Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |       
Autore: Orient_Express    02/04/2013    4 recensioni
Il castello di carte si sta sfaldando davanti ai miei occhi e la verità inizia ad emergere in trasparenza sotto i giorni di menzogne, sotto il loro trucco sbavato. La bella favola è diventata una parata in maschera grottesca e patetica a cui non credo più nemmeno io.
Nessuno è così bravo a mentire a se stesso.
***
Guardiamo svogliati un film al computer, Rafael con la testa appoggiata sulla mia spalla mentre mi stringe piano una mano, mi accarezza coi polpastrelli le dita rovinate.
«Juan?»
«Mh?»
«Quando inizia il tradimento?»
Sussulto.
Dovunque inizi, io quel punto l’ho varcato.
«Perché?»
Scrolla le spalle, senza alzare la testa.
Mi chiedo distrattamente come faccia a sopportare i personaggi del film che si muovono inclinati da un lato, mi chiedo come può tollerarli mentre sfidano la forza di gravità e vivono le loro vite da una prospettiva tutta nuova.
«Così. Per sapere»
«Secondo te dove inizia?»
«Nella testa»,
risponde tranquillo, come se a questa cosa ci avesse pensato tanto.
[Prima classificata al contest “Le sfumature del dolore” indetto da phoenix_esmeralda; ha partecipato con il prompt "Tradimento"]
Genere: Erotico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Istruzioni per l'uso


La narrazione procede attraverso l'alternarsi di quattro voci narranti, ognuna in prima persona: sono consapevole del fatto che non sia esattamente d'immediata compresione!
Sperando che possa essere d'aiuto, ho deciso d'impaginarla in modo tale che due personaggi (Andrés, Rafael) utilizzino l'allineato a sinistra e gli altri due (Juan, Diego) utilizzino l'allineato a destra. Il punto di vista passa dall'uno all'altro con un "a capo", uno spazio bianco, mentre i tre asterischi sono utilizzati per segnalare il cambio-scena.
La storia si divide in tre capitoli, piuttosto lunghi, ma molto "ariosi": la pagina è più bianca che nera... Tutto ciò che qui può risultare ancora oscuro sarà chiarissimo alla fine del secondo capitolo.
Alla fine del terzo capitolo troverete qualche altra parola, considerazione, 
ringraziamento.

Come segnalato nell'anteprima, questa storia ha partecipato al contest "Le sfumature del dolore" di phoenix_esmeralda con il prompt "tradimento" (filo conduttore dell'intero racconto) aggiudicandosi la prima posizione, successo assolutamente inaspettato che mi riempie di gioia e di orgoglio!

Ringrazio phoenix_esmeralda, per aver indetto questo bel contest, e chiunque vorrà fermarsi a leggere. Auguro a tutti una buona lettura, spero di cuore che apprezzerete!

-R.



 

Image and video hosting by TinyPic






I
Giovedì 24 maggio

La giostra è inarrestabile.

 

L’hai tirata così tanto, che si è spezzata.
È tanto grave se un gay diserta le lezioni del pomeriggio per andare a trovare a casa un altro gay, quando tutti e due stanno ormai rinunciando a tenere stretti i brandelli delle proprie storie d’amore alla deriva?
E se il primo gay lo fa all’insaputa del proprio fidanzato pure gay, ma che passa la vita a far sembrare meno finta la maschera da etero infelice che si è cucito addosso?
Perché suona tanto come un tradimento?
Cammino sul marciapiede a testa bassa, in modo automatico, quasi meccanico, osservo intensamente la punta delle mie scarpe in tela, che entrano ed escono dal mio campo visivo a ritmo regolare, cadenzato.
In testa ho solo un indirizzo, un indirizzo e mille frammenti di un passato felice che mi chiedo che fine abbia fatto.
E un migliaio di pensieri vorticosi e aggrovigliati da cui non riesco a trarre alcuna conclusione.
L’indirizzo è quello di Diego.
E Diego è anche il soggetto di quasi tutti i miei pensieri.
Diego che ho chiamato dopo la litigata furiosa con Juan, no, dopo la pioggia acida di parole che Juan mi ha sputato addosso, ognuna bruciante sull’orgoglio come piccole schegge infuocate, 
Diego che ha ascoltato i miei sfoghi al telefono alle undici di sera, 
Diego che non sapeva cosa dire, 
Diego che non ha riattaccato anche se non sapeva cosa dire, 
Diego che ha aspettato in silenzio al telefono ascoltando il mio respiro, 
Diego che mi ha detto vediamoci con la sua voce che quella sera mi è sembrata così calda,
Diego che mi ha lasciato l’indirizzo, 
Diego che mi aspetta in casa propria, 
Diego che non si vergogna di quello che è, 
Diego che non lo nega, 
Diego che mi capisce, 
Diego che mi è vicino, 
Diego che ha dignità, 
Diego che ha coraggio, 
Diego che è un vero uomo, 
Diego e le sue spalle, 
Diego e le sue mani belle, 
Diego e il pomo d’Adamo, 
Diego e la pelle scura, 
Diego e… e il suo…
Diego che è nella testa, 
Diego in ogni pensiero, 
Diego nella pancia dietro l’ombelico dove le farfalle si alzano in volo e sembrano non lasciarmi respirare, 
Diego in ogni battito del cuore, 
Diego e il tradimento cerebrale che è all’inizio di ogni tradimento vero, che è già tradimento vero, 
Diego e la paura, 
Diego e il senso di colpa, 
Diego e il desiderio di fare male, 
Diego e il desiderio.
Mi blocco.
Ho sbagliato strada.

***

Non sono più un dipendente modello.
Chiedere due giorni di ferie nella stessa settimana e nessuno dei due per malattia è più di quanto il mio amor proprio possa sopportare; e che il secondo sia per Juan, adesso, mi sembra quasi naturale.
Non ci provo neanche più a raccontarmi la bella favola del dipendente modello, del fidanzato perfetto che non sono mai stato ma che in fondo fino all’ultimo speravo di poter essere. 
In caduta libera. 
Ho perso la bussola.
Il castello di carte si sta sfaldando davanti ai miei occhi e la verità inizia ad emergere in trasparenza sotto i giorni di menzogne, sotto il loro trucco sbavato. La bella favola è diventata una parata in maschera grottesca e patetica a cui non credo più nemmeno io.
Nessuno è così bravo a mentire a se stesso.
Fisso a lungo il legno della porta, la targhetta con il suo nome sul campanello.
Rafael Rodríguez, a caratteri stampati sulla stessa targhetta, sotto il suo nome, mi urla in faccia l’intimità violata di cui sto rubando il calore e l’energia, l’intimità che sto infettando con la mia presenza immorale, illegale, con il mio dolore indecente e la mia patetica ricerca di… qualcosa…
Non lo so bene, di cosa.
Di calore, probabilmente.
Ricerco una connessione.
Premo con forza il campanello, mi preparo ad entrare nella terra proibita.

***

«Vieni, entra pure!»
«È permesso…?»
«Entra, entra, benvenuto!»
«Ciao!»
«Come stai?»
«Bene, scusa il ritardo…»
«L’hai trovata bene, casa?»
«Mi sono perso…»
«Ah!»

Diego scoppia a ridere.

«Forse ti ho spiegato male…?»
«No… ero distratto…»
«Non farci caso, c’è un po’ di casino…»

Mi guardo intorno.

«Non farci caso, ho detto! Vieni, andiamo in salotto… È che… ho lavorato stamattina e allora… sì, non ho avuto tempo di riordinare…»

Scrollo le spalle.

