IL SIGNORE DEGLI ANELLI, L'ultimo Anello
1.
NUOVI GIORNI
La Terra di Mezzo era stata colpita da un terribile caldo torrido e
afoso. Non pioveva da almeno un paio di settimane.
Saruman continuava a guardare fuori della finestra, apertura nel muro più
che finestra poiché era una stretta fessura in mezzo al muro attorniata da spine
velenose di un fiore del tutto nuovo ai suoi freddi occhi senza sentimento,
perciò se avesse voluto, per qualche incerta ragione al mondo, scappare si
sarebbe certamente punto e nel giro di un minuto sarebbe morto; era seduto su un
mite masso, non molto freddo ma rinfrescante, stava pensando ai suoi giorni
gloriosi: i giorni quando aveva
evocato il Balrog al Fosso di Helm ed era quasi riuscito a sconfiggere Gandalf,
o di quando era alleato con Sauron, l’oscuro signore dell’anello, e aveva quasi
sottomesso la Terra di Mezzo assieme al suo tenebroso padrone, per lui quelli sì
che erano ricordi indimenticabili. Ma ora tutta la sua gloria non era altro che
polvere, era un lontano ricordo che mai più avrebbe rivissuto.
La stanza, anzi la cella, era molto piccola, buia e molto, molto calda,
tanto che lo stregone bianco, ormai senza poteri, non riusciva quasi a
respirare; al centro dell’alloggio c’era una “cosa” che poteva definirsi
“letto”: era di sassi, ricoperto da un fine strato di fieno secco sul quale
Saruman, dopo ben dieci anni non ci si era ancora abituato per quanto fosse
scomodo; alla sinistra del letto c’era un piccolo recipiente per i suoi bisogni
fisiologici, subito dopo questi
c’era una stretta brocca con appena due gocce d’acqua per dissetarsi; infine
sopra il letto c’era la finestra dalla quale entrava a malapena un filo
d’aria.
Aveva indosso la sua veste bianca, anche se era talmente sporca che
poteva definirsi marrone, i bordi dell’indumento erano strappati e le maniche
erano consumate.
Era molto magro, infatti gli Ent gli davano solo il necessario per farlo
sopravvivere, mostrandogli tutto il loro disprezzo nei suoi confronti, che anni
prima aveva sterminato centinaia dei loro simili per creare la sua base
“segreta”, mettendosi contro tutto il mondo.
Stava implorando Barbalbero di dargli del cibo per sfamare la sua fame
ferocie, quando fu attratto da un piccolo ratto che stava cercando di entrare nella sua tana nel muro,
aveva fra le zampe qualche briciola di pane. Attese che Barbalbero se ne andasse
e, accertandosi che non ci fosse nessuno a guardarlo, si avventò sull’indifeso
topolino e gli rubò dalle minuscole zampette i granelli del pane e se li mise in
bocca gustandoseli fino all’ultimo cercando di attenuare il suo atroce appetito,
ma non ridussero per niente la sua fame. Colpito da una mostruosa idea rimase
fermo a fissare il grigio roditore, con estremo piacere… voleva mangiarlo;
allora ricontrollò che non ci fosse nessuna guardia che lo stava controllando,
fece qualche passo indietro e puntò lo sguardo sugli occhi del piccoletto. Tirò
un urlo, un urlo come quello di battaglia, acchiappò in un fratto di secondo il
povero topolino e disgustosamente lo mise in bocca e cominciò a masticare come
una bestia feroce. Non ricordava quanto tempo era passato dall’ultima volta in
cui era stato così felice, assaporò quel roditore con grande soddisfazione,
finalmente aveva poggiato sul suo disgustoso palato della carne. Sputò a terra
gli ossicini del roditore.
Finì di sgranocchiare i resti del piccolo e indifeso topo.
La sua attenzione fu attirata da alcuni forti botti che si sentivano
fuori della finestra. Il vecchio stregone si avvicinò alla fessura del muro, con
molta prudenza cercò di non pungersi con i fiori dal colore viola e rossi,
cercando di capire cosa stesse succedendo: notò che c’erano alcuni Ent che
fuggivano e altri che stavano correndo verso il fiume perché la loro corteccia
stava andando a fuoco.
Intravide un esercito di
sagome nere che avanzava verso la torre d’Orthanc, capì che erano
certamente degli orchi, ma quando
sforzò meglio gli occhi, perché ormai anche la sua vista non era più
quella di una volta, vide che quelli non erano semplici orchi, quelli erano:
Uruk-Hai e per di più portavano la “mano bianca”, in quel momento una gioia
fiammante trapassò il suo cuore, o perlomeno quello che ne rimaneva, e fece una
risata priva d’allegria, una risata piena d’odio e
malvagità.
Osservava, avido di conoscenza, tutto ciò che accadeva e godeva nel
vedere gli Ent cadere come fiorellini schiacciati da un piede.
Rideva.
