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Autore: FantasyMind    30/03/2013    1 recensioni
"Quando entri nei sogni, i sogni entrano in te."
Genere: Horror, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Era sicuramente passata la mezzanotte, solamente la luce del corridoio lungo e stretto che collega la cucina alle camere e ai bagni illuminava il mio appartamento.
Nella mia camera, la luce filtrava donando una flebile illuminazione.
Il mio cervello mi diede qualche colpo, e mi risvegliai una volta immerso fra le coperte. Silenzio assoluto, quasi surreale, era appena iniziata l'estate e il caldo aveva già stretto la sua morsa. Nessuna macchina circolava nella rotonda davanti al palazzo in cui abitavo, niente voci, niente rumori, niente.
Ero tranquillo, avevo tutte le carte in regola per riposarmi a dovere ed essere pronto ad un altro giorno di lavoro.
Impastai con la lingua la bocca, per bagnarmela. Il caldo, oltre a lasciarmi imperlato di un sottile velo di sudore su tutto il corpo, mi aveva già seccato la gola.
In pochi attimi, con il silenzio alle spalle, il buio attorno, lo stomaco pieno e la mente che reclamava insistentemente il suo riposo, sprofondai nelle trame del sonno.
Ed è una sensazione comune, questa. Siamo stanchi, affaticati dopo la giornata, ci sdraiamo, specie in estate, senza coperte a renderci difficili i movimenti. guardiamo il soffitto o il muro, socchiudiamo gli occhi, poi si sigillano del tutto. 
Pensiamo al giorno successivo, a quel che abbiamo fatto e a quel che faremo, e lentamente la nostra mente si lascia scivolare via i pensieri, inabissandosi nei sogni.
Era mezzanotte passata, dormivo.
Il silenzio era perpetuo, ogni cosa giaceva, ferma nel buio della notte.
Mi svegliai di soprassalto, feci attenzione a non urlare o muovere qualcosa bruscamente per non spezzare quella delicata quiete. Qualcosa mi aveva svegliato.
Non ero del tutto sicuro però, mi era spesso capitato di svegliarmi preoccupato di qualche brutto guaio che invece avevo solo sognato in un incubo.
E' la pesantezza che rende il sonno duro, pensa giustamente. Mi alzai, mi guardai allo specchio che avevo affiancato al muro della camera. Avevo lì affianco anche un armadio alto e sottile, di legno marrone e perfettamente lucido.
Le ante erano chiuse, di aver messo a posto ed in ordine i miei vestiti nell'armadio ne ero sicuro, almeno in quello.
Posavo gli occhi su tutte le fessure delle ante dell'armadio, una per una; ero leggermente insospettito, nulla di che, certamente.
Erano tutte fisse e chiuse, dov'era il problema? sei troppo ansioso, senza motivo, finiscila! mi ripetevo come una predica, nella mente.
Niente, nulla, era tutto come lo avevo lasciato. Mi giro per recarmi in cucina, la bocca è di nuovo secca, il sudore per il caldo precoce di quest'estate mi aveva già bagnato la pelle.
Mi incamminai verso il corridoio, aprendo con una mano la porta, mezzo assonnato. Altolà, voltati, chi è là?
Là dove? stavo pensando, qualcosa il mio occhio aveva notato prima di voltare la testa. Subito tornai indietro, spalancai lentamente la porta per il illuminare meglio. Era l'ombra dell'armadio, mica chissà chi.
No, l'ultima anta, la più lontana e in penombra, era leggermente socchiusa. Mentre in silenzio osservavo, con un nodo alla gola che mi strangolava e i battiti cupi del cuore riecheggiare nelle orecchie.
Sentivo continuamente la pelle in fiamme per la calura di quella notte di giugno particolarmente infuocato. L'anta si richiuse di lì a poco, in un piccolo scatto.
Cigolava nel mentre, in uno scricchiolio tetro e che non rassomigliava per nulla alla cantilena delle cicale, lì di fuori dalla finestra aperta della camera.
Ma non c'è vento, perché si è chiusa così? stavo soffocando per la paura che mi assaliva serpeggiando pian piano che i secondi scorrevano. 
Forse fu il sonno che mi rese così avventato da lasciarmi alle spalle quella scena, voltandomi per la sete e dirigendomi in cucina, incurante.