«Non fa niente, anche da me c’è casino»

Entriamo in salotto. Faccio per sedermi sulla poltrona in stile vittoriano quando Diego mi afferra per un braccio.

«Vieni qui…»

Mi tira lievemente verso il divano.

«Ah… va bene…»

Mi lascio sprofondare proprio in mezzo al divano, affondo tra i cuscini.

«E di pomeriggio non lavori?»
«Ho chiesto il pomeriggio libero»
«Per…?»
«In che senso?»
«Per fare cosa?»

Lui si mordicchia il labbro inferiore.

«Per… beh, per stare qui, no?»

***

Varco la soglia, entro nella terra proibita.
Juan mi accoglie abbastanza sbrigativo, privo di complimenti o cerimonie come suo solito, ma neanche io gli presto molta attenzione: le mie attenzioni sono tutte per Rafael, che osservo ora davvero per la prima volta. Lo osservo ora per la prima volta perché ieri ero così concentrato a capire nel profondo che questa era la casa di Juan da non aprire gli occhi alla cruda verità: questa è anche la casa di Rafael.
Rafael è in ogni angolo della casa, in ogni oggetto. Da ogni muro mi osserva compiere movimenti stranieri nel territorio altrui e mi ricorda che per me qui non c’è posto, mi ricorda che in questo posto sarò sempre il corpo estraneo, l’intruso, il virus, mi ricorda che non posso continuare a chiudere gli occhi alla realtà, non posso raccontarmi ancora a lungo la favola bella a cui non credo più nemmeno io.
Rafael è in ogni angolo della casa, in ogni oggetto: nella fila di scarpe di due diverse misure allineate all’ingresso, nei libri di medicina lasciati in disordine sul tavolino della cucina, nella fotografia appoggiata quasi distrattamente sul comodino dove compare per la prima volta con un viso, con un sorriso.
Nella fotografia Rafael non è più una figura immaginata in cui la sola realtà concreta è data dal nome e dal ruolo, una presenza incorporea frantumata in cinquanta metri quadrati che mi ricorda ogni secondo che non sono il solo: ora Rafael ha un viso, un sorriso, che piega quelle labbra rosa come un’onda. Rafael e Juan sorridono all’autoscatto sventolando qualcosa che sembra tanto un biglietto di qualche evento, qualcosa che osservo solo per un secondo prima di distogliere lo sguardo, ho prurito alle mani, vorrei strappare quel sorriso in mille frammenti, ferire l’onda sottile delle sue labbra rosa, vorrei scrollare con forza le spalle di Juan e urlargli contro
ma come fai?
Con che coraggio?
Nessuno merita questo dolore!

 

«Andrés
«Eh?»

Mi riscuoto all’improvviso, non ho idea di cosa Juan mi abbia detto.

«Stai bene?»
«Sì… sì, certo, perché?»
«Hai gli occhi rossi»
«Ah»,

tiro su col naso,

«No, non è niente»

Juan mi osserva sospettoso.

«Sei sicuro?»
«Ma certo…»
«Okay»,

scrolla le spalle.

«Juan?»
«Sì?»
«La… copriresti… la foto?»

Indico col pollice verso il comodino, senza neanche guardarla.
Mi sembra un attimo sorpreso, come se non si fosse accorto dell’oggetto finché non gliel’ho indicato, forse perché col tempo tutti gli oggetti di casa propria smettono di essere rilevanti, perdono progressivamente di spessore affinché chi lì ci abita possa concentrarsi solo sulle novità, solo su ciò che lì non dovrebbe esserci.
Per un secondo soltanto sembra mettere a fuoco la fotografia e un guizzo negli occhi mi fa pensare che lui non è qui, per un istante soltanto non è più qui con me ma è lì con lui, in quella foto, è tornato a quel giorno, ma è solo un istante e il guizzo si spegne mentre borbotta

«Certo»

e si affretta a girarla.
Juan… Neanche tu meriti questo dolore…

***

Mi guardo intorno, perché nelle case degli altri fermo non so starci, e se non avessi questo lieve timore di sembrare maleducato mi alzerei addirittura in piedi e inizierei a girare nella stanza toccando ogni oggetto e osservandolo a lungo, con cura.
Non sono mai stato capace di farmi gli affari miei, né sono mai stato capace di far sembrare al padrone di casa che mi stessi facendo gli affari miei, osservando con discrezione e nonchalance, dissimulando.
L’incubo di mia madre, convinta di non avermi educato bene.
Mi giro e mi rigiro sul divano, mi guardo intorno studiando il salotto di Diego alla ricerca di qualcosa, senza sapere neanch’io di cosa, quasi mi aspettassi di trovare qualcosa d’interessante, da un momento all’altro.

«Vuoi bere qualcosa?»,

mi chiede Diego, forse per sciogliere la tensione o forse per spostare il mio sguardo indagatore dal suo disordine.
Torno a focalizzare la mia attenzione su di lui, annuisco, soltanto, con un sorriso lieve che m’increspa le labbra:

«Grazie»
«Un gazpacho

Si vede proprio che stai con un meridionale…

«È troppo freddo per il gazpacho… E poi l’aglio puzza»
«E allora? Devi baciare qualcuno?»

No di certo.

«Senti, ma non ce l’hai un succo di frutta?»,

cambio discorso.

«Ah…! Ma quindi c'è qualcuno che vuoi baciare… o sbaglio?»

Che hai da ghignare?

«Lo bevo solo alla pera»

La mia apparente mancanza di malizia lo lascia per un attimo in silenzio.
Sospira:

«Ne ho di tutti i tipi, tanto già lo sai… Però bevi dal bicchiere»
«Non sono un animale…!»

Alzo appena la voce per farmi sentire, Diego sta già andando in cucina.
Forse la battuta mi è uscita un po’ pesante.
E sinceramente, non lo so bene neanch’io il perché.
Non so perché all’improvviso mi sono sentito libero di essere stronzo verso questo fidanzato che ora non c’è, questo fidanzato che beve i succhi di frutta direttamente dal contenitore senza neanche chiudere il frigorifero, questo fidanzato che non getta nella spazzatura i cartoni del succo di frutta neanche quando dentro ci sono solo due gocce, tutto quello che fa impazzire Diego di fastidio.
Questo fidanzato di cui so già tutti i difetti senza averlo mai incontrato ma di cui so già anche la bellezza, il fascino.
Forse per questo l’ho soltanto intravisto in un paio di fotografie nel salotto che non ho di certo intenzione di osservare attentamente, perché non vorrei riconoscerlo, se mai un giorno mi capiterà d’incontrarlo in giro, perché forse non c’è poi neanche niente da osservare attentamente, non c’è niente di eccezionale nella camicia bianca e nei capelli biondi che ho solo intravisto nella fotografia. Perché mi piace continuare a pensare che sia così, che il suo fidanzato non sia poi niente di speciale, che chiunque potrebbe essere meglio di lui, che io stesso potrei essere meglio di lui, perché il fidanzato ora non c’è e perché per un tempo breve, brevissimo, ma ancor più prezioso proprio perché breve, finalmente, ci sono solo io: solo io in casa di Diego, seduto sul suo divano, io bevo i suoi succhi di frutta e rubo solo per me qualche minuto dalla vita del suo fidanzato.
Mi piace pensare di poter essere l’unico, fosse anche solo per un istante.

***

«Lepu [1], l'hai mai fatto di lato?»,

la domanda di Andrés mi prende alla sprovvista.

