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Autore: JeckyCobain    31/03/2013    2 recensioni
Jess Hudson, ragazzo del distretto 5. è un ragazzo allegro, spensierato, che ama la vita e la sua famiglia. Ma un giorno dovrà cambiare, dovrà cominciare a crescere, e indossare quella maschera che forse lo aiuterà a sopravvivere all'arena.
Perché lui non è come Peter Pan, e non può vivere per sempre nell'isola che non c'è.
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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You are not like Peter Pan, You can't live forever in Neverland.

 

“Jess” Il ragazzino percepiva una voce che pronunciava il suo nome. Non capiva da dove veniva, ne tanto meno a chi appartenesse, ma la sentiva chiara e nitida nella sua testa.
“Jess, tesoro” La voce, calda come il latte e dolce come il miele, lo chiamava ancora. Ad un tratto riconobbe a chi apparteneva: era la voce di sua madre.
“Jess, tesoro, svegliati!” Una mano gelida lo toccò, e il bambino si svegliò dal sonno.
Jess Hudson era un ragazzino di appena 10 anni.
Viveva nel distretto 5, insieme alla madre Katherine, al padre James, e al fratellino Jack. A quel tempo Jack aveva solamente 3 anni, e non poteva ben capire quanto dura sarebbe stata la sua vita da quella notte in poi.
Erano più o meno le cinque del mattino, o forse prima, quando la madre lo svegliò.
“Jess, tesoro mio, mi dispiace averti dovuto svegliare proprio in questo momento, ma ti dobbiamo parlare” Katherine era seduta sul letto del ragazzino, e dietro di lei, in piedi, c'era James. La donna quel giorno possedeva ancora la sua innaturale bellezza, che si sarebbe poi sbiadita con il passare del tempo. A quell'epoca aveva ancora i capelli biondi e ricci.
Jess invece aveva i capelli marroni scuro ancora spettinati, e gli occhi stanchi dovevano ancora abituarsi alla tiepida luce che proveniva dalla lampada vicino al tavolo.
“Che succede mamma?” disse il ragazzino con la voce ancora impastata dal sonno.
“Oh Jess, ti ricordi quel lavoro che dovevamo cominciare io e tuo padre alla centrale elettrica?”
Il piccolo annuì, anche se era ancora molto stanco e le cose non le capiva ancora particolarmente bene.
“Be', ci hanno assunti” disse la madre con un sorriso. Il bambino si illuminò, e il sonno sparì in un istante. “Però, sai...” aggiunse poi la madre cupa, spegnendo subito la felicità del bambino.
“Questo ci terrà lontano da te per molto tempo” disse con voce spezzata, e a momenti sarebbe scoppiata sicuramente a piangere, se non con la sua forza di volontà riuscì a trattenersi"
“Come sarebbe a dire?” esclamò il ragazzino preoccupato.
“Sssh, Jack sta ancora dormendo...” disse Katherine portandosi un dito sulla bocca in segno di far silenzio. “Jess, il lavoro prevede di andare lì la mattina presto, e tornare a casa la sera tardi. Pranzeremo lì, quindi non torneremo a casa, e i momenti che potremo passare insieme diminuiranno drasticamente.”
Il bambino inarcò le labbra verso il basso, e ciò prospettava un lamento, o peggio, un bel pianto.
“Per questo vorrei che ti occupassi tu di Jack” proseguì la donna. “Ti ho lasciato del pollo lì, ti basta metterlo nel forno a microonde e poi potete mangiarlo per pranzo, e se non lo finite lo mangiate anche a cena. C'è anche del latte nel frigo, se vuoi scaldarlo sai come fare, ma stai attento al gas, mi raccomando! Se avete bisogno potete andare a chiedere aiuto alla signora Pat”.
Jess fece una smorfia una volta che sentì quel nome. La signora Pat era la loro bisbetica, vecchia, vicina di casa. Al solo pensiero Jess si promise che sarebbe riuscito benissimo a fare tutto da solo.
“Mamma, io non voglio che te ne vai” disse il bambino abbracciandola.
“Tesoro, nemmeno io voglio andare, ma non possiamo rimanere senza lavoro. Se non riuscissimo a portare a casa il cibo finiremo come la gente che abita nella periferia del distretto, e sarebbe brutto, non trovi?”
Jess annuì con tristezza.
“Vado a svegliare tuo fratello” aggiunse poi la madre andando verso il letto dall'altra parte della stanza.
Gli Hudson vivevano in una casa non molto grande, ma non era nemmeno una di quelle baracche che di solito spuntavano alla periferia del distretto. Erano una famiglia non troppo ricca, ma nemmeno povera. Al contrario di molti però, avevano tantissimi elettrodomestici che la gente del loro distretto non si sarebbe mai potuta permettere, nemmeno i più ricchi. Il perché derivava dal fatto che gli Hudson avevano parenti nei distretti 1 e 2, e alcuni persino a Capitol City. Il giorno in cui Katherine e James si erano sposati, erano arrivati direttamente da loro, insieme a regali che avrebbero poi aiutato notevolmente la famiglia. Ma questa è un'altra storia.
“Ehi campione” disse James sedendosi accanto al figlio.
Il padre aveva l'aria stanca, la barba era ispida e poco curata, e i capelli biondo cenere li teneva tagliati abbastanza corti. Non aveva un particolare rapporto padre-figlio con Jess, però che gli voleva bene questo era certo.
“Cosa stai leggendo di bello?” aggiunse poi, prendendo il libro sul comodino del ragazzo.
Dovete sapere che nei distretti di Panem, non tutti avevano dei libri. Anzi, ne circolavano davvero pochi. La famiglia di Jess però ne possedeva diversi, ed erano il loro vanto principale. Ovviamente provenivano tutti da Capitol.
“È la storia di Peter Pan” disse il piccolo. “Sai, ho già letto tutti i libri che ci sono in casa, ma questo è il mio preferito! Pensa che l'ho già letto 15 volte!”
“Immagino” disse il padre con un sorriso “Tu assomigli molto a Peter” aggiunse poi scompigliando i capelli al figlio. Il ragazzino sorrise, ma poi, tutto d'un tratto gli venne inspiegabilmente da piangere. I suoi bellissimi occhi azzurri divennero lucidi, e un secondo dopo nella stanza si sentivano solo i suoni dei pianti di Jess e Jack.
I genitori però non potevano saltare il lavoro proprio il loro primo giorno, così dovettero lasciare i bambini a loro stessi.