La
porta della grigia cella cadde a terra distrutta e un massiccio troll, provvisto
di una grande mazza di pietra, ringhiò di fronte a Saruman, poi lo prese per il
collo e lo sbatté contro la parete opposta, lasciandolo sul terreno con il naso
sanguinante. Entrò nella cella, si fermò innanzi allo stregone, lo prese per il
colletto della veste sporca e lo fece uscire da quella sudicia prigione dove era
stato rinchiuso per un intero lustro dagli Ent. Riprese conoscenza. Vide alcuni
Ent che giacevano a terra, morti, i loro corpi erano mutilati, i rami erano
tagliati, i loro occhi erano terrorizzati. Un Huruk-Hai sbucò fuori da un
corridoio, si fermò ed osservò Saruman, lo disprezzò. Saruman si sentiva
osservato e la sua anima, se ne aveva una, era indignata, si sentiva umiliato:
gli Huruk che aveva sempre considerato inferiori ora lo stavano liberando e lo
disprezzavano. L’orco fece un cenno al troll, che lasciò a terra lo stregone, e
gli fece strada, conducendolo alla grande e buia sala, dove una volta era la
sede del suo potere e dove era situato il suo Palantìr, che gli permetteva di
vedere il futuro e di rimanere in contatto col suo tetro signore. Un
terrificante e grosso orco aveva un’armatura nera e un lungo mantello mogano,
che toccava terra, mostrò la sua lealtà verso Saruman con un inchino e poi
disse: -Mio signore sono lieto di vedere
che sta1. NUOVI
GIORNI
La Terra
di Mezzo era stata colpita da un terribile caldo torrido e afoso. Non pioveva da
almeno un paio di settimane.
Saruman
continuava a guardare fuori della finestra, apertura nel muro più che finestra
poiché era una stretta fessura in mezzo al muro attorniata da spine velenose di
un fiore del tutto nuovo ai suoi freddi occhi senza sentimento, perciò se avesse
voluto, per qualche incerta ragione al mondo, scappare si sarebbe certamente
punto e nel giro di un minuto sarebbe morto; era seduto su un mite masso, non
molto freddo ma rinfrescante, stava pensando ai suoi giorni gloriosi: i
giorni quando aveva evocato il
Balrog al Fosso di Helm ed era quasi riuscito a sconfiggere Gandalf, o di quando
era alleato con Sauron, l’oscuro signore dell’anello, e aveva quasi sottomesso
la Terra di Mezzo assieme al suo tenebroso padrone, per lui quelli sì che erano
ricordi indimenticabili. Ma ora tutta la sua gloria non era altro che polvere,
era un lontano ricordo che mai più avrebbe rivissuto.
La stanza,
anzi la cella, era molto piccola, buia e molto, molto calda, tanto che lo
stregone bianco, ormai senza poteri, non riusciva quasi a respirare; al centro
dell’alloggio c’era una “cosa” che poteva definirsi “letto”: era di sassi,
ricoperto da un fine strato di fieno secco sul quale Saruman, dopo ben dieci
anni non ci si era ancora abituato per quanto fosse scomodo; alla sinistra del
letto c’era un piccolo recipiente per i suoi bisogni fisiologici, subito dopo questi c’era una stretta
brocca con appena due gocce d’acqua per dissetarsi; infine sopra il letto c’era
la finestra dalla quale entrava a malapena un filo
d’aria.
Aveva
indosso la sua veste bianca, anche se era talmente sporca che poteva definirsi
marrone, i bordi dell’indumento erano strappati e le maniche erano
consumate.
Era molto
magro, infatti gli Ent gli davano solo il necessario per farlo sopravvivere,
mostrandogli tutto il loro disprezzo nei suoi confronti, che anni prima aveva
sterminato centinaia dei loro simili per creare la sua base “segreta”,
mettendosi contro tutto il mondo.
Stava
implorando Barbalbero di dargli del cibo per sfamare la sua fame ferocie, quando
fu attratto da un piccolo ratto che stava cercando di entrare nella sua tana nel muro,
aveva fra le zampe qualche briciola di pane. Attese che Barbalbero se ne andasse
e, accertandosi che non ci fosse nessuno a guardarlo, si avventò sull’indifeso
topolino e gli rubò dalle minuscole zampette i granelli del pane e se li mise in
bocca gustandoseli fino all’ultimo cercando di attenuare il suo atroce appetito,
ma non ridussero per niente la sua fame. Colpito da una mostruosa idea rimase
fermo a fissare il grigio roditore, con estremo piacere… voleva mangiarlo;
allora ricontrollò che non ci fosse nessuna guardia che lo stava controllando,
fece qualche passo indietro e puntò lo sguardo sugli occhi del piccoletto. Tirò
un urlo, un urlo come quello di battaglia, acchiappò in un fratto di secondo il
povero topolino e disgustosamente lo mise in bocca e cominciò a masticare come
una bestia feroce. Non ricordava quanto tempo era passato dall’ultima volta in
cui era stato così felice, assaporò quel roditore con grande soddisfazione,
finalmente aveva poggiato sul suo disgustoso palato della carne. Sputò a terra
gli ossicini del roditore.
