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Autore: Marikan    01/04/2013    1 recensioni
Pseudo-seguito del mio precedente racconto "Eleanor", ma leggibile anche senza esso.
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Chiuse gli occhi, piano e visualizzò il vuoto, bianco davanti a sé.
[...]
Doveva usare il bianco, il candore per sondare il nero, l’abisso.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Io….non lo ricordo…”

Le parole uscirono insicure, tremanti e titubanti dalla sua bocca rossa di sangue rappreso. Il suo volto era una maschera sudicia di sangue e lacrime, le quali ora cadevano calde e copiose dai suoi occhi. Occhi verde smeraldo, occhi che ora guardavano sgranati ed impauriti gli agenti di polizia che andavano e venivano freneticamente, avanti ed indietro da quella porta, da quella stanza.

Aveva paura, tanta paura. Era spaventata, infreddolita e senza la minima idea di cosa ci facesse in una centrale di polizia alle quattro di notte. Il ricordo più lontano che potesse andare a pescare nella sua memoria era quando, circa un’ora prima, le avevano piantato la luce degli interrogatori negli occhi, dando vita al torrente di lacrime che non si sarebbe praticamente più fermato. Un lampo di luce bianca e poi tutto quel casino: ecco le uniche cosa che riusciva a ricordare.

Non sapeva cosa fosse successo; cosa avesse fatto per ridursi a quel modo: come si era imbrattata (anzi no, meglio dire ricoperta) di sangue, come gli erano rimasti sotto le unghie frammenti di pelle e peli, come avesse in bocca quel sapore metallico e nel naso quell’odore inebriante…

I lunghi capelli castani erano tutti arruffati, come dopo uno scontro, chiazzati a loro volta di sangue e fango, mentre il sudore li aveva fatti raccogliere in disordinate ciocche che ora cominciavano ad emanare un non proprio piacevole olezzo. I vestiti eleganti (un maglioncino verde di cachemire che s’intonava con gli occhi ed una gonna lunga di cotone ocra) erano strappati e lerci, irrimediabilmente destinati al sacco della spazzatura. I piedi scalzi pieni di graffi e tagli, così come collo e mani.

Eppure, sotto tutto quello sporco, sotto tutto quel sangue e quel sudore, c’era, di fronte agli agenti, una ragazza tremante come una foglia con due occhi grandi e spaventati, attraversata da scosse violente di tremore per cui dava realmente l’impressione di non sapere.

Secondo te finge o è realmente un caso di amnesia, o rimozione o come cazzo di chiama?” chiese il rubizzo sceriffo all’uomo in camice bianco che stava ritto e zitto alla sua sinistra.

Uhm…teoricamente è possibile. Che abbia rimosso ciò che ha fatto, intendo dire. Può essere successo qualcosa, anche un fatto insignificante, che ha fatto scattare qualcosa nel suo subconscio aprendo porte che nemmeno lei credeva esistessero. Spesso dietro queste porte si nascondono cose che la nostra morale, la nostra coscienza reprimono fortemente, perché in diretto contrasto con l’Io della persona. Dopo aver compiuto il fatto, dopo aver dato sfogo all’impulso primitivo che era scattato, esso si è sentito soddisfatto ed è, per così dire, tornato dietro la sua porta senza lasciare dietro di sé alcuna traccia. A volte la natura umana è così strana, inspiegabile, affascinante…”

Lo sguardo dello psichiatra si soffermò a studiare la ragazza dietro il vetro, nella stanza spoglia degli interrogatori, senza che lei potesse saperlo; mentre lo sceriffo si grattava il capo, non avendo capito un accidenti del discorso del suo collega.

Nel frattempo Eleanor, così si chiamava la ragazza, si guardava attorno; le labbra ridotte ad un taglio orizzontale sul volto, gli occhi due verdi lagune ed il suo corpo che sembrava su di una sedia elettrica accesa.

Tutti le domandavano, tutti le chiedevano chi cosa come dove perché…e lei ci stava pensando, provava a ricordare, si stava impegnando fino allo sfinimento, maledizione; ma non ci riusciva, non ricordava nulla, niente eppure loro continuavano, continuavano…

Chiuse gli occhi, li strizzò, tanto da pensare che non sarebbe più stata capace di aprirli, e si impose di calmarsi, di stare calma Eleanor, non vogliono farti del male, ti stanno solo chiedendo

(…un cazzo!)