***
“Jess!” una voce stava chiamando il ragazzo. “Jess alzati, veloce!”
Jess Hudson aveva 12 anni. Jack Hudson ne aveva 5.
I capelli marroni di Jess, col passare degli anni, erano diventati più scuri, e ora sembravano neri.
Gli occhi però erano rimasti gli stessi.
“Jess, oggi è il giorno della tua prima mietitura, forza!” esclamò la madre, con tono preoccupato.
Quel giorno nessuno lavorava, al distretto 5. Nessuno lavorava, in tutta Panem. Quello era il giorno più atteso di tutto l'anno da Capitol City. Il giorno della mietitura. Il giorno di inizio degli Hunger Games. Il primo di tanti giorni d'inferno di Jess.
Quel giorno indossava una camicia bianca, e dei semplici pantaloni grigi. Si era pettinato i bei capelli con del gel, che li teneva ben tirati all'indietro. Anche sua madre e suo padre si erano messi il vestito buono.
Il ragazzino era molto teso, e la madre cercava di rassicurarlo. “Non ti pescheranno, stai tranquillo tesoro”, diceva, tenendogli stretta la mano.
Quando fu nella piazza, tra tutti i suoi amici, Jess si mise fra i ragazzi della sua età.
La donna da Capitol City, bardata in del tulle argenteo, recitò la solita formula introduttiva:
“E possa la buona sorte sempre essere a vostro favore”
Poi andò a pescare il nome della ragazza.
“Emily Grace” disse con tono squillante.
La ragazzina si diresse sul palco. Jess non sapeva chi fosse, nonostante avesse la sua età.
Poi la donna andò verso la boccia con i nomi maschili.
“Robert Evans Jr.”
Jess tirò un sospiro di sollievo, ma era così lieve che nessuno se ne accorse. Il ragazzino a fianco di lui salì sul palco, imbarazzato e impaurito.
“Ecco i nostri due coraggiosi partecipanti!” trillò la donna dal palco. “Felici Hunger Games! E possa la buona sorte sempre essere a vostro favore!”

