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Autore: heygiuls    01/04/2013    4 recensioni
Susan Bannet è una ventiseienne che vive a Londra ormai da un po', abbastanza per essersi abituata al clima sempre incerto e al fare frettoloso dei londinesi. Susan lavora per un noto giornale online, il Daily London News, e fra tutti i dipendenti è quella che più vede una carriera piena di successi nel suo futuro, questo anche a detta del suo capo.
Ma, quando una sera, Susan riceve l'incarico di fare un buon servizio riguardante un ragazzo scomparso, tutta la sua vita riceverà una consistente botta di vitalità che, come prevedibile, porterà anche una vagonata di problemi.
Prima storia che scrivo su questo genere, è un miscuglio fra suspence e mistero, con una punta di romanticismo e comicità. Questa storia non ha pretese, ha solo lo scopo di raccontare la vita di una ragazza che cerca di costruirsi una carriera ma senza fare i conti con gli ostacoli che la vita le metterà davanti.
Buona lettura.
Genere: Drammatico, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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susan bannet prologo

Susan Bannet.

by heygiuls




Prologo.

I marciapiedi di Londra sfilavano veloci sotto i miei tacchi, ormai non sapevo neanche da quanto tempo stessi camminando per trovare il punto esatto in cui avessi parcheggiato la macchina. Tipico tempo londinese, tipica giornata uggiosa e il mio tipico umore sotto i piedi: la pioggia mi metteva tristezza.
Svoltai l'angolo e finalmente la vidi, incastrata tra una BMW e un'Audi. Certo, la mia Mini Cooper non faceva un figurone accanto alle auto di nobili ricconi e uomini in carriera, ma ci ero troppo affezionata per venderla e comprarne un'altra.
Il freddo pungente mi pizzicava il volto nonostante lo tenessi nascosto per metà dietro una grossa sciarpa di lana, e neppure il cappotto riusciva a darmi un po' di tregua dalla costante bassa temperatura. Tirai fuori una mano dalla tasca per controllare che ora fosse. Le sei e mezzo di pomeriggio.
Avevo appena finito il mio turno al lavoro, ed il mio capo mi aveva dato tante di quelle scartoffie da leggere e controllare che mi ero messa le mani nei capelli. Ma tutto sommato mi piaceva il mio lavoro, era da quando ero bambina che desideravo di fare la giornalista. Certo, forse il mio sogno non era esattamente quello di correre da una parte all'altra di Londra in cerca di chi i miei superiori mi chiedevano notizie, forse mi aspettavo più qualcosa come “E adesso, da New York, la nostra Susan Bannet in diretta, a te Susan!”, ma evidentemente mi sbagliavo.
Raggiunsi la macchina e con un enorme sforzo recuperai dalla borsa le chiavi, che infilai subito. Appena entrata nell'abitacolo mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo, almeno non c'era più quel vento sottile ad entrarmi nelle ossa.
Uscii dal parcheggio diretta verso casa, e distrattamente accesi la radio.
«...e ora passiamo alle notizie meteo per la prossima settimana.» gracchiava lo speaker. Tanto già sapevo che non avrebbe certo fatto bel tempo, neanche se eravamo a Marzo inoltrato, quindi prossimi alla primavera.
«Si, John. Per tutta la prossima settimana sono previste piogge sparse, inoltre arriverà la perturbazione numero sette di questo mese che porterà vari venti provenienti dal Nord e...» spensi la radio senza neanche sentire il continuo.
Sbuffai sonoramente mentre già sapevo che sarei rientrata tardi a casa per via dell'interminabile coda in cui ero bloccata. La gente proprio non capiva che suonare il clacson non avrebbe velocizzato il traffico, eh?
Era già quasi buio fuori, e gli edifici grigi sembravano ancora più grigi sotto le nuvole cariche di acqua. Il brutto tempo mi faceva venire mal di testa, deducibile quindi che vivendo a Londra io ci convivessi praticamente sempre. Strizzai gli occhi e sbuffai ancora.