«Scusa?»
«Dico, sdraiato su un fianco»

Ci penso un attimo. La rassegna delle più memorabili scopate con Rafael mi scorre davanti agli occhi, ognuna fa male come uno schiaffo preso in pieno viso.
Scuoto la testa, più per scacciare il pensiero che per dire di no.

«Lepu
«Mh?»
«L’hai mai fatto?»
«No…»
«Ti va di provare?»
«Certo…»

Per un secondo nessuno di noi dice niente, nessuno si muove.

«Però devi fare qualcosa per quei peli, perché ieri mi hai fatto male!»,

continuo io.

«Eh, però ieri non ti lamentavi…»

Andrés sogghigna.

«Stai scherzando? Mi hai sfondato

Ridacchia soltanto, senza parlare.

«E se vuoi continuare a fare sesso con me, devi farteli crescere!»,

riprendo, ignorando la sua risata leggera.

«Okay, okay, ho capito!»
«Ma come fa il tuo ragazzo?»

Il sorriso gli si congela in bocca.

«Ho capito»,

ripete secco, prima di alzarsi e raccogliere da terra i jeans attillatissimi, abbandonati sul pavimento.
Prende qualcosa dalla tasca.

«Cos’è?»,

gli chiedo incuriosito, indicando col mento la piccola confezione circolare, di metallo leggero, simile a quella di una crema per mani.

«Burro di karité»
«E che devi farci?»
«Cerco di non farti piangere»

Andrés passa un dito sulla sostanza bianca, cremosa, ne raccoglie una piccola quantità sulla punta dell’indice e se la passa sui peli pubici tagliati corti solo mezzo centimetro, lasciandone uno strato sottilissimo, leggero e trasparente.

«Perché, chi l’ha deciso che sarai tu a scoparmi di nuovo?»
«L’ho deciso io. E poi mi sembra proprio che l’abbia deciso anche tu, no?»

Non raccolgo la provocazione, mi limito ad osservarlo, scettico.

«Dici che funziona?»
«Proviamo»

Immerge nuovamente il dito nel barattolino e stavolta si passa il burro di karité sulle labbra, sulle mani, sui gomiti.
Un sorriso divertito mi arriccia gli angoli delle labbra.

«Senti, ma se mi fa male ti scopo io»
«Okay»

Mi porge il burro di karité.
Non capisco.

«Ma… non mi serve…»
«Fidati, ti serve»

Ehi, non ammiccare così.

«Eh?»
«Te l’ho detto che non ti sei lamentato, ieri»

Sogghigna con una smorfia beffarda.
Ma allora avevi usato qualcosa!

«Okay, okay, faccio io!»
«Eh? Tu fai cosa
«Senti, le tue dita sono spaventose!»

Gli strappo di mano la confezione e ci immergo il dito, raccolgo il burro di karité con la punta dell’indice. 
Andrés non risponde niente, non si muove, ma il suo sguardo si muove, lo sento affamato sulla pelle, il suo sguardo pesante e presente assaggia ogni centimetro che gli offro alla vista.

«Fermo!»,

le sue dita bianche, da maschio, si serrano attorno al mio polso,

«Non puoi fare così»
«Che c’è?»,

non capisco dove vuoi andare a parare.

«C’è… c’è…»,

distoglie lo sguardo, arrossisce appena,

«C’è che sei troppo bello»

All’improvviso si annusa il dorso della mano, non mi lascia il tempo di ribattere.

«Questo burro di karité puzza!»
«Di che puzza?»
«Boh… di… di burro. Di grasso…»

Mi chino sul suo pube e gli sfioro i peli con le labbra, con la punta del naso, faccio solo finta di annusarlo.

«Dici che puzza? Io non sento niente…»
«Senti meglio…»

Passa le dita tra i miei capelli, mi spinge lievemente la testa verso il basso.

***

Mi siedo accanto a lui sul divano:

«Come stai?»

Rafael stringe il bicchiere tra le mani, scalda il vetro con i palmi e ogni tanto beve un sorso. Giocherella con la cannuccia nera senza usarla, la muove solo tra i polpastrelli di indice e pollice, guardando distrattamente il liquido freddo.

«Tu come stai?»

Piego solo gli angoli delle labbra nell’ombra di un sorriso.

«Io sto bene…»,

mento a me stesso,

«Tu come stai?»

Osservo il suo profilo, il velo leggerissimo di lentiggini che gli accarezza le guance, come le accarezzavano ad Andrés prima che le facesse ripulire con il trattamento laser.

«Mh, sai…»,

inizia lui, il preludio di un discorso che con la domanda non c’entra niente, forse perché rispondere a come stai? non è facile, vero, Rafa?, quando chi lo chiede vuole saperlo per davvero,

«Quando ho incontrato Juan io non cercavo niente»
«Mh»

Annuisco. 
Non trovo nient’altro da dire, perché ci metto sempre qualche secondo prima di seguirlo su una nuova pista, e forse anche perché per una volta vorrei tanto che non fosse sempre lui il soggetto immobile dei suoi discorsi, il suo fidanzato gay che dice di non essere gay e che ha paura di essere ciò che è.

«Beh, sì»,

riprende Rafael, quasi parlasse a se stesso:

«C’è stato in realtà un periodo della mia vita in cui volevo assolutamente avere un ragazzo, ma era prima, è stato prima, ero giovane, mi ero appena lasciato, sai… le solite cose… Poi è passato, non lo so, mi è passata, così, mi è passata e basta, sono cresciuto, ho iniziato a star bene così, da solo. Mi sembrava di non aver bisogno di nessuno, quasi non lo volevo, un ragazzo!»

Fa una breve pausa, giusto il tempo di prendere fiato.

«Insomma, pensavo… di non aver bisogno dell’amore, per essere felice… Così ho smesso di cercare. E lo ero davvero, sai? Felice. Poi non so, è successo. E basta. L’ho visto. È successo e basta. E non so dire…»,

bisbiglia appena,

«…se quella mattina d’aprile l’ho salutato per sbaglio o se invece lo sapevo… che era quello giusto»

Beve un sorso di succo di frutta, si passa la lingua sulle labbra.

«Mi capisci?»,

mi chiede a bassa voce.
Non rispondo.
Non capisco.
Spiegami tu.
Riprende a parlare, quasi mi leggesse nel pensiero. 
Perde lo sguardo in un passato remoto, o forse in un futuro troppo delicato per poter alzare la voce, per potersi permettere brusche curvature di tono, pause troppo prolungate, questo tremore alle corde vocali che non riesce a far tacere.

«Sto dicendo che quando mi sono innamorato io non cercavo l'amore e questo mi ha permesso di viverlo bene perché non volevo niente, perché non pretendevo niente, ma ora è diverso, ho iniziato a pretendere, ora voglio qualcos’altro e se si vuole qualcosa allora sì che sono cazzi perché la realtà rischia sempre di non essere all’altezza di quello che vogliamo, e così non ci accontentiamo mai e continuiamo a chiederci e se fosse quello giusto?, perché quello giusto lo stiamo aspettando e non è che arriva e basta, e ora che di nuovo voglio qualcosa io ho incontrato te, e ora come facciamo?»

Finalmente mi guarda negli occhi. 
Brilla una lucina, lì in fondo al pozzo scuro delle sue pupille.
Ha l’espressione preoccupata di chi non sa risolvere un problema troppo grande.
Non puoi essere un po’ più romantico?
Lui è così: prende i sentimenti e li espone come se fossero un problema di algebra, li scorpora, li seziona con una lucidità disarmante, con la candidezza di un bambino.

«Mi capisci?»,

insiste.

«Il mio ragazzo mi tradisce»,

dico all’improvviso.