Una volta arrivato, accesi la luce. Ero oramai in allerta e mi giravo per vedere se qualcosa si stesse nascondendo negli anfratti dei mobili, nelle zone d'ombra della cucina. 
Presi la bottiglia e iniziai avidamente a bere. La scolai tutta, mi sorpresi del mio risultato.
Ero soddisfatto e avevo placato la sete. Richiusi la luce. Dei passi nel corridoio. ora ero seriamente preoccupato, ed ero sicuro che qualcuno fosse entrato in casa mia. I passi continuavano, veloci come quelli di una lucertola. Mi assaliva anche una vena di rabbia che si mescolava al sangue raggelato per la paura, volevo dormire in pace.
Camminai a passi ben piantati, sperando che il rumore potesse intimare a chiunque fosse lì, dall'altro lato della cucina, di dileguarsi prima che potessi vederlo.
Ottenni il risultato sperato, sentii un sibilio allontanarsi, sempre più sottile e lontano.
Non ero soddisfatto, quel sibilo si era rifiugiato ancora in camera mia.
Percorsi il corridoio, afferrai il manico di una scopa, la prima cosa che mi capitò sotto tiro.
La porta della camera era socchiusa, non riuscivo a vederne all'interno, e questo era male. per me.
Con l'estremità del manico, tenendomi a debita distanza e perennemente all'erta, con un nodo che mi stringeva la gola, spinsi leggermente la porta.
Si spalancò con lentezza, provocandone un cigolio ronzante. Man mano che la porta si apriva la luce bianca della lampadina sopra di me filtrava all'interno della stanza, rivelandone l'interno. 
Niente, solamente il letto, lo specchio, la finestra che si muoveva sospinta da un soffio di aria salmastra proveniente dal mare. Sentivo il suono lontano del faro del porto. Era strano perché il faro suonasse a giugno, quando di nebbia non se n'era mai vista.
Il suono era composto da due lamenti, identici. Sembravano il rimbombo di una nave, o l'arrivo di un treno, oppure una sirena della polizia. Era lento, cupo. Si allentava nel corso degli attimi, provocandomi ansia ed inquietudine non appena tornava a farsi risentire, lontano, nella calma notturna di quella città.
Il mio sguardo si posò nuovamente sull'ultima anta dell'armadio. Era ancora socchiusa, e continuava a cigolare, fiacca.
Allungai la testa per notare ogni minimo particolare. Qualcosa, o quel qualcuno era lì dentro, le finestre erano troppo ferme, per quanto si muovessero sospinte dalla brezza, perché qualcuno se ne fosse uscito fuori.
Puntai in avanti il manico di scopa, come una spada pronta a trafiggere, ad uccidere, nel caso l'attimo lo avesse richiesto.
L'anta si aprì di poco, quel poco che bastò a farmi indietreggiare d'istinto, sussultando improvvisamente.
Qualcosa mi guardava da quella fessura buia. all'interno dell'armadio non passava luce, e in quel buio si nascondeva. Gli occhi erano lucidi, fissi, enormi e completamente neri come il carbone.
Vidi dei piccoli particolari bianchi, corrosi di sporcizia giallognola. Era un sorriso. Mi stava sorridendo. con un ghigno pietrificante.
Si svelò finalmente, si mostrò come davvero era, era.. una bambina.
Minuta e bassa, stava dritta con la schiena ed era vestita di un candido, si fa per dire, vestitino bianco a fiori di un rosa sbiadito. Era strappato, ma poco importava, i suoi enormi occhi neri mi fissavano, nascosti sotto una selva di capelli lunghi e neri, lucidi, quasi unti, sporchi e ondulati, sembravano bagliati o quantomeno umidi.
Le zampe erano di gallina, grosse e giallastre. Aveva delle zampe affilate che le spuntavano da sotto la lunga gonna. Le mani mi sembrarono normali, ma quando le dispiegò erano palmate, ricoperte di squame.
Il viso infine, mi terrorizzò vedere quel visino, paffuto ma con delle labbra screpolate, dei denti enormi e un naso piccolo e schiacciato, oltre ai due occhi così particolari.
A tratti sibilava e pronunciava sillabe sconnesse e ruvide nella pronuncia, non sapeva parlare supponevo.
Da dove viene questa creaturina? in una notte tranquilla come questa.
Mi trattenevo dal perdere i sensi per il terrore, o affrontare quella bambina posseduta.