***
“Jess!” qualcuno stava tentando di svegliarlo dal suo sonno ristoratore.
“Ancora cinque minuti mamma!” mugugnò il ragazzo.
“Jess, è il giorno della mietitura, sbrigati!”.
Jess Hudson aveva 16 anni. Jack Hudson ne aveva 9.
I capelli di Jess erano sempre gli stessi, e così anche i suoi occhi.
Era l'anno della sua quinta mietitura. Fino ad allora era stato fortunato.
“Mamma, non ci voglio andare alla mietitura” disse con fare assonnato, ancora immerso nelle calde coperte del suo letto.
“Jess, non dire scemenze! Alzati e vestiti che andiamo!”
Il ragazzo si alzò, e si sedette sul letto. Arrivò suo padre, che si sedette accanto a lui, posandogli una mano sulla schiena.
“Jess, forza, ce la puoi fare anche quest'anno, speriamo la fortuna rimanga sempre dalla tua parte”
Con il passare degli anni e del continuo aumento di lavoro, James era diventato molto più severo e austero nei confronti dei figli. In particolare di Jess.
“Cosa stavi leggendo?” disse con tono grave, prendendo il libro che si trovava sul comodino del ragazzo.
“Peter Pan” rispose Jess, che intanto si era infilato i pantaloni, e ora si stava allacciando una scarpa.
James per tutta risposta ripose il libro dove lo aveva trovato, e se ne andò in cucina dicendo “Vedi di sbrigarti, Jess”.
Il ragazzo fece una smorfia, e si alzò per mettersi la camicia.
Una volta in piazza andò dai suoi amici. Erano tutti molto preoccupati, e così anche lui.
La donna di Capitol City era sempre la stessa, e non sembrava invecchiata di un giorno.
“Possa la buona sorte sempre essere a vostro favore!”
Jess la imitava, riuscendo a strappare un sorriso anche agli altri ragazzi.
“Come sempre prima le signore!” disse avvicinandosi alla boccia con i nomi delle ragazze. Quest'anno era di color rosa fosforescente.
“Magan Stevens” disse con voce trillante.
Jess non seguì particolarmente il resto della mietitura, finché non si presentò il momento della scelta dei ragazzi.
“Jess-”
Quando sentì quelle prime poche lettere, il ragazzo rimase in uno stato di trance per pochi secondi, finché la donna non completò il nome: “Jessie Lapron!”
Al che tirò un sospiro di sollievo.
I due ragazzi erano sopra il palco, e la donna disse un'altra volta la solita frase:
“Ecco i nostri due coraggiosi partecipanti! Felici Hunger Games, e possa la buona sorte sempre essere a vostro favore!”

