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Autore: gattapelosa    30/03/2013    5 recensioni
Leilani aveva dodici anni quando è stata estratta, ma non è mai entrata nell'Arena.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il tributo che non partecipò agli Hunger Games

 
 
Avevo dodici anni, allora. Non andavo a scuola, non avevo molti amici, solo quelli del vicolo. Eravamo una banda, noi: i Topi di Fogna, quelli che ti fregavano il pranzo e derubavano i negozietti locali, senza troppe rogne. È per questo che i Pacificatori ci lasciavano stare: nel Distretto 10 c’era un solo orfanotrofio, ed era tutto pieno, sovraccaricarlo era solo che uno spreco di risorse, specie se i bambini stavano bene così. L’unica cosa importante era che partecipassero alla Mietitura, poi potevano anche dormire nelle fogne.
Noi non scendevamo così in basso, stavamo nei vicoli bui, tutti e otto. C’erano però altre bande, e loro sì che se la passavano brutta, erano bande bellicose, spesso in guerra tra loro, e per proteggersi andavano pure a vivere tra i ratti.
Ogni tanto se la prendevano pure con noi, ma i Topi erano furbi, più di tutti gli altri, e per ogni favore concesso stava dietro un contratto, una garanzia, così da tenerci lontani da guai e cose grosse. 
Eravamo otto. Nove con Jessie, che però aveva ancora un padre e spesso stava da lui.
Il più grande, Karlo, aveva sedici anni e un pessimo accento, ma sapeva come muoversi silenzioso su per tetti, case e staccionate. Poi c’era Valery coi suoi quattordici anni, tutti gli altri stavano sotto i tredici, ma ci sentivamo grandi.
Quando si raggiungeva la maggiore età lo stato ti dava una mezza casetta in cui vivere, poi spettava a te ripagare il debito, ma già allora molti Topi di Fogna avevano mollato la strada per un lavoro più onesto e civile. E allora avevano già dimenticato cosa voleva dire non avere un tetto sulla testa le notti di tempesta.
E c’era proprio una bella tempesta la notte prima della mia Mietitura. Avevamo trovato riparo sotto una sorta di apertura nel Vicolo di Cimonetta, dove stavamo stretti stretti gli uni agli altri. Era la prima Mietitura mia e di Kiele, che tenevo per mano nell’ascoltare le rassicurazione di tutti gli altri.
— Vedrete che non prenderanno voi, avete una sola nomina— dicevano.— Vedrete che domani saremo di nuovo tutti qui insieme.
Ma né io né Kiele ne eravamo poi tanto convinti: immagino fosse normale il primo anno, poi sarebbe stato più semplice.
— Vale lo stesso discorso di ogni anno— sussurrò Karlo, nel suo grottesco accento— Meglio morti subito che sofferenti poi. Non vale la pena vivere li Hunger Games.
— Pensi che se venissimo estratti dovremmo farci uccidere subito alla Cornucopia?— chiese Kiele.
— Se non pensi di avere possibilità, sì.
Avevo sentito quel discorso tutti gli anni: topi fino alla fine, infondo. Codardia e sottomissione, doti per noi delle Fogne. La cosa importante era ricavare sempre il meglio da ogni situazione: il meglio stava nel farsi ammazzare subito, vero, ma chi avrebbe voluto lasciarsi morire?
— Il meglio in assoluto— disse Valery— sarebbe non finirci proprio, nell’Arena. Ecco perché viviamo per strada senza preoccuparci di prendere le tessere: meglio soli e affamati qui, che con qualche possibilità in più di finire là dentro.
Tutti annuirono concordi, pure io. L’Arena era la paura maggiore per noi delle Fogne, perché non eravamo fatti per combattere, ma nati per sopravvivere. E in una qualsiasi altra terra priva di vicoli bui, negozietti e bancarelle, saremmo morti.
Quella notte ci fu tempesta fino alle prime luci dell’alba, mentre infreddolita mi stringevo a Kiele, senza alcuna possibilità di riposo. La mietitura, il freddo, la pioggia, tennero sveglia me come tutti gli altri, perché pure chi come Karlo ci era già passato ancora non riusciva a mantenere la calma.
La mattina dopo ero tutta tesa, con un orribile torcicollo e un raffreddore della Madonna, e appena fuori dal nascondiglio immersi subito piedi e mani in una profondissima pozzanghera.
Avremmo dovuto renderci presentabili, cosa dura per chi vive in strada, ma non era la prima volta che ci sistemavamo.
Di solito ci lavavamo con delle spugnette immerse nell’acqua del fiume, che il giorno della Mietitura era messo sotto assedio da tutte le altre bande, così da non lasciarci spazio. Il giorno prima avevamo riempito una bacinella con cui avremmo dovuto lavarci, ma la tempesta aveva fatto rovesciare tutto.
— Quest’anno dovremmo farne a meno— disse Valery.— Ma non preoccupatevi, abbiamo delle spazzole per chiunque debba sistemarsi i capelli e ieri sono stati messi al riparo i vestiti puliti. Se volete che vi faccia una bella pettinatura, venite pure a chiedere.
I vestiti messi al riparo erano riusciti a salvarsi dal peggio, ma l’umidità non sembrava voler dare loro pace. Indossammo magliette bagnate, che già di per sé non è che fossero il massimo, la mia era pure un po’ strappata di lato e la gonna pizzicava perché fatta con la federa dura di un vecchio cuscino.
Mi specchiai nella pozzanghera: non avevo un bell’aspetto, ma meglio comunque del solito, senza pantaloni scuciti e con i capelli ordinati.