***

«Allora…? Fa male…?»

Ti sussurro all’orecchio, il mio respiro caldo ti accarezza la pelle e le labbra la sfiorano, morbide.

«No»
«Mh… Visto…?»

Ti accarezzo di baci la linea del collo, la curva della spalla, deposito sulla tua pelle sudata questa scia di piccoli baci umidi a labbra socchiuse, ognuno fa sentire un piccolo schiocco, un risucchio sottile. Passo solo la punta della lingua lungo l’orecchio, bagnandolo appena, succhio piano la pelle morbida del lobo mentre con le mani ti accarezzo come se volessi disegnarti, come per assaggiare questa pelle così presente così bella che è il luogo del delitto, questa pelle su cui si consuma il dramma struggente della mia costante ricerca di calore.
Ti fa male, questo abbraccio?

«Juan…»

Vorrei chiederti
perché hai bisogno di soffrire così?

Vorrei dirti
smettila... di farti male...

Vorrei dirti adesso la cosa giusta e la cosa giusta non so neanche qual è, non so neanche se c’è, non so come dirtelo che ho questo nodo che fa male in fondo al petto e mi dice che l’addio è vicino, che la storia d’amore è agli sgoccioli, sta esalando l’ultimo respiro, perché quando si arriva troppo vicini alla fine è meglio andare da soli, e non so come dirtelo, che a dirti addio non sono pronto.
Io ho proprio la sensazione… che non ti rivedrò mai più…
E fare l’amore non è mai stato così triste.

«Juan…»
«Mh…?»

Ti prendo una mano, intreccio le dita alle tue.
Le tue mani sono così piccole…
Soffi aria tra i denti.
Porto la tua mano alla bocca, bacio lentamente il palmo, quasi al centro, raccolgo con le labbra le perle di sudore della tua pelle che suda freddo e inspiro a fondo, per un istante soltanto mi accarezza la mente l’idea di morire soffocato da questa mano piccola e rovinata che mi accarezza piano la guancia.
Ti lascio, riporti la mano sul materasso, stringi il lenzuolo mentre ti stringo tra le braccia e sussurro di nuovo il tuo nome.

«Sì…?»

Non dico niente.
Una lieve pressione sulla tua spalla e ti giri indietro, verso di me.
Mi chino in avanti.
Quando le nostre labbra si sfiorano le tue mani stringono con più forza il lenzuolo, le mie mani stringono le tue, le accarezzano lente.

***

Il mio ragazzo mi tradisce.
La voce di Diego mi rimbomba ancora nelle orecchie.

Succede a volte che qualcuno parli e sia necessario qualche momento prima di capire cos’ha detto, quasi prima di capire che ha parlato davvero, e in questi brevi istanti la voce resta come impigliata nell’orecchio e lì si ripete, sempre uguale, finché finalmente non ci accorgiamo che quel suono ha un significato e allora ci affrettiamo a rispondere.
La sua voce adesso è così, si ripete sempre uguale nelle mie orecchie che della sua voce non mi stancherebbero mai, anche se quando parla Diego aspira appena la S.

«O forse…»,

continua guardando il pavimento,

«…sono io che mi lascio tradire»

Non mi affretto a rispondere.
Non so cosa dire.
Non so quasi neanche cosa pensare.

«Non è che l’ho scoperto… Non me l’ha neanche detto…»

Sembra parlare da solo, con questo tono di voce basso e quasi dolce e lo sguardo perso, triste.

«Lo so e basta, perché quando succede te ne accorgi. Lo senti dentro, che l’hai perso…»

Continuo a non dire niente.
Non ascolto il suo monologo, la sua confessione. 
Ho solo la sua voce nella testa che mi sussurra all’orecchio mi lascio tradire.
Quindi è colpa tua…?
E forse in fondo un po’ mi piace anche, questa prospettiva illogica, irrazionale, questa idea assurda e perversa per cui se un uomo viene tradito la colpa è sua.
Diego tace.
Il suo ragazzo lo tradisce.
Diego lo tradisce da mesi con la televisione accesa.
Lo tradisce ogni volta che dorme sul divano invece di aspettarlo sveglio al rientro da lavoro.
Lo tradisce ogni volta che fuma in casa, ogni volta che lascia le ciabatte in disordine sul pavimento del salotto.
Lo tradisce ogni volta che gli mente per uscire con me, per chiacchierare ipocritamente innocenti davanti a un cappuccino con questo sguardo scuro ancorato nel fondo degli occhi, in fondo alla nuca.
Anch’io tradisco Juan nella testa, il tradimento cerebrale che è l’inizio di ogni tradimento vero, che è già tradimento vero.
Taccio.
Sussulto quando Diego mi appoggia una mano sul ginocchio: il livido fa ancora male sotto la sua pressione calda, delicata, una pressione lieve ma così decisa che di lui dice tutto, che mi parla dentro, mi arriva nel profondo e mi fa girare a guardarlo, incrocio il suo sguardo e il suo sguardo è talmente limpido che ora posso leggerlo, Diego mi viene così vicino che sento il suo fiato caldo sulle labbra socchiuse mentre sussurra a due centimetri da me

«Rafa… parlare con te… mi sta dando… davvero tanto…»

e io sento che all’improvviso ha capito tutto, di lui.

 

Sai, Andrés?
A volte penso che ne ho abbastanza. 
Ne ho abbastanza della tua complessità… 
della tua ricchezza, 
della tua confusione… 
Ne ho abbastanza delle tue ambizioni, 
delle tue frustrazioni, 
ne ho abbastanza dei tuoi orari e anche dei tuoi sogni.
A volte penso che vorrei una relazione meno complicata, 
che vorrei un uomo dalla psicologia più lineare.
Vorrei un uomo che avrà degli orari normali… 
A volte penso…
…che vorrei un uomo come lui.

 

Taccio e sussulto solo appena alla pressione leggera ma decisa della sua mano sul mio ginocchio e mentre sussurra a due centimetri dalle mie labbra io sento che senza dir nulla ora di lui ho capito tutto e in questo istante, l’istante di respiro che prelude un bacio da film, in questo istante preciso penso a tutte le domande che non gli ho fatto e che avrei voluto fargli, penso a tutte le domande che non gli farò mai.
Hai mai rischiato di morire?
Hai mai salvato la vita a qualcuno?
Hai mai amato incondizionatamente?
Hai mai odiato senza freni?
Hai mai sentito il desiderio pericoloso di provare emozioni troppo forti?
Come un’automobile lanciata a tutta velocità che s’accartoccia contromano?
Come l’ebbrezza proibita di ammazzare qualcuno con le tue mani per toccarne il sangue caldo?
Come il calore di un bacio traditore strappato al tempo delle facili promesse?
Mi ami?
Mi ameresti per tutta la vita?
Lo lasceresti per stare con me?

***

Con Andrés è tutto facile.
Il piacere è facile, il calore è facile, persino l’orgasmo è facile.
A letto duro sempre poco ma con lui sembra sempre più leggero, sembra tutto più leggero.
Essere me stesso è così semplice, quando sono con lui.
Mi giro a guardarlo mentre riprendiamo fiato, i nostri petti sudati e sfiniti si alzano e si abbassano riempiti da quest’aria calda e consumata che sembra non bastare mai.

«Andrés…?»
«Mh…?»

Ti stanchi mai di essere così bello?

«Perché… con te… è tutto facile…?»

Anche tu mi guardi, hai gli occhi lucidi.
Tiri sul col naso, apri la bocca per parlare ma non te ne do il tempo:

«Beh, ti sei commosso?»
«No, è solo che–

non riesce a finire la frase perché all’improvviso starnutisce quattro o cinque volte di fila, senza neanche mettere la mano davanti alla bocca.

