciati dall’uomo. Ovvio, per lui era più importante il lavoro. Sapeva che lo faceva anche per garantire a loro due una vita relativamente tranquilla, ma cosa si aspettava? Che Yuuka potesse essere felice perché portava a casa del denaro? Non aveva capito niente.
Loro madre era morta a causa di una malattia anni prima e ne avevano sofferto tutti, chiaramente, ma quella che adesso sentiva di più la sua mancanza era proprio Yuuka. Lui, a causa di quello stramaledetto lavoro, era sempre fuori casa e quindi assente nelle vite dei figli. Shuuya lo riusciva a sopportare, ma per la sorellina era troppo. Adesso, come se non bastasse, perdeva un amico dopo l’altro. E lui davvero pensava che uno stupido pupazzo potesse alleviare il suo dolore, farla sentire meno sola e coccolata? Che idiota.
Eppure, lui sarebbe stato zitto. Non avrebbe inveito contro il padre, non avrebbe fatto gesti avventati, non avrebbe dato a vedere la sua rabbia: tutto per non far preoccupare Yuuka più del dovuto. Per non darle un motivo in più per rinunciare al suo sorriso.
Avrebbe dovuto, ancora, fare finta di nulla.
Allontanò leggermente la sorellina da sé e, con un sorriso, la fece alzare dal letto, prendendola per mano. «Dimmi, c’è qualche peluche che ti piacerebbe avere?» le domandò, prendendo velocemente i soldi e portandola fuori. La piccola scosse la testa, asciugandosi un’ultima lacrima sfuggita dalle sue palpebre. «Allora… magari una bambola?» provò e la piccola non riuscì a trattenere un sorriso che si fece prepotentemente largo sulla sua boccuccia. Annuì dapprima con moderazione, ma poi iniziò a scuotere la testa sempre più veementemente, con gli occhi che le brillavano. «Bene, allora andiamo a prenderla» le sorrise ancora il più grande per poi alzare lo sguardo e tornare serio.
Avrebbe dovuto fare finta di nulla, e l’avrebbe fatto.
 
Era passata una sola settimana da quando Yuuka era scoppiata a piangere per la scoperta della morte di alcuni compagni di classe ed erano già passati due giorni da quando non era più stato permesso ai due Gouenji di mettere piede fuori casa. Erano bastate solo sette giornate a far chiudere praticamente ogni scuola per assenza di alunni e ormai anche di professori, ma ne erano bastati ancor meno perché si arrivasse al terrore puro: bombardamenti.
“Shuuya, fai molta attenzione. Se dovesse degenerare, tu e Yuuka non mettete piede fuori casa a meno che non sia strettamente necessario”. Suo padre l’aveva avvertito con quelle parole usando il suo solito tono apatico. Il figlio non aveva percepito la tensione nella sua voce e, soprattutto, aveva sottovalutato quelle parole così apparentemente banali che il padre gli aveva rivolto, non capendo a cosa potesse riferirsi.
Erano già una cinquantina d’ore che le bombe piovevano su diverse città tedesche e la loro non faceva eccezione. Frastuono, frastuono ovunque. Il rumore era talmente forte che le loro teste sembravano dover esplodere da un momento all’altro mentre la terra sotto di loro tremava a causa degli schianti e delle esplosioni.
Yuuka era accovacciata tremante in un angolo dell’armadio dal quale tutti i vestiti appesi erano caduti per colpa delle vibrazioni e tentava in ogni modo di trattenere le lacrime di paura che, da sotto le palpebre ben serrate, le provocavano un atroce bruciore agli occhi, secondo solo a quello causato dal groppo che aveva in gola. Ad ogni nuovo colpo sobbalzava e stringeva più forte la bambola dai lunghi riccioli d’oro che suo fratello le aveva comprato una settimana prima. «Papà, torna presto…» riusciva solo a dire, nei brevi intervalli di silenzio – o meglio, di rimbombo.
Shuuya, dal canto suo, aspettava in silenzio con la schiena ben aderente al muro vicino alla finestra, così che potesse dare un’occhiata fuori di tanto in tanto quando sentiva le acque calmarsi. Manteneva il respiro più regolare possibile e si sforzava di tenere ferme le gambe, che altrimenti si sarebbero sfogate in un frenetico giacomo-giacomo e poi, probabilmente, avrebbero ceduto. Fosse stato da solo avrebbe agito diversamente, probabilmente, ma siccome c’era sua sorella, lì con lui, doveva mostrarsi coraggioso e difenderla. Doveva rassicurarla, dirle che presto la guerra sarebbe finita e avrebbero potuto condurre nuovamente una vita normale, tranquilla e, soprattutto, pacifica.