Facemmo colazione col formaggio di capra, lusso della Mietitura, ed evitammo di discutere sugli Hunger Games. Quel giorno più che mai c’era un costante andirivieni di Pacificatori, a ricordarci che, comunque fosse andata, saremmo dovuti essere in piazza alla due, pronti a morire. 
Rimanemmo nel vicolo fino all’ultimo, sperando ancora di poterci rincontrare tutti lì, ma il tempo passava e ormai non c’era più modo di rimandare. Raggiungemmo la pubblica piazza, nel caos frenetico di pacificatori, ragazzi e genitori.
Valery portò me e Kiele a farci registrare, poi dovemmo separarci: i più giovani stavano dietro, ma almeno non eravamo sole.
— Andrà tutto bene— ci disse— Andrà tutto bene, vedrete. Non dovete avere paura, ci rivediamo alla fine.
Io e Kiele ci prendemmo per mano, mentre lentamente il caos scemava, e vedevo attorno a me molte altre ragazze stringersi le une alle altre nel darsi conforto.
Dalia, la nostra accompagnatrice, prese posto sul palco, dove stavano già seduti ad aspettare il sindaco e due ex-vincitori. Poi iniziò un lungo ed estenuante discorso sui Giorni Bui e gli Hunger Games, nel lento susseguirsi dei minuti, a posticipare l’estrazione.
Fissavo impaurita la grande boccia, dentro cui sapevo starci il mio nome. Un solo foglietto.
Quando finalmente Dalia prese parola invogliando noi altri a prestarle attenzione, ecco che tutti s’irrigidirono.
Dalia s’avvicinò alla boccia delle ragazze e con un allegro “chi sarà la fortunata quest’anno?” prese il foglietto, tornando al centro del palco.
Kiele strinse ancora più forte la mano, chiudendo gli occhi, io ero ferma immobile. Presto Dalia avrebbe letto un nome e quel nome sarebbe diventato una persona, quella persona un tributo e quel tributo un morto, nel sollievo di tutti gli altri.
Saranno state migliaia le ragazze del Distretto, migliaia le possibili vittime, ma ognuna di noi non poteva che pensare “ecco, potrei essere io”.
Dalia prese il foglietto e fece per parlare. E allora seppi che sarei stata io.
— Leilani Doson!
Migliaia di occhi s’aprirono, di respiri tornarono e di cuori batterono, con lo stupore generale di una folla che non sapeva chi mai fosse questa Leilani.
Kiele strinse ancora più forte la mano, spalancando gli occhi e aprendo la bocca in uno choc da infarto. Qualcuno si girò alla ricerca della sfortunata, e nel vedere noi due bambine ancora traumatizzate comprese subito di doversi spostare per lasciar spazio al mio passaggio. Io feci per fare un passo, ma Kiele mi tratteneva salda.
— Avanti Leilani, vieni sul palco.— riprese Dalia, notando il trambusto.
Davanti a me si creò un corridoio di persone che fissava mezzo entusiasta la bambina estratta: un Topo di Fogna, sicuramente, tutta sporca e coi vestiti strappati, una bimba senza casa, senza famiglia, senza altri amici che i compagni ladri. Vedevo nei loro occhi il sollievo, nelle labbra tese un sorriso trattenuto.
Dovetti strapparmi a forza di dosso la mano di Kiele, e allora fece per abbracciarmi, ma qualcun altro la trattenne lontana, dandomi una spinta verso il palco.
Una volta là davanti con fatica riuscii ad salire su per gli scalini e guardare la folla di persone, nell’applauso generale di chi si era salvato. Non prestai nemmeno attenzione all’estrazione del mio compagno, tanto presa ero dal volto sconvolto di Kiele e dei miei compagni. Tanto spaventata ero da ciò che mi sarebbe successo se solo avessi realmente formulato nella mia mente il termine “Hunger Games”.
Alcuni Pacificatori ci portarono nel palazzo di Giustizia, chiusi in due stanze separate, dove aspettammo che qualcuno venisse a trovarci. La prima a entrare fu Kiele.
Mi si gettò tra le braccia e pianse, continuando a gridare “No, ti prego no, non tu!”, e non riuscivo a calmarla, tanto tentata ero di piangere io.
— Ti prego Kiele— dissi allora— non fare piangere anche me.
Kiele alzò lo sguardo e, notando i miei occhi lucidi, fece il possibile per calmarsi.
— Ti lascerai morire, vero?— chiese. Io annuii. — Forse potresti anche tornare. Magari con un po’ di fortuna tu…
— Non tornerò mai. È inutile illudersi, questa sarà l’ultima volta che ci vedremo. Morirò alla Cornucopia, ma vorrei tanto che ci fosse una maniera per lasciare il segno.
— Che vuoi dire?
— Fare in modo che Capitol City si ricordi di aver mandato a morte Leilani Doson.
In quel momento due Pacificatori irruppero nella stanza, prendendo Kiele per la spalla e conducendola verso l’uscita, senza dire una parola.
— Non dimenticarti di me!— disse Kiele, mentre la trascinavano via. — Perché io non mi dimenticherò mai di te!
Uno dei Pacificatori sollevò gli occhi al cielo, spingendo via la mia migliore amica e chiudendosi la porta alle spalle.
Dovetti aspettare appena un paio di minuti prima che questa si riaprisse, lasciando entrare Karlo e Valery. Avevano i volti scuri e chini.
Si sedettero al mio fianco, prendendomi una mano ciascuno e chiedendo subito scusa.
— Ti avevamo detto che sarebbe andato tutto bene, e invece eccoti qui.— disse Valery.— Ci dispiace davvero moltissimo.
— Non è colpa vostra.
— No, ma è difficile accettare la cosa ugualmente. Ricordati solo chi sei: un topo. Fa quel che è meglio per stare meglio.
— Morirò alla Cornucopia, come avevate detto.— loro annuirono, e per il resto stemmo in silenzio. Non avrei più rivisto i miei amici, l’unica ragione di vita: che altro avevo, io? Nulla. Avevo perso tutto.
 