«Sei malato?!»,

strillo inorridito e mi allontano istintivamente da lui.

«No…»,

tira di nuovo su col naso.

«Sicuro?»
«Sì…»
«E allora cos’è?»
«Boh… non è niente, non ci pensare…»
«Mh… okay…»

Mi sdraio di nuovo sul letto, poco convinto.

«Ce l’hai mica un fazzolettino?»

Indico il comodino di Rafael con un cenno del mento, senza parlare.

 

Sul comodino c’è una di quelle confezioni di cartone che mi ricordano tanto gli studi degli psicologi, una di quelle in cui si preleva un fazzoletto tirandolo per l’estremità sporgente ed ecco che subito esce l’angolo di un altro fazzoletto, e così via, e sinceramente non lo so neanch’io perché una confezione di fazzoletti di questo tipo mi ricordi lo studio di uno psicologo: probabilmente è perché ho sempre pensato che la gente possa sentire il bisogno di piangere durante una seduta di terapia, eppure sono sicuro che non è per raccogliere le lacrime che Juan tiene i fazzoletti sul comodino. Sono sicuro che Juan tenga i fazzoletti sul comodino esattamente per lo stesso scopo per cui servono a me adesso.
Ne prendo un paio e mi pulisco, raccolgo lo sperma e il burro di karité.

«Ti scoccia se soffio il naso?»
«Prego»

Prendo un altro fazzolettino, soffio sonoramente due o tre volte e quasi mi diverte lo sguardo che mi riservi, disgustato senz’altro dal potenziale di microbi e batteri contenuti nel fazzoletto.
Tiro di nuovo su col naso.

«Meglio?»
«Ma sì, dai…»,

scrollo le spalle e appoggio sul lenzuolo i fazzolettini appallottolati.

«Dai, vieni qui, malato mio…»

Mi tiri per un braccio, stringendolo appena.
Mi rannicchio accanto a te e mi lascio coccolare, per un po’.

***

Non so, se mi piaci o no… [2]
L’istante è durato troppo a lungo, il bacio non arriva.
Un respiro sottile s’inserisce come una lama nella mia coscienza, un attimo di lucidità in cui ho il tempo di riscuotermi dal torpore e di pensare che forse è tutto sbagliato.
Mi allontano di scatto, Diego ritrae la mano lasciando sul mio ginocchio una sensazione quasi di freddo, mi guardo intorno, poso il bicchiere sul tavolino basso accanto al divano, mi trema leggermente la mano.

«Devo andare!»

Scatto in piedi, il cuore batte velocissimo, sento le gambe tremare, perché non mi hai baciato?
Faccio un paio di passi verso la porta.
Perché ti sei fermato?
I due centimetri diventano subito due metri e Diego non dice niente, non tenta neanche di fermarmi, non mi chiama.
Juan…
Mi blocco.
Respiro a fondo.
Prendo aria prima del tuffo…
Decido.
Juan, è colpa tua!
Torno sui miei passi, deciso, le gambe non tremano più, il cuore se possibile batte ancora più veloce, mi siedo sul divano accanto a Diego e gli poso le labbra sulle labbra.
Perché suona tanto come un tradimento?
Perché questo è un tradimento.

Non ho mai pensato di essere capace di tradire.
Ho sempre pensato che le persone, certe cose, o sanno farle o non sanno farle: non è vero che messi alle strette tutti possono ammazzare, alcuni possono farlo per natura e altri no, e messi alle strette alcuni ammazzano perché ce l’hanno dentro, e altri no, e basta, non c’è nient’altro da dire, niente bei discorsi sulla natura umana, alcuni non ci riescono proprio ad ammazzare, fosse anche per vendetta, o per autodifesa, per sopravvivenza. Non ho mai pensato che tutti sono uguali e che tutti sanno fare le stesse cose: messi alle strette, alcuni tradiscono e altri no, semplicemente, perché le persone sono diverse e il tradimento dentro non ce l’hanno tutti, e se anche ce l’avevo nella testa, speravo in fondo che lì potesse restare, morire, perché il tradimento nella testa è già tradimento vero ma è meno grave, lo so bene che è meno grave del tradimento fisico di chi il tradimento cerebrale lo tira fuori e tradisce in due.
Non faccio più parte di quelli che non sanno
So tradire, ho sempre saputo tradire, solo che per tradire può servire la persona giusta e il tradimento cerebrale Diego me l’ha tirato fuori in questo bacio leggero strappato al tempo delle facili promesse.
Gli appoggio leggero il tradimento sulle labbra, Diego le socchiude quasi istintivamente e ho la sensazione che forse per un secondo soltanto non capisce neanche cos’è, questo bacio.
Mi allontano solo di un centimetro:

«Per fortuna non hai bevuto l’aglio…»,

gli sussurro alle labbra.
Soffoca sulle mie labbra ogni tentativo d’umorismo.
Annulla il centimetro, azzera la distanza, mi stringe i capelli dietro la nuca mentre mi bacia le labbra, apro la bocca, accolgo la sua lingua, accolgo le sue mani che mi percorrono le spalle, il petto, i fianchi, gli stringo le spalle, le sue spalle… Amo le spalle degli uomini, amo le spalle di Diego, amo stringerle mentre le sue mani mi stringono i fianchi e mi tirano verso di sé, lo bacio, lo bacio, lo bacio, mi sto eccitando, mi spingo in avanti, Diego s’inclina sul divano e mi tira verso di sé, sopra di sé, amo le sue mani calde che mi stringono i fianchi e al dolore alle ginocchia neanche ci penso, amo le sue mani calde che mi stringono i glutei, amo il suo principio di erezione che sento premere contro il fianco e la sua gamba tra le gambe che preme, calda.

***

Vorrei proprio sapere come posso cambiare le lenzuola due giorni di seguito senza insospettire Rafael. Non so se ieri ce n’era proprio bisogno, ma ora che sì, ne ho davvero bisogno, ora che non posso farne a meno, ora non so proprio cosa inventarmi per renderlo credibile.
Posso sempre dire che il gatto è salito sul letto, ma dubito che se la beva, anche perché proprio da qualche giorno Rafael stesso ha preso l’abitudine di far entrare il gatto dentro casa e non sarebbe la prima volta che sale sul letto.
Sbuffo. 
Non voglio pensarci adesso.

«Andrés
«Mh?»
«Oh, dormi?»
«No…»
«Dai, svegliati»
«Non dormo…»,

risponde con la voce impastata, gli occhi socchiusi.

«Dai, alzati»

Lo scuoto piano per le spalle.

«Ho capito!»

Sbuffa, finalmente lucido.
Incrocia le braccia sul petto e mette il broncio.
Ti mangerei quando fai così.
Gli schiocco un bacio sul labbro inferiore, appena sporgente.

«Ti va una caramella?»

Andrés torna di buon umore.

«Dipende, che tipo?»
«Guarda»

Allungo una mano sul comodino e gli porgo il sacchettino di carta.

«Uuh!»

Fa un urletto di gioia e batte tre o quattro volte le mani, come un bambino.

«Quelle gommose sono le più buone!»
«È vero?»,

sorrido,

«Prova le verdi, sono le migliori»
«Grazie!»