Quando Jess tornò a casa si tolse la camicia, rimanendo a petto nudo.
“E nemmeno quest'anno sono stato scelto! Forse la fortuna è veramente dalla mia parte!” esclamò contento il ragazzo. Ma notando i volti dei genitori capì che qualcosa non andava, e che la sua 'frase a effetto' non aveva attecchito.
“Ehi, non siete contenti?”
“Jess, ti rendi conto di ciò che è successo?” disse la madre in tono cupo.
“C'è stata l'ennesima mietitura, e allora?” rispose Jess in tono quasi sarcastico.
“Jess Hudson!” urlò il padre. James non si arrabbiava spesso con i ragazzi, ma quando succedeva usciva letteralmente dai gangheri, e non era affatto una cosa positiva trovarsi nella sua stessa stanza.
“Lo sai cosa significa la mietitura? Lo sai cosa significano gli Hunger Games? Hai sedici anni per Diana! Perché non ti preoccupi un po' per quello che sta succedendo? Perché non capisci cosa significa? E se ci andassi tu nell'arena? Eh? Cosa succederebbe se ci fossi te su quel palco, in quell'arena?”
“James, per favore!” urlò Katherine, che era scoppiata a piangere al solo pensiero che il figlio potesse essere scelto per partecipare.
“Se fossi nell'arena sai cosa farei?” disse Jess in tono serio. “Li ucciderei tutti. Mi farei valere. E tornerei a casa, solo per mostrarti che non sono un codardo, e che se voglio posso arrivare dove voglio.”
Per tutta risposta il padre gli tirò un ceffone, che lasciò a bocca aperta la madre.
“Hai diciassette anni ormai, vedi di svegliarti fuori!” urlò contro il ragazzo. “Tu non sei come Peter Pan, non puoi vivere per sempre nell'isola che non c'è!”
Jess, arrabbiato con il padre, se ne andò nella sua camera, sbattendo forte la porta.
Si sedette sul letto, e cominciò a piangere. Alzò lo sguardo, e lo posò sul libro sopra il comodino, che afferrò e gettò per terra con rabbia.
“A fanculo 'ste storie!” sibilò tra i denti “E a fanculo anche gli Hunger Games!”.
Da quel giorno, Jess Hudson del distretto 5, indossò una maschera, che mai più si sarebbe tolto.