Ero esausta. Quella mattina Rupert mi aveva sfiancato, dandomi più incarichi possibili giustificandosi con il fatto che fossi “la sua migliore dipendente”. Non sapevo se esserne lusingata o meno.
Rupert Smith, capo e cofondatore di un giornale online che aveva recentemente ottenuto molto successo, raggiungendo un gran numero di visite e guadagnandosi migliaia di lettori: il Daily London News. L'altro fondatore del giornale, Colin Manforth, aveva avuto una grossa lite con Rupert che li aveva portati a, diciamo, andare per diverse strade. Letteralmente, dato che poi Colin aveva intrapreso una lunga battaglia legale contro Rupert che ancora creava non pochi problemi al giornale.
Io ero una specie di tuttofare. Mi occupavo di articoli sportivi, di cronaca, di quotazioni in borsa, di interviste a personaggi famosi, perfino di sagre alimentari (ok, era successo una volta e non avrei permesso alcuna replica) e ogni tanto facevo anche da segretaria, con qualche extra si intende. Rupert era ormai da due anni che continuava a ripetermi che la mia carriera sarebbe sbocciata da un momento all'altro ma che, intanto, avrei dovuto darmi da fare.
«Sai, a ventisei anni Rupert, forse dovrei essere già sbocciata, no?» gli ripetevo io.
Finalmente il traffico si era un po' sbloccato e, anche se lentamente, ci si iniziava a muovere. Fuori dai vetri appannati della macchina c'era ancora un discreto movimento: gente che veniva e che andava, mamme con i bambini accuratamente posizionati dentro i loro passeggini, coppiette occasionali che correvano per trovare un riparo all'imminente pioggia, studenti che si affrettavano a tornare nei loro alloggi e qualche barbone che chiedeva l'elemosina. Era bella, Londra. Bella e affollata.
Intanto una leggera pioggerellina aveva iniziato a scendere, di quella pioggia sottile e fredda che era destinata a diventare un vero e proprio acquazzone. Accesi i tergicristalli.
Dopo svariati minuti riuscii a svoltare a destra e a prendere una scorciatoia per arrivare al mio appartamento. Normalmente sarebbe stata la strada più lunga, ma dato che il traffico non accennava a diminuire supposi che sarei arrivata prima.
Infatti, ben mezz'ora dopo parcheggiai davanti a casa.
Vivevo in un appartamento in periferia, zona abitata per lo più da studenti. Che poi anche io mi ero trasferita lì non appena mi ero sentita abbastanza grande per poter andare allo sbaraglio e al tempo anche io ero una studente. A vent'anni pensi di avere il mondo in mano, pensi che tutto possa riuscire al primo tentativo e che davanti a te ci siano solo traguardi. Quell'appartamento si era rivelato l'unica cosa che io potessi permettermi, anche se era a circa mezz'ora dal centro di Londra.
Guardai quell'edificio così familiare. Le pareti ricoperte di mattoni rossi che quando c'era il sole risplendevano di vivacità, davano un tocco di colore anche agli immobili vicini che erano pitturati con un banale grigio scuro. Non so perché l'architetto o chi a capo aveva deciso per quel colore così discordante con gli altri, ma così concordante con me. Appena ero arrivata, con una valigia piena più di sogni che di vestiti, ne ero rimasta affascinata. La mia casa sarebbe stata rossa, almeno di quello avrei potuto vantarmene.
Scesi dalla macchina ricordando che non avevo ombrello appresso, così fui costretta ad una corsa forsennata fino alla porta cercando di ripararmi con la borsa sopra la testa, inutilmente, ovvio. Mi ritrovai bagnata fradicia e tremante, mentre tentavo di inserire la giusta chiave nella serratura.
Entrai dentro salutando il portiere che mi rivolse un'occhiata che era tutto un programma. Effettivamente non dovevo avere un bell'aspetto, così bagnata e ansimante per la corsa. La gonna che indossavo si era completamente incollata alle mie gambe rendendomi difficili i movimenti già abbastanza limitati dai tacchi. E, come se non bastasse, era entrata un po' d'acqua nella borsa. Bene, Susan, complimenti.
