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Autore: _Sherlock    01/04/2013    2 recensioni
I mostri sono reali, e anche i fantasmi sono reali. Vivono dentro di noi e a volte vincono. -
Scritta per un concorso letterario dal tema 'Parole e note'. Ancora devo capire che accidenti significhi.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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M. è così piccola che avresti paura di calpestarla quando cammini, ma ha due occhi grandi, grandi e blu che non riescono a piangere. E’ come un grande imbuto M., che ingloba tutto e non sa far uscire niente, ed ha paura che la sua sediola con due viti su quattro non riesca a reggere il peso di tutto lo schifo che ingurgita e la lasci semplicemente cadere in terra. Non è neanche sicura di potersi rialzare, dopo.

M. è un fantasma che tiene assieme un mucchio d’ossa per miracolo, forse con un po’ di nastro adesivo, perché di carne rimasta proprio non ce n’è. Se ne sta ripiegata in un angolo, M., riposta in quel buio triste che la luce incerta del crepuscolo, varcata la soglia del suo davanzale, puntualmente non riesce a raggiungere; come una bambola un po’ troppo vecchia, dimenticata lì a decomporsi da una bambina ormai un po’ troppo grande.

Giorno dopo giorno M. si spilla addosso un involucro un po’ più stretto, e tira e tira e prima o poi la strapperà quella pelle in cui soffoca, che ha sempre un centimetro di troppo. Le piacerebbe riconoscere quello sgorbio che dallo specchio le fa una smorfia, fa un po’ ribrezzo a dire il vero. Guarda meglio; prova a sorridere, ma il ghigno che quella cosa le restituisce è così raccapricciante che le causa un conato di vomito; ed è già china sul water e si sente leggera nell’unico modo che conosce perché i suoi occhi non riescono a piangere; per un momento si crede a casa, davvero, in quel bagno che smaltisce ogni porcheria per via di quell’unico gabinetto che forse le somiglia anche un po’. 

M. ha una stanzetta cui manca qualcosa, sempre, un vuoto tanto discreto che lei non riesce nemmeno a notarlo. Son le parole a mancare in quel buco. Le parole, i pensieri, la musica; tutto affoga nel più ingombrante e subdolo dei silenzi, perché M. ha l’udito ma non lo usa, e questo la rende tale e quale ad un sordo. E’ così facile cercare sé stessi nei labirinti di una canzone, piuttosto che rovistarsi nelle viscere alla ricerca delle parole più giuste: la mente scivola spontaneamente in quello spazio tra la melodia ed il testo, rendendo superfluo l’intervento del pensiero razionale, ammesso che qualcosa da dire lo si abbia. E’ così che fanno le altre. M. le odierebbe se sapesse della loro esistenza: loro hanno la pelle della giusta taglia; ma M. non le conosce, i suoi occhi non piangono ed in camera sua di musica non ce n’è.

M. salta due pasti su tre, “autocontrollo” lo chiama. Ed ogni volta che lo stomaco le si stringe sta un po’ meglio, per qualche istante. Eppure di tanto in tanto M. quell’autocontrollo non ce l’ha, e si lascia andare e si sente sporca subito poi, è allora che restituisce tutto ciò di cui si è nutrita, con cui s’è sporcata; poi tira lo sciacquone.

Esiste ormai a malapena, M., e sugli scaffali la presenza di dischi sommersi dalla polvere la colpisce come la prima ventata d'aria gelida uscendo di casa a mattina.  Allunga il braccio e neppure se ne accorge, la plastica trasparente delle custodie è liscia ed estranea alle sue dita, che forse di musica non ne hanno mai toccata.

Inizia con un suono secco e deciso, quasi la spaventa, poi è un altro, un altro e un altro ancora, l'uno si trascina dietro l'altro ed è un fiume che scorre impetuoso nella desolazione di quel silenzio protrattosi tanto a lungo; e come ogni fiume che torna al mare, a questo si unisce ora l'affluenza di tutte le lacrime che quegli occhi grandi e blu non credevano di saper versare.

   
 
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