Spalancò gli occhi di scatto, ebbe un ultimo, violento scossone e si immobilizzò. Cos’era? Cos’era stato quel pensiero? Non aveva mai neanche immaginato che potesse avere pensieri del genere: era una ragazza a modo, educata bene, tranquilla, che non avrebbe mai fatto del male ad una mosca.

(Eppure guarda dove sei.)

Ancora. Riguardò attorno possibilmente ancor più spaurita di quanto già fosse, assicurandosi di essere davvero sola nella stanza. Nel frattempo, lo psichiatra e lo sceriffo avevano smesso di respirare per alcuni secondi, in attesa di vedere come si sarebbe comportata.

Tornò a fissare il tavolo di metallo imbullonato al pavimento, tentando con maggior caparbietà di farsi venire alla mente ciò che gli agenti insistentemente le chiedevano, ciò che ora aveva bisogno di sapere.

Chiuse gli occhi, piano e visualizzò il vuoto, bianco davanti a sé. Era il suo espediente per far nascere le poesie, le storie, le filastrocche e le fiabe, per far fiorire tutte le sue piccole e deliziose opere. L’attimo bianco, l’ignoto isolato prima di immergersi nella piena concentrazione di un quadro ad olio, di un lavoro a punto croce, di una composizione floreale.

Ora doveva farne uso per far riaffiorare quei momenti bui di cui non aveva memoria. Doveva usare il bianco, il candore per sondare il nero, l’abisso.

Lentamente qualcosa cominciò a prendere forma davanti a lei, nel freddo vuoto: era un volto. Un volto che all’inizio le sembrò completamente sconosciuto ma che pian piano le risultò sempre più famigliare. Era il volto di una ragazza dai lunghi capelli corvini, gli occhi grigi e freddi come il ghiaccio ed una sigaretta che fumava lenta, in dolce bilico sulle sue labbra impercettibilmente piegate all’ingiù. Ma erano gli occhi, o meglio la loro espressione, che colpì di più Eleanor: in quegli occhi sembrava raccolta tutta la malinconia, tutto il dolore di vivere, e tutta la consapevolezza della morte che c’è al mondo. E di colpò ricordo quella giornata d’estate, quella giornata in cui quella ragazza le aveva salvato la vita per ben due volte ed in cui aveva trovato un’anima da consolare, un’anima da curare.

Artemis…” biascicò, in un rinnovato attacco di pianto

ARTEMIS!” urlò, portandosi le mani chiuse a pugno sugli occhi, come fanno i bambini; e come i bambini stava singhiozzando rumorosamente mentre le lacrime tracciavano solchi perlacei nei grumi di sangue. Il suo cuore si fermò e ripartì, si fermò e ripartì, si fermò e ripartì.

In pochi secondi rivisse la loro giornata, rivisse le risa, gli scherzi, le chiacchiere. Rivisse la giornata in cui aveva portato un po’ di luce nella vita di una persona. Ed in cui un’ombra si era gettata sulla sua.

Di colpo il nero esplose, divampò come un fuoco dannato davanti ai suoi occhi sopraffacendo completamente il bianco. Lampi rossi e blu che saettavano nella tenebra, figure indistinte che urlavano e la sensazione di qualcosa di vischioso tra le dita. Ricordava tutto ora, ricordava ciò che era successo da quando aveva lasciato Artemis, senza dire una parola, senza nemmeno salutarla. Ricordava tutto e avrebbe voluto non ricordare. Perché ora dentro di lei si agitava qualcosa, qualcosa che era entrato quel giorno e non aveva nei suoi progetti dell’immediato futuro quello di andarsene, di lasciarla stare, lasciarla in pace.

Cristo, sta avendo una crisi epilettica!” urlò lo psichiatra, vedendola contorcersi sulla sedia, in preda alle convulsioni.

Si fiondò dentro la stanza, mentre dalla tasca del suo camice estraeva una siringa.

No…no…no…NO!NO!NO!NO!!!” Ricordava, ma avrebbe voluto dimenticare. Quel giorno aveva donato un po’ di speranza, ma in cambio aveva ricevuto un po’ di disperazione.

Il medico le si avvicinò fulmineo per farle l’iniezione. Lei si irrigidì per un solo secondo, poi scattò. Saltò addosso al medico e gli affondò i denti nella giugulare.

  
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