Calca l’accento sulla seconda sillaba, mi fa ridere.
Lo guardo mentre mastica soddisfatto e senza fare i complimenti infila la mano nella piccola busta e si prende altre due caramelle, sempre verdi, e non riesco a non sorridere.
È strano come finiamo per affezionarci alle persone, anche a quelle di cui non sappiamo nulla.
Andrés mi guarda, interrompe il mio momento tutto per me e in questo momento mi scopro intenerito, il mio sorriso appena più dolce sorprende anche me e mi fa sentire a disagio.
Distolgo lo sguardo, cerco qualcosa da dire.

«Vuoi fare la doccia?»
«No, grazie, la faccio a casa»
«Sicuro?»
«Sì… Anzi, ora vado»
«Di già?»
«Certo»
«Perché…?»
«E me lo chiedi?»
«Dai, che fretta c’è?»
«Non dovrei essere qui…»
«Ma tu non sei qui, sei al lavoro»
«Già, e se arriva Rafael? Glielo dici tu che sono al lavoro?»
«Non arriverà… È a lezione»

***

Il suo profumo è inebriante.
Non ho ancora capito se mi piace o no e penso che mai lo capirò, ma già lo so, che Moschino mi rimarrà per sempre nel petto. 
Sarà forse per l’avidità con cui gli respiro la pelle?

 

Non è male, farsi accarezzare da queste mani. Diego ha davvero le mani belle e la foga con cui mi tocca non mi ricorda la professionalità del massaggiatore, questa fretta nella punta delle dita mi incide addosso la fame dell’amante. Non è male sentire le sue dita affamate sulla pelle bianca all’altezza dei reni, sotto la stoffa leggera della maglietta, non è male sentirle scivolare più giù fino ad infilarne solo la punta sotto l’elastico dei boxer, che sporge dal bordo dei jeans attillati.
Le sue mani sembrano arrivare ovunque, il mio corpo si dischiude e si scalda sotto il suo tocco feroce, in questo bacio affamato. 

 

Lascio la sua bocca per riprendere fiato, gli passo le labbra sul collo, respiro a fondo, mi riempio la testa di Moschino, Rafael si sorregge facendo pressione con una mano sul divano, con l’altra mi stringe una spalla, sostengo il suo peso, gli premo con forza una gamba contro il pube caldo mentre con le dita sicure gli slaccio il bottone dei jeans.

***

«Allora io vado a lavarmi»

Juan si alza in piedi e si stiracchia.

«Okay lepu»

Gli osservo l’osso del gomito. Quando distende le braccia Juan riesce a piegarle oltre i centottanta gradi: la parte dalla spalla al gomito è dritta e poi improvvisamente, dal gomito al polso, il braccio si piega in un modo innaturale sottoponendo l’osso ad una pressione eccessiva. 
Arriccio le labbra, distolgo lo sguardo.

«Sicuro che non vuoi, eh?»
«Senti, ma tu non ti lavi mai! Potrò lavarmi quando lo dico io?»
«Okay, okay! Tranquillo… lepu

Alza le mani in segno di resa.

«Oppure stai cercando di dirmi che vuoi fare la doccia con me e non sai come dirmelo?»

Non ribatte, scoppia a ridere ed esce dalla stanza senza dire altro, si gira solo per farmi la linguaccia.
Sospiro.
Soffermo lo sguardo in direzione della porta, dove un attimo prima c’era lui. 
Sento gli angoli delle labbra piegarsi verso l’alto, un sorriso troppo dolce, decisamente troppo dolce…
Scuoto la testa.
Prendo un altro fazzoletto, soffio di nuovo il naso.

***

Gli abbasso la cerniera dei jeans e infilo le dita sotto la stoffa dei boxer, accarezzo coi polpastrelli la pelle morbida della pancia e con la mano tendo appena la stoffa, tanto che guarderei in quei cinque centimetri di spazio che mi si sono aperti se solo la posizione non lo impedisse.

 

Con le dita scendi a toccarmi i peli pubici e quando mi sfiori con le nocche la punta del pene mi lascio sfuggire un sospiro, perché le tue dita calde ora non sembrano più tanto calde e perché da queste mani non voglio farmi solo sfiorare…
Socchiudo le labbra, forse per respirare meglio o forse per sospirare di nuovo, chiudo gli occhi al piacere e mi concentro solo sulle tue dita non più così calde che mi avvolgono e che ora diventano il mio centro del mondo e che sembrano promettere grandi cose, perché mani che fanno massaggi così con quale impeto faranno l’amore?, socchiudo le labbra e sospiro e chiudo gli occhi e in questo sospiro forse sospiro anche il tuo nome, non lo so, non ho il tempo di capirlo, non ho il tempo di raccogliere la mia voce nelle orecchie e di ascoltarmi riecheggiare lì per un po’ perché all’improvviso il suono più odioso, il più spaventoso, mi violenta le orecchie.
Il suono del campanello.
L’unica cosa che non doveva succedere.

 

Rafael trasalisce e spalanca gli occhi, si alza di scatto, in ginocchio sul divano, tanto che mi ritrovo in un secondo con la mano fuori dai suoi boxer e con questa stessa mano gli afferro un polso per fermarlo e non gli do il tempo di alzarsi in piedi:

«Fermo! Fermo, fermo, tranquillo,

gli strattono il polso per farlo restare sul divano,

«È dalla vicina!»

 

Lo guardo un istante senza guardarlo davvero.
Impiego un breve momento a capire quello che mi ha detto e dopo un momento capisco, capisco e cerco di calmarmi, ma non riesco a regolarizzare i battiti cardiaci accelerati.
Mi ricordo all’improvviso del dolore alle ginocchia, mi metto seduto e solo dopo un lungo momento Diego mi lascia andare la mano. La sua presa era così salda…
Lo guardo negli occhi.
Lo sguardo di Diego non è più limpido, non so più leggerlo.

 

Sai, Andrés?
Altre volte… 
…penso che queste sono solo cazzate.

 

Non ho bisogno di parlare per capire che il suono del campanello è entrato come un corpo estraneo nel tempo breve e prezioso in cui finalmente nella sua vita c’ero solo io, non ho bisogno di parlare per capire che nell’attimo in cui ci ha riportati brutalmente alla realtà quel suono ha rotto qualcosa, tra noi. 
Nell’aria si è frantumato qualcosa, qualcosa si è perso.

***

Apro piano la porta del bagno. Non busso ma la spingo così lentamente che Juan potrebbe dirmi di uscire in qualunque momento, se non mi vuole.
Non dice niente, forse non mi sente. Mi accoglie solo lo scrosciare della doccia.

«Posso?»
«Sì»
«Dove li butto?»
«Che?»
«I fazzoletti»
«Nel cesso… Scarica bene!»