Salii le scale maledicendo il fatto che il mio appartamento fosse al terzo piano. Quando finalmente lo raggiunsi feci un altro, l'ennesimo, sospiro di sollievo. Ancora tremante per il freddo, entrare dentro, al caldo, fu una vera e propria goduria.
Il mio appartamento si poteva definire... sofisticato. Quando ero arrivata, ben sei anni prima, non era altro che uno spazio vuoto con un divano e un tappeto che non si intonavano per niente e un bagno che definire vomitevole era un eufemismo. Mi c'era voluto del tempo, ma alla fine l'avevo sistemato nel migliore dei modi.
Il salotto dava un'atmosfera accogliente e futuristica direi, con il divano di pelle bianca e un pouf in un angolo del medesimo colore, un tavolino nel centro sistemato sopra un tappeto circolare. La tv a trenta pollici era addossata alla parete e, di fianco, c'era il mobile dove tenevo tutti miei libri e dvd e poi, ovviamente, lo stereo. Nelle altre pareti abbondavano quadri di autori sconosciuti e foto mie, di amici e parenti. Per finire, di lato al pouf, pendeva dal soffitto una poltrona che non toccava terra, di forma circolare, dove amavo sedermi per leggere un buon libro.
La cucina era discretamente piccola, ma lo spazio era fin troppo ben ordinato: di lato, tavolo in legno con quattro sedie (di cui puntualmente ne venivano utilizzate solo due) con al centro un cesto pieno di frutta; la credenza e il piano cottura erano dal lato opposto e sotto vi era una lavastoviglie, indispensabile per una nullafacente come la sottoscritta, e (non meno importante) il mio amatissimo forno a microonde; un frigo che restava spesso vuoto o con all'interno solo cibi immangiabili; un mobile sempre in legno dove ci tenevo tutto ciò che non riuscivo a far stare nella credenza.
Il bagno era forse la stanza che ero riuscita ad arredare meglio, gli avevo dipinto le pareti di azzurro, così come le tende, e avevo abbinato tutto a quel colore: portasapone, mattonelle, spazzolino, accappatoio, spugne, vasca da bagno... tutto. Sopra il lavandino c'era uno specchio che pulivo in modo maniacale almeno due volte al giorno e di fianco alla vasca avevo messo un mobile in cui riporre vari asciugamani, phon eccetera.
La mia camera da letto era invece abbastanza semplice: letto in un angolo ad una piazza e mezzo con affianco un comodino pieno zeppo di oggetti inutili; al lato opposto una scrivania gigante e piena di cassetti che tenevo sempre in ordine per non mischiare vari fascicoli che mi portavo a casa dal lavoro, oltre il computer munito di stampante ci avevo messo sopra anche la foto del mio bellissimo nipotino, figlio di mio fratello; nell'altra parete c'era il mio armadio (con specchio all'interno), anch'esso sempre in ordine per evitare di dover passare ore a cercare i vestiti. L'armadio era suddiviso in due parti principali: vestiti da lavoro, vestiti per il tempo libero.
Tutto sommato il mio era un appartamento molto carino e ben arredato, non a detta solo mia ma anche dei miei amici. E poi, non avevo grandi pretese.
Entrai lasciando, molto dolorosamente, gocce d'acqua ovunque. La prima cosa che feci fu quella di togliermi i tacchi e appendere il cappotto nell'appendiabiti vicino all'ingresso, poi mi sdraiai nel divano incurante del fatto che fossi ancora fradicia.
Il pensiero che anche il giorno dopo mi sarei dovuta svegliare alle sei e mezza del mattino per arrivare in orario di certo non aiutava la mia sanità mentale.
E pensare che solo qualche anno fa cercavo l'indipendenza, andare a vivere da sola mi sembrava un sogno perché significava realizzare tutti i miei più grandi progetti per la vita. Anche se ora rimpiangevo un po' tutte le attenzioni di mia madre e mio padre e la loro insistenza nel prendersi cura di me ero comunque grata a me stessa per non essere diventata una mammona e per non essere assolutamente un peso a nessuno. Raggiungere l'indipendenza economica era un grande passo, ne ero consapevole, e se c'era una cosa che non mi mancava era certamente i soldi.