Il suo sguardo era vacuo, perso nel nulla, eppure le sue enormi pupille nere mi tenevano d'occhio, fisse su di me.
Qualche secondo dopo, pronunciai un saluto, o qualcosa per capire qualcosa di lei, ma mi ritrovai il suo viso orribile a pochi millimetri di distanza. Mi era saltata addosso in uno sbanzo animale, indemoniato che mi fece impattare al pavimento di schiena.
Il dolore lancinante era il meno, quasi impercettibile agli artigli che ella andò conficcando nella mia carne. Mi lacerò il viso, in uno scatto iracondo che il demonio serba ai suoi seguaci, ella era una di loro, posseduta. 
"Un esorcista, qualcuno mi aiuti!" urlai, fregandomene della tranquillità oramai rotta. Il sangue iniziava a zampillare, mentre le mie urla strazianti facevano da sottofondo, e lei rideva.
Rideva a crepapelle, in una risata sguaiata di iena, mista all'acuta voce di una bambina.
Basta schifosa! basta, vattene immonda!! urlai ripetutamente, mentre la mia furia prese il posto della paura.
Strinsi forte il bastone che avevo in mano, mentre lei continuava a scuoiarmi vivo. Vidi ogni cosa scomparire nella cecità assoluta, avevo perso un occhio, soppresso dalle sue zanne. 
Iniziai senza ritegno a bastonarla con il manico di legno della scopa, picchiandola ripetutamente e più volte, fregandomene che fosse una bambina. 
Oramai insediata sopra il mio torace, aveva ridotto la mia faccia ad un cumulo tumefatto di carne e sangue. Il collo perdeva sangue, sentivo anche il caldo estivo stringermi ancora di più attorno.
Mi stava scorticando il ventre, e i brandelli di carne intrisi di sangue rappreso svolazzavano spiattellandosi per tutta la stanza.
Basta urlai a squarciagola, quasi soffocato.
La picchiavo forte, ma sotto quei capelli neri, lunghi e umidi la sua testa di neonata sembrava non rompersi come un guscio d'uovo. 
Maledetta, Basta! gridai, in preda all'ira, ma stavo perdendo le forze, quasi moribondo.
Smise di arpionarmi il ventre con le sue zampe, e correndo ingobbita e a quattro zampe, come una cagna in fuga e bastonata, si allontanò da me. 
Uscì dalla finestra, serpeggiando fra le tende.
Io mi rialzai, mollai la presa della scopa e la fissavo, perso, senza sapere il perché di tutto quello che accadde in quella notte, e incerto su quale fosse stata la mia fine.
Gobba si alzò sulla ringhiera del terrazzo, come una sentinella.
Mi guardava, soddisfatta mentre assaggiava gli schizzi del mio sangue, leccandoseli dalla faccia con la lingua enorme. Il suo ghigno lungo era perennemente dipinto su quel volto indemoniato, impunito.
Se quell'indemoniata vuole la morte..
Mi dissi ricolmo di rabbia. Ripresi fiato e il manico della scopa, con l'altra mano sanguinante e lacerata mi trascinavo avanti, a terra come un verme. 
La fissavo perché non scappasse, volevo vederla morire nella maniera più agonizzante che una mente sana potesse desiderare.
Arrivai alla finestra, a pochi palmi da lei. Sembrava volesse dileguarsi di lì a poco, si girò per guardarsi attorno, fregandosene di me, pronta a saltare nel vuoto, dal secondo piano di un palazzo.
No, le ripetei d'un tratto.
Tu morirai qui, a terra, marcirai con me. Presi forza con il braccio, scaraventando la mazza di legno nel suo pieno volto, spaccandole il cranio, quasi sicuramente.
Sentivo perdermi i sensi, mi sentivo la mente offuscata, perdevo contatto con la realtà.
la vidi cadere a terra, esanime e sanguinante di un liquido nero e fangoso.
Anch'io mi accasciai, stanco, mentre il sangue lasciava il mio corpo.
Guardai il pavimento, socchiusi gli occhi stremato, sigillandosi successivamente.
Pensavo al giorno successivo, a quel che avevo fatto, a ciò che era accaduto poco prima e a quello che avrei fatto in futuro. Lentamente la mia mente si lasciò scivolare via i pensieri, e io mi sentivo come qualche ora prima, a mezzanotte, in cima ad un abisso, gettandomi nel sogno, questa volta eterno.
 
 
 
  
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