Tiro un paio di volte lo sciacquone, il getto dell’acqua risucchia i fazzolettini stropicciati e appiccicosi. 
Che ci sarà mai di sospetto, in un paio di quadrati di carta appallottolati nel cestino, o spappolati in fondo al water… Non sei mica fidanzato con Sherlock Holmes!
Mi giro a guardarlo attraverso il vetro smerigliato.
Ripenso per un istante al vetro della mia cabina della doccia, così liscio e trasparente da non lasciare neanche un centimetro di privacy.
Ho sempre amato sedermi sullo sgabello e osservare Diego che si faceva la doccia, ho sempre amato il suo modo così naturale di ignorarmi, di fare come se io non ci fossi, ho sempre amato il suo modo di lavarsi regalandosi generoso alla mia vista e facendo però finta di non darmi importanza.
Scuoto la testa. 
Sotto lo scrosciare del getto dell’acqua che mi riempie la testa di ricordi le loro due figure sembrano sovrapporsi, scontrarsi e confondersi. 
Forse per questo scuoto con forza la testa e mi giro a guardarlo attraverso il vetro smerigliato, per ferirmi gli occhi con la sua pelle così viva da far venire voglia di piangere…
La sua figura è scomposta in una miriade di schegge color carne, che della solidità del suo corpo non hanno più nulla.
Juan adesso è un puzzle di pixel, un ologramma, una pellicola virtuale frammentata in un mosaico privo di spessore che riacquista concretezza solo quando chiude il getto della doccia e apre l’anta della cabina, e mette fuori un piede. 
Torna al mondo.
Il suo corpo si ricompatta.
Mangio il suo corpo con gli occhi affamati, ho la gola asciutta come se avessi ingoiato sabbia, non riesco a inghiottire. Lo seguo con lo sguardo mentre cammina col suo incedere appena pesante e lascia goccioline trasparenti su tutto il pavimento, e che non sia un tipo preciso l’ho già capito.
Juan prende un asciugamano di spugna da una pila di asciugamani posati su uno sgabellino di legno e se lo avvolge intorno alla vita, copre questo fisico così concreto da lasciarmi senza fiato, senza fiato anche quando non mi tocca, anche ora che lo guardo e basta. 
Tra guardare una persona e farci sesso la distanza è immensa, perché l’intimità che si crea nel lasciarsi guardare è più calda delle braccia che mi stringono mentre facciamo l’amore.

***

Nell’aria si è frantumato qualcosa, qualcosa si è perso.
Questo mi dice il tuo sguardo, indecifrabile, questo mi dice senza parlare.
Le realtà torna ad insinuarsi nelle pieghe delle nostre vite, che per un tempo breve e prezioso sono state così vicine da toccarsi davvero, da aprirci all’altro senza barriere; la realtà torna e la realtà è il suono di un campanello, la realtà è il suo fidanzato gay traditore dalla camicia bianca e i capelli biondi, la realtà è il mio fidanzato pure gay che passa la vita a far sembrare meno finta la maschera da etero infelice che si è cucito addosso, la realtà è tutto questo e la realtà è questo bacio traditore strappato al tempo delle facili promesse e la realtà fa male.
L’ho avuto, il mio tempo breve, brevissimo, ma ancor più prezioso proprio perché breve, in cui finalmente per te ci sono stato solo io. 
L’ho avuto e che sia durato poco non importa, questo tempo basta.
Basterà.
Ti guardo negli occhi e il tuo sguardo non è più limpido, non so leggerlo, ma non importa, non ho bisogno di leggerlo per sapere che c’è uno sguardo simile nei miei stessi occhi dove di solito in fondo brilla una lucina, come una fiammella sempre accesa, come dici tu, non ho bisogno di leggerlo per sapere che il nostro tempo è finito, che qualcosa si è perso.
Pensi mai che sia tutto sbagliato…?
Allaccio lentamente i jeans, non ho fretta.
Diego tace.
Lo guardo di nuovo, lo guardo negli occhi e il suo sguardo è così triste, come triste è il mio sguardo in cui forse la fiammella si è spenta, lo guardo negli occhi e gli accarezzo una guancia, l’accenno ruvido di barba mi graffia le dita…

«Mi dispiace…»

 

Ti stringo la mano, la stringo così forte da fare male, da farmi male, la stringo e vorrei solo dirti la cosa giusta ma lo so che la cosa giusta da dire non c’è,

«Anche a me, Rafa… Anche a me…»,

lo so bene che questo è un addio e che il nostro tempo è finito e che qualcosa si è rotto, e fa male, so che va bene così, ma fa male, e so che va bene che faccia male.

«Mi dispiace…»

La tua voce è un sussurro.

«Sh…»

Ti accarezzo il dorso della mano dolcemente, lentamente, il cuore pieno di Moschino che non è mai stato così triste. 
Prolungo più che posso gli ultimi istanti della nostra storia d’amore che non è mai nata. 
Mi preparo a lasciarti, e lascio la mano, lascio andare il profumo.

 

Penso a queste mani, alle carezze che non mi daranno.
Penso a tutte le domande che non ti ho mai fatto, a tutte le domande che non ti farò mai. 
Penso a tutte le risposte che non sentirò.
Pensi mai che avresti preferito non incontrarmi?
Hai qualche rimpianto?
Qualche rimorso?
Qual è il ricordo più brutto della tua vita?
Quale il più bello?
È meglio lui di me?
Mi avresti amato per tutta la vita?
Penserai mai alla storia d’amore che non abbiamo avuto?
Al sesso che non abbiamo mai fatto?
L’avresti lasciato per stare con me?
È meglio lui di me?
Mi avresti amato per tutta la vita?
Mi avresti amato per tutta la vita?
Penso a tutte le lacrime che vorrei versare per te ma dalle ciglia non sanno staccarsi.
Nella gola mi fa male un nodo talmente stretto da non lasciarmi quasi respirare.

***

Andrés si butta a peso morto sul letto. Fruga tra le lenzuola, recupera gli slip striminziti.

«Me lo fai vedere il coniglietto?»

Sgrano gli occhi:

«Eh?! È una cosa porno?»,

scoppio a ridere.

«No-o!»

Sbuffa e arriccia le labbra,

«Il coniglietto, dai!»,

lo ripeti come se questo dovesse spiegare tutto, e invece non spiega proprio niente!
Lo ignoro, cerco un paio di boxer nel cassetto.

«Lepu

Andrés mi tira addosso gli slip.

«Oh, dai, che schifo!!»

Glieli ritiro in piena faccia, lui scoppia a ridere nella sua risata forte e fresca, scrosciante.
Si stiracchia.
Tolgo l’asciugamano, infilo i boxer e una t-shirt, quella grigia, che ho scelto apposta perché aderisce ai muscoli dell’addome, delle braccia.
Andrés fa un sonoro sbadiglio e stiracchia un’altra volta le braccia, mi piace guardarlo con la coda dell’occhio e vederlo passarsi la lingua sulle labbra.
Mi piace sapere i suoi occhi fissi su di me, posso sentire il calore del suo sguardo riempire l’aria della stanza.

«Tu non ti vesti?»
«Sei mica mia madre?»
«Cos’è il coniglietto?»
«Non ti piaccio?»
«Eh?»
«Non ti piaccio?»
«Cos’è il coniglietto?»
«Ti piaccio?»,

all’improvviso, è diventato serissimo.
Lo osservo per un lungo momento. 
Dio, quanto vorrei guardarti anche il ‘lato B’! Hai un culo che parla…

«Sì. Ma guarda che mi piaci anche se ti vesti»

Sbadiglia di nuovo.

«Ho capito…»

Infila gli slip e si sdraia su un fianco, intrufolando la mano sotto il cuscino.

«Oh, che fai?»
«Perché?»
«Vieni di qua»

Gli indico col braccio l’altra metà del letto.

«Che succede?»

Quello è il lato di Rafael.

«Lì voglio starci io»

Scrolla le spalle:

«Okay»
«Allora ti fermi un po’?»
«Solo cinque minuti»
«Cos’è il coniglietto?»
«Fai il muscolo»

Piega il braccio per farmi vedere come fare, trattiene a stento un sonoro sbadiglio.

«Così…?»

Il mio bicipite si gonfia.

«Vedi? Quello è il coniglietto…»,

indica il muscolo,

«Non sembra un coniglietto accovacciato? No, okay, il tuo sembra più una pantera in agguato, ma insomma, hai capito?»

Scoppio a ridere.

«Viene solo se sei muscoloso»,

mi spiega prima di affondare la faccia sul cuscino.