Sentì Yuuka lanciare un urletto spaventato quando il proiettile di chissà quale arma da fuoco penetrò il vetro della finestra accanto a Shuuya, frantumandolo e andandosi a conficcare violentemente nella parete opposta, ma lui – nonostante avesse perso un paio di battiti cardiaci – non si mosse di un millimetro. Respirò profondamente più volte per mantenere la calma e poi attese che calasse il silenzio. Passò una mezzora buona, ma finalmente anche l’ultimo eco di rimbombo cessò e con esso i colpi di pistola o fucile che fossero. Il ragazzo si morse il labbro e corse vicino all’armadio, afferrando la sorellina per le spalle.
«Yuuka, le acque si sono calmate, corro a prendere qualcosa da mangiare e torno» le disse, rapido. Quei momenti di tranquillità apparente erano gli unici in cui si poteva uscire per cercare di prendere viveri – se ce n’erano ancora e i negozi non erano andati dl tutto distrutti – e in ogni caso, bisognava provare, per sopravvivere. «Ci metterò un attimo, quindi aspettami qui» le disse, scattando verso la porta, ma venne afferrato e tirato per la mano.
«Non mi lasciare!» quando si voltò a guardarla la vide con gli occhi lucidi, ma ancora asciutti e lo sguardo serio, puntato fisso in quello di lui. «Non ti rallenterò, fammi venire con te!» supplicò con risolutezza.
Come faceva una bambina così piccola a mostrarsi tanto forte, non riusciva ancora a capirlo.
Non è questione di lentezza. È che se ti succedesse qualcosa, non so come potrei andare avanti…le rispose mentalmente Shuuya, limitandosi ad annuire mentre la prendeva per mano e correva all’esterno.
Sua sorella era stanca, era evidente, eppure, in qualche modo, trovava ancora la forza di corrergli accanto senza esitare; che fosse la paura a mandarla così avanti? La consapevolezza di poter perdere suo fratello in un’esplosione o in un conflitto a fuoco? L’idea di lasciarla sola lo fece tremare per un attimo ed istintivamente le strinse maggiormente la mano. Non doveva essere negativo. Yuuka era sempre stata una bambina allegra: a permetterle di andare avanti forse era la speranza di un domani sereno, in cui le persone sarebbero state di nuovo libere di uscire di casa quando più gli aggradava e non solo quando il pericolo mortale spariva per quei pochi minuti buoni a correre fuori e rientrare immediatamente.
Giunsero in breve tempo di fronte ad una sorta di bancarella allestita alla buona che una signora aveva preparato per aiutare i disperati in cerca di cibo o qualche bene di prima necessità che la guerra gli aveva rubato. Senza nemmeno pensarci, la ragazzina dalle grandi trecce castane puntò gli occhi su un vaso contenente del sale e vi infilò un paio di dita, prendendone un pizzico e mangiandolo, come se nulla fosse.
«Yuuka! Quel sale non è tuo, non puoi prenderlo!» la rimproverò, senza essere troppo duro, il fratello. Sentendo il richiamo, la piccola sobbalzò, arrossendo per l’imbarazzo dovuto a quel gesto fatto quasi inconsciamente.
«Non preoccuparti, ragazzo» ridacchiò la signora, sorridendo incoraggiante alla ragazzina. «Se l’ha fatto, evidentemente la bambina ha bisogno di sale… Aspettate, vi do un po’ di cibo» disse prendendo un sacchetto nel quale iniziò a riporre qualche tozzo di pane. Shuuya scosse la testa con veemenza.
«No, noi… Stavamo andando a “fare rifornimenti”, ma c’è gente che ha bisogno di questo cibo più di noi…» disse, guardandosi intorno: era uno spettacolo raccapricciante. Non solo la maggior parte dei palazzi era distrutta, ma eccettuati i cadaveri, le strade erano colme di feriti e persone rimaste senza un tetto. Nonostante l’incalzare della donna a prendere un po’ di cibo, riuscì a convincerla a desistere, lanciando inconsciamente un’occhiata alla sorellina che, per non vedere ciò che aveva intorno, lisciava con cura i capelli della bambola che si era portata dietro. Il ragazzetto tornò con lo sguardo sulla bancarella e la sua attenzione fu attirata da un fermaglio a forma di fiocco piuttosto semplice, ma abbastanza grazioso.
«Te lo regalo» gli disse la donna, notando con quanta insistenza lo fissasse. Il più piccolo alzò lo sguardo perplesso su di lei, confuso, e lei fece un piccolo occhiolino. «Dallo alla tua sorellina se dovesse sentirsi triste. La tirerà su» sorrise. Shuuya ricambiò e lo prese, riconoscente.