 
Il treno viaggiava a non so bene quante miglia orarie – Dalia aveva citato un numero cui non avevo prestato attenzione – e me ne stavo seduta sulla bella poltroncina a guardare fuori la steppa erbosa. Potevo credere d’essere sola, ma l’occhio attento da Topo aveva subito intercettato la telecamera. Mi stavano tenendo d’occhio.
Il mio mentore, Carillon, aveva appena deciso di lasciarmi perdere, e ora me ne stavo così, sola, a decidere. Come sarei morta? Avrei potuto farmi saltare subito in aria dalle mine, prima che iniziassero i giochi. Forse era doloroso, però.
Una cosa era certa: morire prima dei giochi sarebbe stato il meglio. Prima dell’addestramento, della sfilata, di Capitol City. “La cosa migliore sarebbe non finirci proprio, nell’Arena”, aveva detto Valery, e aveva perfettamente ragione. Morire prima che qualcuno abbia modo di farmi del male.
Se non fossi stata sicura che a Capitol City avrei avuto dietro chissà quali misure di sicurezza, avrei anche contemplato l’idea di morire appena arrivata. Poi però pensai che non avrei mai avuto il coraggio di impiccarmi o soffocarmi o altro, come non avrei mai avuto il coraggio di farmi saltare in aria da una mina.
Non avevo più nulla, ma non volevo morire. Avrei fatto qualsiasi cosa, anche quella più stupida se ci fosse stata dietro la minima possibilità di riuscire a salvarmi.
Guardai ancora una volta la telecamera. Era posta appena sopra il tavolo, neanche troppo in alto, ma ce n’era una seconda, che puntava da tutt’altra parte e si muoveva su e giù. Una possibilità di salvezza, anche minima, c’era.
Chiamai uno di quei senza voce per farmi portare della cioccolata calda, e quando me lo porse finsi di inciampare. La tazza volò fin sopra la telecamera più vicina. 
— Ops! Che sbadata!— dissi. Il senza voce uscì dalla stanza per andare a prendere da pulire.
Mi avvicinai alla finestra non inquadrata dalla telecamera sana e l’aprii. Di colpo udii prepotente il canto del vento, che soffiava selvaggio della stanza, riuscii ad arrampicarmi su per la poltroncina così da sporgermi un poco. Neanche tempo di metter fuori una mano che subito risuonò l’allarme.
Temetti che la finestra si sarebbe chiusa di scatto, ma questa non sembrava essere controllata da alcun impianto elettrico. Dovevo fare tutto in fretta.
Tempo pochi secondi e già stavo con mezzo corpo fuori, quando passi sempre veloci non irruppero nella stanza. Sentii la voce di Carillon e la sua mano cercare d’agguantarmi un piede, ma ormai era tardi: mi feci cadere.
 