«Oh, dormi?»
«No…»
«Perché volevi vedere il coniglietto?»
«Dov’è il burro di karité…?»,

si guarda un attimo intorno, gli occhi stanchi.

«Non lo so…»

Sbuffa.

«Senti…»
«Mh?»
«Non dormire…»
«Non dormo»

Si gira di spalle, si sistema meglio sul cuscino.

«Andrés?»
«Mh…?»
«Mi ascolti?»
«Ah ah…»
«Svegliati!»
«Ma ti sento…!»

Si gira di nuovo verso di me,

«Dimmi»,

mormora senza neanche aprire del tutto gli occhi, le palpebre si socchiudono pesanti e subito dopo le richiude, un battito d’ali, come di farfalla morente, penso distrattamente.

«Io…»

Io sono gay.

«Sì, io, ecco…»

Mi mordicchio il labbro inferiore.

«Mh…»

Prendo fiato, sono pronto a dirmi per la prima volta la verità.
Se ora mi chiedessi di nuovo, tu come lo sai?, io ti risponderei: l'ho saputo grazie a te.

«Andrés, io sono–

il tempo di girarmi a guardarti e ammutolisco all’istante.

«Andrés…?»

Si è addormentato.
E va bene, ti sveglio tra cinque minuti.

***

Ho deciso di rientrare a piedi.
Non so quanto tempo ci metterò, ma non m’interessa, non voglio pensarci. 
So solo che non voglio rientrare troppo presto in casa, non voglio vedere troppo presto il viso di Juan con quell’espressione rancorosa che mi farà solo sentire peggio di quanto già non mi senta, non voglio lasciare andare troppo presto il ricordo di Diego che ancora conserva sulla mia pelle un lieve calore.
Quando smetterà di fare male?
Nessuno merita questo dolore.
Non lo merita Diego, non lo merita Juan e non lo merita neanche il fidanzato traditore.
Traditore?
Diego…
Adesso… siamo tutti traditori.
Vorrei tornare a venti minuti fa, per non interrompere il bacio, vorrei tornare a venticinque minuti fa per non girarmi, per non tornare sui miei passi e per non posare le mie labbra sulle sue, vorrei tornare a quel pomeriggio fuori dal centro estetico in cui Diego mi ha chiesto se ti va un caffè? per rispondergli che scusami, vado di fretta, vorrei tornare a quella mattina d’aprile per non salutare Juan alla fermata dell’autobus, perché anche se lo sapevo che era quello giusto non avrei mai immaginato che col tempo sarebbe stato tutto sbagliato, vorrei solo che qualcuno mi desse la soluzione e vorrei non sapere con questa lucidità disincantata e dolorosa che la soluzione al mio problema non c’è.
Ripercorro all’infinito quello che è stato, quello che non è stato, quello che sarebbe dovuto essere, quello che non sarebbe dovuto essere e quello che non sarà mai e non so trovare via d’uscita. 
Il mio cuore è un labirinto.
Preso in trappola, spalle al muro. 
Qualunque cosa farò sarà la cosa sbagliata. 
Il cielo è coperto da un sottile strato di nuvole.
Vorrei vedere la luna: il suo cerchio piatto e candido o la sua falce sottile e luminosa, non importa, perché tanto non le so le fasi lunari.
Non si vede neanche una stella.
Non mi piace questo mese di maggio, l’estate sembra non arrivare mai.       
Quella mattina d’aprile di quattro anni fa, invece, faceva così caldo…
Ora il cielo è coperto da un sottile strato di nuvole che si addensano rapide e non promettono niente di buono.
Accelero il passo: non voglio rientrare troppo presto, ma non voglio neanche che la pioggia mi lavi via questo calore dalla pelle.
Voglio che sia il tempo a diradare le sue impronte. 
[3]

***

Mi appoggio meglio al cuscino di Rafael, troppo sottile per i miei gusti, e lo osservo.
Sempre così sicuro di me nei miei settanta chili di muscoli, non mi ero mai accorto di quanto io sia in realtà piccolo rispetto ad Andrés.
Rispetto a Rafael, no, sembro solo basso: l’eterno dramma della mia vita, una promettente carriera sportiva stroncata all’età di diciassette anni, scartato dalla squadra di basket del liceo. E una promettente carriera sportiva nel judo che in quello stesso anno mi si è aperta davanti, questo sì, ma sempre con quella punta di amarezza di chi sa che è il corpo che ha scelto il suo futuro, perché io il corpo non potevo sceglierlo.
Comunque, vicino a Rafael sono sempre sembrato basso, sono sempre stato basso, fin dal primo giorno, Rafael a vent’anni mi sorpassava già di quei venti centimetri che la natura non mi ha dato e che ad essere meno stronza poteva anche darmi.
Vicino ad Andrés, invece, sembro proprio piccolo. Eppure, sarà forse sei o sette centimetri più basso di Rafael, e di certo non è un ragazzo dal fisico massiccio.
Solo ora, all’età di ventisette anni, posso rimettere in discussione tutto ciò che sono o che ho sempre pensato di essere, metto in discussione l’immagine che ho sempre avuto di me, metto in discussione la mia realtà più intima, la più profonda. 
Mi metto in discussione anche nel corpo.
Osservo più attentamente Andrés che dorme e per la prima volta vedere qualcuno che dorme non mi fa ridere. 
Osservo il bel viso rilassato, la bocca rosa semiaperta, le mani da maschio immaginate e nascoste sotto il cuscino, il bianco della sua pelle bianca abbandonato all’aria della stanza, alla luce della lampadina, scoperto, svelato, nudo, abbandonato allo sguardo stanco di chi lo osserva senza malizia, finalmente senza desiderio perché il desiderio dorme, appagato. 
Lo osservo con lo sguardo limpido e curioso di chi si avvicina a un’opera d’arte per la prima volta nella vita.
Il suo fisico si può descrivere solo in negativo, dicendo quello che non è, o attraverso coppie di aggettivi contrapposti: come il David di Michelangelo, si può solo togliere tutto ciò che non è ‘Andrés’ fino ad ottenere il suo corpo per contrasto. Si può descrivere solo per approssimazione, accostando sempre di più la parola alla realtà senza per questo riuscire a renderla aderente: rimarrà sempre un margine di nebbia tra il suo corpo e la descrizione, che potrà essere colmato solo con lo sguardo. Il suo corpo è un quadro impressionista, di un candore impressionante, descrivibile solo per tocchi progressivi che man mano ne costruiscono l’immagine globale, senza la pretesa di rendere la fisicità di questo corpo che è un corpo davvero, con un peso e una massa e una densità così presenti nello spazio. 
Andrés occupa lo spazio con una naturalezza che sa lasciare senza parole, persino senza le parole per descriverlo. 
Anche quando dorme. 

***

Apro la porta.
E quello strap, che si legge sempre nei libri e che nessuno prova mai davvero, quel suono come di qualcosa che si rompe dentro, adesso lo sento: e lo strap è il suono del castello di carte che si sfascia davanti ai miei occhi, è il suono del castello di menzogne che si fracassa ai miei piedi e mi ferisce gli occhi con questa verità troppo cruda per non mozzare il fiato, troppo bianca e troppo vera per non fare male.
È colpa mia.
E il paio di scarpe in più nell’ingresso non l’avevo neanche notato.

 

 


 

[1] Abbreviazione del termine affettuoso lepurush che in Albanese significa “coniglietto” o “leprotto”.
[2] Casomai, Martino Corti.
[3] Frase ispirata alla canzone di Giovanni Amirante, Saraghina, “Lascia che sia il tempo a diradare le tue impronte”.
  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Orient_Express