 
Erano passati altri tre, interminabili giorni. Di loro padre nemmeno l’ombra. Chissà se stava bene? A giudicare dalle notizie che passavano alla radio o venivano date agli altoparlanti Hitler era ancora vivo, quindi delle possibilità che il genitore fosse ancora vivo erano buone, almeno secondo Shuuya.
Aveva passato la notte in bianco, impegnato a tenere attappate le orecchie della sorella – dopo che finalmente era riuscita ad addormentarsi, crollata dalla stanchezza – fintanto che le bombe continuavano a demolire i vari edifici della città. Si chiedeva solo quanto ci avrebbero messo a colpire anche casa loro, ma quel pensiero veniva puntualmente scacciato dal sentire il corpo tremante di Yuuka premuto contro il suo nonostante lei tentasse di non dare a vedere quanto fosse spaventata. Non faceva che chiedersi perché una bambina tanto piccola e buona dovesse subire tutto ciò.
Quella aprì gli occhi e al suo risveglio trovò ad attenderla il sorriso del fratello che, accarezzandole i capelli, le augurò un buon compleanno. La ragazzina sgranò gli occhi, incredula, ma subito li richiuse con uno scatto appena un’altra esplosione tuonò tutt’intorno. Si strinse al braccio di Shuuya e poi, appena il rumore si fu un po’ placato, riaprì gli occhi. «Ma… papà..?» chiese, aprendo un’anta dell’armadio dove i due si erano rifugiati. Il maggiore si lasciò sfuggire un sospiro dispiaciuto, ma si sforzò di mantenere le labbra inarcate all’insù.
«Oggi non può venire, ma sono sicuro che ti sta pensando» le disse e lei non riuscì a dissimulare il dispiacere. «Però, se può farti piacere…» estrasse dalla tasca il fermaglio col fiocco che aveva preso pochi giorni prima alla bancarella e glielo porse. La castana lo prese e lo fissò con la bocca socchiusa, senza dire una parola. «So che non è bello come i regali che ti abbiamo fatto gli anni passati ed è anche rovinato, ma spero che…» l’improvviso abbraccio che ricevette dalla sorellina gli fece morire le parole in bocca, lasciandolo completamente allibito.
«Grazie, grazie, grazie, fratellone» lo strinse più forte che poteva. «Io… io lo so che anche noi adesso abbiamo problemi. Mangiamo sempre meno e non ci compriamo più bei vestiti, bei giocattoli e altre cose così…» sussurrò. «Eppure tu pensi sempre prima di tutto a me, non mi fai vedere che le nostre condizioni sono precipitate da un giorno all’altro e mi fai comunque i regali che puoi per farmi contenta… Grazie! È il regalo più bello del mondo, mi piace molto più di tutti i pupazzi e i peluche fatti finora!» gli disse sincera, staccandosi e mettendo il piccolo fermaglio al lato della frangetta che le copriva la fronte, mostrando un sorriso smagliante come se si trovassero in un posto tranquillo, lontano da tutto e tutti, privo di dolori e dispiaceri.
Shuuya sapeva che sua sorella era intelligente e forte, ma ogni volta che gliene dava prova non poteva che rimanerne stupito ed esserne orgoglioso.
Un altro scoppio interruppe quella piccola atmosfera serena che si era andata a creare, facendo sussultare Yuuka, che si tappò le orecchie e strinse gli occhi, tornando a tremare. Anche Shuuya era sobbalzato e vedendo la reazione della piccola strinse gli occhi; era stufo di quella situazione. E non solo: più tempo passava e meno erano al sicuro, rimanendo in quella casa.
«Yuuka» chiamò, serio. «Ho sentito che hanno creato dei bunker per ripararsi dalle bombe… Andiamoci» le disse, alzandosi e porgendole la mano.
«Ma se papà dovesse tornare…»
«Ci raggiungerà. È un adulto, sa badare a se stesso» la rassicurò. «Fidati di me» le sorrise. L’altra annuì e gli afferrò saldamente la mano.
Corsero incuranti di tutto finché la bambina non si fermò di colpo, costringendo il fratello a fare altrettanto. «Fratellone… devo tornare indietro, mi è caduto il fermaglio!» gli disse, tirando per fargli lasciare la sua mano.
«Non essere sciocca, dobbiamo correre al bunker, forza!» la tirò a sua volta, ma lei non voleva sentire ragioni. «Facciamo così: tu ti metti al riparo da qualche parte e io vado a prenderlo, ok? Appena torno, corriamo al bunker, intesi?» le disse, indicandole un posto che sembrava abbastanza sicuro e facendo per tornare indietro, ma venne bloccato da un sonoro “no” gridato dalla più piccola.