 
Nove anni dopo sedevo stremata sulla poltrona di una ricca casetta nel Distretto 8. Ero stata fortunata ad incontrare persone così buone da accogliere questa piccola sconosciuta in casa loro. Ormai stava per avvicinarsi la trentaduesima edizione degli Hunger Games, ed eravamo buoni lì a fissare lo schermo buio della televisione.
Mio padre, o quello che decise di divenire tale, lamentandosi si fece crollare sul divano. Mia madre, invece, porse a tutti una cesta di fragole.
— Prendine un po’, Sophie.— mi disse, e l’accontentai.
— Allora— continuò papà, fissando amorevolmente il pancione che m’era cresciuto. — Tu e Tom avete deciso come chiamare il bambino in arrivo?
— Se è un maschio, avevamo pensato a Kik.— papà storse la bocca, ma non disse niente.— Se una femmina, invece, Kiele.
— Come il tributo del Distretto 10 che è stato estratto nove anni fa?
— Ve la ricordate?
— Come potremmo dimenticarcela? Quando sei arrivata in casa nostra, sporca, affamata e senza più ricordi, alla vista di quella bambina sorteggiata ti è quasi preso un colpo. Hai iniziato a gridare e a piangere.
Sollevai le spalle, incurante. Era vero: non so cosa sia successo, ma al risveglio di nove anni prima – poco distante dalle porte del Distretto 8 – non ricordavo proprio nulla, solo un gran mal di testa. Quando ho visto quella bambina estratta per la seconda volta (non avevano spiegato bene, sembrava esserci stato però un errore con la prima estrazione) sentii come un tuffo al cuore e presi e gridare e a piangere.
— Non so, magari ha qualcosa a che vedere con il mio passato, ma Kiele è il nome che voglio dare a mia figlia. Lo sento, è un nome importante, il più importante di tutti.
Nessuno disse più niente, e andava bene così. Non sapevo come fosse possibile, ma sentivo che Kiele, chiunque fosse e ovunque fosse, aveva rappresentato per me il punto focale di un passato nero e buio. Sentivo di essere stata qualcuno, prima, di aver fatto qualcosa di grande. Il mio passato era andato dimenticato, ma qualcosa rimaneva, e quel qualcosa era un nome. Perché ho dimenticato tutto, ma non lei.
 
— Non dimenticarti di me!— disse Kiele, mentre la trascinavano via.— Perché io non mi dimenticherò mai di te!
 


Bacheca dell'autrice


Non è stata una coincidenza l'estrazione di Kiele, Capitol City l'ha fatto apposta dopo la fuga di Leilani. 
Non so come mi sia venuta in mente questa storia, però amavo l'idea che qualcuno fosse riuscito a salvarsi la vita senza uccidere nessuno. Non so perché ho voluto dare dodici anni a questo qualcuno, forse perché un bambino che si salva fa più effetto. 

Ho sempre odiato i finali in cui il protagonista dimentica la sua storia passata - ho pianto come una fontana dopo aver letto il finale di Alice Academy -, ma in fondo non c'è stato poi così tanto tempo per affezionarsi a Leilani, no?

È una delle prime edizioni, perché immagino che dopo abbiano migliorato la sicurezza. 

Spero solo che qualcuno legga questa fic. Ciao ciao. 

  
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