L'avevo sempre saputo che partire per Londra e provare a sfondare nel giornalismo non sarebbe stata la via più semplice per sentirmi una donna in carriera, ma nonostante tutto non avevo mollato ed ero fiera di me stessa.
A bloccare questi miei pensieri esistenziali fu il campanello che suonò.
Mi precipitai alla porta chiedendomi chi potesse essere a quest'ora e convincendomi del fatto che se fossero stati un'altra volta i testimoni di Geova li avrei cacciati in malo modo.
«Ciao Susan.» mi salutò George.
Mi maledissi mentalmente utilizzando tutti i peggiori insulti che potessero venirmi in mente per non essermi ricordata dell'appuntamento con George.
George Cornish era la cosa più vicina ad un ragazzo che potessi avere. Era un impiegato che avevo conosciuto qualche mese prima durante un'intervista ad un capo aziendale, avevamo subito legato e dopo un po' lui mi aveva chiesto di uscire.
«Oddio, George.» riuscii solo a dire mettendomi una mano in fronte e invitandolo ad entrare dentro.
Indossava un completo abbastanza elegante dato che per questa sera c'era in programma di dover uscire fuori a cena, ma io l'avevo completamente scordato.
«Ti sei dimenticata, vero?» mi chiese con un sorrisino amaro, entrando e sedendosi sul divano. Cercai di fermarlo ma ormai si era già seduto, ottenendo solo di essersi bagnato i pantaloni e la giacca. Si alzò alzando le spalle con noncuranza e un sorrisino divertito in faccia.
«Io... scusa.» balbettai senza trovare qualcosa di più sensato da dire.
Dato che mi ero alzata mi affrettai a mettere a posto tacchi e tutto ciò che avevo lasciato in giro, compresi i milioni di fascicoli che avrei dovuto leggere per il giorno dopo.
«Se vuoi posso aspettare, tanto non è molto lontano da qui il ristorante.» mi fece George dal salone mentre io ero in camera mia a sistemare varie cose tra comodino e scrivania.
Lo raggiunsi con sguardo mortificato: «No guarda, perdonami ma stasera non ce la faccio. Rupert mi ha riempito di pratiche e devo leggerle tutte per domani. Scusami tanto, George...» tentai di giustificarmi.
Lui mi guardò annuendo leggermente e grattandosi la testa, come faceva sempre quando era nervoso. Poi alzò di nuovo le spalle e mi disse: «Ok, non fa nulla.»
Inutile dire che invece faceva, eccome. I sensi di colpa mi stavano divorando, così per qualche minuto mi limitai a guardarlo con uno sguardo da cucciolo abbandonato sperando che la mia posizione potesse risollevarsi un pochino.
«Quindi, beh io vado Susan.» mi disse dopo un po', avvicinandosi per salutarmi.
Ricambiai il saluto con un abbraccio e, una volta accompagnato alla porta mimai ancora una volta uno «scusa» in labiale per poi chiuderlo fuori.
Mi appoggiai al muro sentendomi veramente stanchissima. Avrei voluto solo farmi un bagno caldo e restare in ammollo per ore ma sapevo perfettamente di dover andare a sbrigare almeno parte del lavoro che Rupert mi aveva lasciato.
Mi trascinai fino alla mia camera e mi sedetti sulla scrivania, iniziando a dare un'occhiata. Sarebbe stata una lunga serata.












Note autrice.
Salve a tutti. Questa è la prima storia che scrivo su questo genere, come già ho specificato nella trama.
Il mio intento è quello di raccontare la storia di una giovane ragazza trasferitasi a Londra per cercare l'indipendenza e crearsi una carriera solida, un futuro.
Ovviamente sono ben accette critiche di qualunque genere, anzi pretendo che voi mi diciate esattamente cosa migliorare del mio stile. Vi prego di non essere dei lettori\fantasma e di lasciarmi qualche recensione che fa sempre piacere.
Un bacio a tutti, ciao.

 

  
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