Finì di
sgranocchiare i resti del piccolo e indifeso topo.
La sua
attenzione fu attirata da alcuni forti botti che si sentivano fuori della
finestra. Il vecchio stregone si avvicinò alla fessura del muro, con molta
prudenza cercò di non pungersi con i fiori dal colore viola e rossi, cercando di
capire cosa stesse succedendo: notò che c’erano alcuni Ent che fuggivano e altri
che stavano correndo verso il fiume perché la loro corteccia stava andando a
fuoco.
Intravide
un esercito di sagome nere che
avanzava verso la torre d’Orthanc, capì che erano certamente degli orchi, ma
quando sforzò meglio gli occhi,
perché ormai anche la sua vista non era più quella di una volta, vide che quelli
non erano semplici orchi, quelli erano: Uruk-Hai e per di più portavano la “mano
bianca”, in quel momento una gioia fiammante trapassò il suo cuore, o perlomeno
quello che ne rimaneva, e fece una risata priva d’allegria, una risata piena
d’odio e malvagità.
Osservava,
avido di conoscenza, tutto ciò che accadeva e godeva nel vedere gli Ent cadere
come fiorellini schiacciati da un piede. Rideva.
La porta
della grigia cella cadde a terra distrutta e un massiccio troll, provvisto di
una grande mazza di pietra, ringhiò di fronte a Saruman, poi lo prese per il
collo e lo sbatté contro la parete opposta, lasciandolo sul terreno con il naso
sanguinante. Entrò nella cella, si fermò innanzi allo stregone, lo prese per il
colletto della veste sporca e lo fece uscire da quella sudicia prigione dove era
stato rinchiuso per un intero lustro dagli Ent. Riprese conoscenza. Vide alcuni
Ent che giacevano a terra, morti, i loro corpi erano mutilati, i rami erano
tagliati, i loro occhi erano terrorizzati. Un Huruk-Hai sbucò fuori da un
corridoio, si fermò ed osservò Saruman, lo disprezzò. Saruman si sentiva
osservato e la sua anima, se ne aveva una, era indignata, si sentiva umiliato:
gli Huruk che aveva sempre considerato inferiori ora lo stavano liberando e lo
disprezzavano. L’orco fece un cenno al troll, che lasciò a terra lo stregone, e
gli fece strada, conducendolo alla grande e buia sala, dove una volta era la
sede del suo potere e dove era situato il suo Palantìr, che gli permetteva di
vedere il futuro e di rimanere in contatto col suo tetro signore. Un
terrificante e grosso orco aveva un’armatura nera e un lungo mantello mogano,
che toccava terra, mostrò la sua lealtà verso Saruman con un inchino e poi
disse: -Mio signore sono lieto di vedere
che state bene…vi porgo i miei omaggi e…questo…-, Saruman sentì la gioia
crescergli nel suo piccolo e freddo cuore: quell’orco lo rispettava! L’orco che
aveva accompagnato il vecchio ringhiò all’altro, che ruggì paurosamente,
rammentandogli di essere il capo, che poi tirò fuori da sotto il mantello un
bastone di legno nero, era molto lungo e abbastanza spesso da impugnare,
sull’estremità aveva quattro punte e al centro c’era una sfera bianca di medie
dimensioni, incastonata nello scuro legno; Saruman era assolutamente certo che
si trattava di un sogno, non credeva ai suoi occhi che quell’Huruk-Hai gli stava
dando il suo bastone magico, la fonte di tutti i suoi poteri. Proprio così,
quell’orrendo orco gli stava ridando i suoi poteri magici. Si accese una luce
negli occhi neri di Saruman, -Come ti
chiami Huruk-Hai?-, domandò, con tono adirato. L’orco ruggì, -Io sono Akaan, capo dell’esercito.-, il
vecchio sorrise malvagiamente.
Saruman
era libero.
te
bene…vi porgo i miei omaggi e…questo…-,
Saruman sentì la gioia crescergli nel suo piccolo e freddo cuore: quell’orco lo
rispettava! L’orco che aveva accompagnato il vecchio ringhiò all’altro, che
ruggì paurosamente, rammentandogli di essere il capo, che poi tirò fuori da
sotto il mantello un bastone di legno nero, era molto lungo e abbastanza spesso
da impugnare, sull’estremità aveva quattro punte e al centro c’era una sfera
bianca di medie dimensioni, incastonata nello scuro legno; Saruman era
assolutamente certo che si trattava di un sogno, non credeva ai suoi occhi che
quell’Huruk-Hai gli stava dando il suo bastone magico, la fonte di tutti i suoi
poteri. Proprio così, quell’orrendo orco gli stava ridando i suoi poteri magici.
Si accese una luce negli occhi neri di Saruman, -Come ti chiami Huruk-Hai?-, domandò, con
tono adirato. L’orco ruggì, -Io sono
Akaan, capo dell’esercito.-, il vecchio sorrise
malvagiamente.
Saruman era libero.