«Scusa… Lì è troppo pericoloso, non ci ripensavo… Stanno sparando più dei gironi precedenti, non voglio che torni indietro…» gli disse, abbassando lo sguardo e stringendo i lembi del vestitino. «Non ho riflettuto, scusa… Già tenevo molto a quel fermaglio, ma se per recuperarlo penso che devi andare in un posto pericoloso, preferisco perderlo e avere te al mio fianco… Scusa…» bofonchiò. Shuuya la fissò qualche secondo, per poi sciogliersi in un mezzo sorriso.
«Non scusarti» la prese in braccio. «Quando questa guerra finirà, ti comprerò un fermaglio molto più bello di quello, d’accordo? Però adesso andiamo» propose, iniziando a correre più veloce che poteva.
Quando raggiunsero finalmente la loro meta, ad attenderli trovarono una scena ben poco piacevole: come se le battaglie di quei giorni – di quegli anni – non fossero state sufficienti, c’erano alcuni uomini che si stavano prendendo a pugni di fronte al bunker.
«Questo bunker è solo per i tedeschi, fuori dai piedi!» urlò un signore tirando un violento calcio dritto sul petto di un secondo uomo, leggermente più giovane.
«Cosa vorresti dire?!» domandò un compagno di quello appena colpito. «Siamo italiani, siamo vostri alleati! Dovete farci entrare!» ringhiò.
«Ma ringraziate che vi abbiamo ospitati in questi giorni, piuttosto! Sparite, non c’è posto per gli stranieri!» urlarono ancora. Mentre la lite andava avanti, Shuuya fece scendere Yuuka e si avvicinò appena a coloro che stavano discutendo.
«Scusate… noi…» tentò, ma non gli fu concesso di parlare, che un ragazzino nelle vicinanze gli tirò un sasso sul volto.
«Andate via, voi! Non è che solo perché il vostro papà lavora per Hitler potete fare come vi pare!» gli gridò. «La mia mamma è stata uccisa perché era contro di lui… non è giusto! Stupidi!» gli tirò un secondo sasso, che stavolta schivò.
«Il mio papà invece lavorava per lui, ma è morto lo stesso…» pianse un altro e a lui si unirono molti commenti simili, sia di bambini che di adulti a cui non era permesso l’accesso al bunker e si ritrovavano soli ad aspettare una speranza di salvezza o, forse, che la loro ora giungesse. Senza aggiungere una parola, il giapponese riprese in braccio la sorella e la portò un paio di palazzi più in là, facendola nascondere tra alcune travi cadute che potevano fornire un buon riparo. Le assicurò che sarebbe tornato subito e si avviò nuovamente verso il bunker, sperando di poter ottenere il permesso d’accesso, oltre a vari insulti a causa del lavoro del padre.
Loro non avevano colpe, ma avrebbe sopportato in silenzio per garantire la sopravvivenza di sua sorella.
Sopravvivenza che fu seriamente messa a rischio: una bomba esplose dove Gouenji aveva appena lasciato Yuuka. Il ragazzo sentì il suo cuore fermarsi, sudore freddo scendergli lungo tutto il corpo e un peso opprimente sullo stomaco. Non ne aveva il coraggio, ma si costrinse a voltarsi e vide un’ampia nube di fumo estendersi a non troppa distanza da dove si trovava. Il respiro gli divenne irregolare e sentì la paura prendere possesso del suo corpo, mentre – chissà  come – iniziava a correre verso le travi che aveva appena trovato. Se fosse successo qualcosa a Yuuka non se lo sarebbe mai perdonato. Lui doveva proteggerla. Lui voleva proteggerla.
Eppure per un suo errore, rischiava di perderla: non era stata coinvolta direttamente nell’esplosione, ma un grande pezzo di muro era stato sbalzato da chissà quale palazzo e si era schiantato con violenza sulle travi dov’era riparata la piccola, il cui piede faceva capolino da sotto le macerie.
Il peso si fece sempre più grande e gli occhi presero a bruciare, mentre urlando a squarciagola il nome di lei Shuuya si lanciava in un disperato tentativo di salvataggio. Non gli importava più di nulla. Suo padre. Il bunker. Era tutto scomparso dalla sua mente. Ciò che aveva fatto per proteggere Yuuka, l’aveva…
 
«Yuuka, la guerra non è ancora finita» disse Shuuya, accanto al letto d’ospedale sul quel riposava la sorella ormai da quasi un anno. «Non stai vedendo tanti orrori, ma… Ti prego, svegliati presto. Quando lo farai…» le strinse una mano. «…la guerra sarà finita».
  
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