***
“Jess!” sua madre lo stava chiamando.
“È il giorno della mietitura, forza”.
Jess Hudson aveva 18 anni. Jack Hudson ne aveva 11.
I capelli di Jess erano sempre gli stessi, e così anche i suoi occhi.
Era l'anno della sua ultima mietitura. Fino ad allora era stato fortunato.
Senza troppe storie si vestì e lavò. Indossò la sua meravigliosa maschera, quella che si era costruito con gli anni seguenti alla mietitura dei suoi 16 anni. Dopo pochi minuti era già fuori in strada con la famiglia, diretti alla piazza della mietitura.
“Buongiorno! Buongiorno a tutti!” trillò esaltata la donna di Capitol City. Era sempre la stessa da anni ormai, sempre con la solita faccia. L'unica cosa che cambiava negli anni erano gli stravaganti vestiti che indossava. Quell'anno era color giallo canarino.
“Felici Hunger Games! E possa la fortuna sempre essere a vostro favore!”
Jess andò subito tra i diciottenni. Jack rimase con i genitori: la sua prima mietitura sarebbe avvenuta l'anno seguente a questa.
Jess si mise subito a parlare con i suoi amici, in tono divertito. Anni fa lo avrebbe fatto spontaneamente, ma da un paio d'anni si sforzava di mostrarsi un ragazzo forte agli occhi di tutto il distretto 5. A casa le cose erano sempre più un disastro: suo padre ormai era totalmente distaccato da Jess, e la madre era sempre più stanca, oppressa dal troppo lavoro.
Jess si occupava di badare a Jack, e lui aiutava come poteva.
Jess era un ragazzo fragile, impaurito dagli Hunger Games, ma non voleva dimostrarlo. Non doveva dimostrarlo.
La donna si avvicinò alla boccia con i nomi delle ragazze. Dentro di sé Jess sperava non venisse estratta la piccola Rosie, una ragazza che aveva conosciuto da solo pochi mesi, e che già considerava come una sorella. Sperò anche che non venisse estratta Julie, la sua attuale cotta. A lei Jess non piaceva, ma lui la adorava. Eppure lei era una delle poche che resisteva al fascino del ragazzo, perché tutte le altre gli cadevano ai piedi come pere mature.
“Kalliope Piromalli!” esclamò la donna-gialla dal palco.
Si avviò sul palco una ragazza, proveniente dal gruppo dei quindicenni. Aveva corti capelli rossi, mossi, tendenti al riccio. C'era qualcosa in quella ragazza che colpì Jess.
Compassione? Felicità perché né Rosie né Julia erano finite su quel palco? Oppure erano stati i suoi capelli rossi?
La donna, dopo aver fatto tutto quel che si doveva fare sul palco (e quindi inscenare vari discorsi dicendo “Oh ma che bel tipetto, eh?” alla piccola Kalliope), si diresse alla boccia dei maschi.
Jess sentì un brivido che lo percorse da testa a piedi, e pensò Se ce l'ho fatta fino ad adesso, la fortuna non potrà abbandonarmi proprio ora.
“Jess Hudson!”
Il nome del ragazzo rimbombò nel microfono e in tutte le strade del distretto 5.
Quello che pensò Jess in quel momento fu “Merda!”, ma non lo disse ad alta voce.
Rimase scioccato, turbato, non sapeva nemmeno lui come. Ora doveva iniziare a preoccuparsi sul serio.
Si diresse senza esitazione sul palco. Doveva mostrarsi forte, non doveva far vedere di avere paura. Non doveva mostrarsi debole. Sulla faccia aveva stampata una strana smorfia, che non si capiva cosa significasse. Camminava guardando a terra, quando ad un tratto alzò la testa, per mostrare che era deciso in quel che faceva. Per dimostrare a suo padre che sarebbe tornato a casa. Il momento in cui gli avrebbe fatto vedere quanto valeva sarebbe arrivato molto presto.
Strinse la mano a Kalliope, quella splendida ragazza che era di fronte a lui in quel momento. Capì che era determinata quasi quanto lui, e che avrebbe dato il massimo per tornare a casa. Tutti e due avrebbero lottato per questo.
Jess guardò la sua famiglia, forse per quella che sarebbe stata l'ultima volta.
Jack e Katherine stavano piangendo, suo fratello era letteralmente sotto shock. Il padre invece era serio, come al solito. Lo fissava, come a dirgli “Visto? Che ti dicevo io?”.
I loro occhi, apparentemente uguali, si fissavano da una parte all'altra della piazza. Erano azzurri, come il cielo senza una nuvola, e freddi, come i ghiacciai del polo nord. Ma quel che più colpiva se li aveste visti in quel momento, era la tempesta che si stava svolgendo in quel piccolo mondo che erano i loro occhi.
Smisero di fissarsi solo quando fu il momento di entrare nel palazzo di giustizia, e di porre fine alla prima parte dei giochi: la mietitura.
E fu in quel momento che Jess ripensò ad una frase. Quella frase che gli aveva cambiato la vita, e che avrebbe portato con sé anche nell'arena:
“Tu non sei come Peter Pan, non puoi vivere per sempre nell'isola che non c'è!”

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Messaggio dall'autrice:
Salve a tutti quanti quelli che hanno letto! 
La canzone da cui prende titolo questa storia è la strofa di una canzone: http://www.youtube.com/watch?v=pDqhyOlKkhg
Questa era una piccola One-Shot su Jess, un mio tributo che partecipa all'interattiva Everything's gonna be alright, di BlueCoral (Se avete voglia andatela a leggere, che merita! Oh, e ricordatevi di fare il tifo per Jess!).
Mi era balenata in testa la strana idea di poter scrivere qualcosa su Jess e sul suo distretto, e su come era nata l'idea della "maschera" con la quale avrebbe giocato gli Hunger Games.
Kalliope Piromalli invece, è un altro personaggio partecipante all'interattiva, e appartiene a Julie
Che altro dire: ah sì, i miei banner di merda colpiscono ancora <3

Un bacione a tutti e buona Pasqua!
Jecky

 

   
 
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