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Autore: deadjoke    03/04/2013    1 recensioni
Si può dire che il carcere non sia uno dei migliori luoghi dove poter passare la propria esistenza, ma se veniste costretti ad andarci ogni giorno, abbandonando la vostra casa? Questa è la descrizione dal punto di vista del protagonista durante una tipica giornata, doversi svegliare presto per poi andare in un luogo ricco di tristezza e incomprensioni.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La giornata era appena iniziata, anche da sotto le coperte, ancora calde, potevo vedere la finestra. Fuori, una bufera di neve travolgeva l’intera città, non potevo permettermi di rimanere nel mio caldo letto a dondolarmi da un’estremità all’altra per tutto il giorno, lo avrei voluto con tutto il cuore, ma oggi dovevo assolutamente andare nella prigione.

A fatica mi alzai da quel comodo riquadro di riposo notturno, la testa mi doleva per troppo freddo che lo sbalzo improvviso di temperatura aveva provocato nella notte, presi dall’armadio due paia di maglie, una felpa imbottita e altre due paia dei pantaloni più pesanti che possedevo, lanciai tutto sulla sedia e mi diressi verso il bagno.
Le mattonelle erano come blocchi di ghiaccio, ormai al centro della stanza non avevo il coraggio di tornare indietro per indossare delle calze, resistetti e andai a lavami i denti e ad aggiustarmi i capelli.
Saltellando, tra un passo e l’altro, ritornai in camera dove finalmente indossai le calze, dopodiché scesi le scale, facendo attenzione a non inciampare tra gli innumerevoli scalini che separavano me dalla cucina. Tenendomi, con tutte le forze, al piccolo corrimano in legno situato alla mia destra, riuscii a scendere le scale con tale velocità che per miracolo non presi il volo.
In cucina non c’era presenza di anima viva, aprii il frigorifero in cerca di qualcosa da mangiare, e dopo una lunga sessione di analisi approfondita dei viveri, tirai fuori una semplice mela rossa. Mentre mangiavo i vari, gustosi, spicchi che mi ero tagliato, ritornai in camera.
Uno alla volta presi tutti i vestiti che avevo poco prima tirato fuori dall’armadio. Sentivo il calore del mio corpo che aumentava indumento per indumento, alla fine mi sentì come una stufa accesa da mezza giornata.
Ero pronto per affrontare la bufera di neve fino al mio obbiettivo, misi la cartella sulle spalle e chiusi la porta, lasciando entrare qualche fiocco di neve che aspettava di sciogliersi in casa.
Il cielo era dello stesso bianco delle strade, non se ne distingueva la differenza, i cumuli di neve, accatastati l’uno sopra l’altro nei tratti dei marciapiedi mi ricoprivano fino all’ombelico, mi feci forza e continuai a camminare, non potevo arrivare in ritardo.
Le macchine sfrecciavano a gran velocità, incuranti dei pericoli che potevano correre andando con tale velocità su quell’ammasso di neve e ghiaccio che si era formato nelle strade, il marciapiede su cui camminavo era piccolissimo, quasi non ci stavo e ogni macchina che mi sorpassava mi faceva sempre di più apprezzare il fatto di essere ancora vivo e in quell’enorme cumulo di neve. Dopo svariati chilometri la raggiunsi, la prigione.
Luogo di umana sofferenza dove tutti quelli come me venivano rinchiusi per svariate ore al giorno, le sbarre alle finestre, il grigio colore delle pareti ed il tanfo insopportabile cancellavano immediatamente qualsiasi espressione o pensiero di felicità di chi vi entrasse.
Spinsi con forza l’enorme portone che separava il bene dal male e vi entrai, pronto a portare a termine la mia missione.
Entrai nella stanza in cui venivo sempre rinchiuso con altre persone, presi il mio solito posto, dopodiché iniziai a guardare i volti degli altri carcerati. Tutti pieni di tristezza e malinconia, i loro sguardi fissi sul vuoto sembravano piccoli proiettori di ricordi.

Un rumore interruppe il silenzio, un gigante entrò nella stanza, portandosi sottobraccio una piccola valigetta colma di strumenti di tortura. Ci alzammo tutti dalle nostre sedie, rigorosamente in silenzio e dopo un cenno dl gigante riprendemmo tutti i nostri rispettivi posti.
Dovemmo stare ore ed ore seduti su quelle scomode sedie che spacciavano per poltrone, cambiai postura infinite volte e mentre continuavo a muovermi, il gigante continuava a parlare senza mai smettere un attimo. Dopo qualche ora i miei occhi iniziarono a chiudersi, ma se avessi assecondato tale esigenza il gigante mi avrebbe visto e sicuramente punito con qualche oscuro sistema di tortura. Lottai con tutte le mie forze affinché i miei occhi rimanessero aperti.
Una campanella interruppe il gigante, il quale si stoppò di colpo e ci fece cenno di uscire dall’aula. Improvvisamente, tutti ritrovammo le forze e ci dirigemmo con la massima velocità, dalla stanza fredda e umidiccia nella quale eravamo stati per ore.

Infiniti dibattiti si aprivano fra i miei compagni carcerati, ero troppo agitato per intraprendere una discussione, le parole non mi uscivano dalla paura, verso la fine della giornata sarebbe stata emessa la mia sentenza.
La campanella suonò nuovamente dopo qualche minuto, ma questa volta non acquistammo nuove forze, anzi, le perdemmo tutte.
Il gigante era ancora seduto dietro la sua scrivania, parzialmente nascosto dalla sua valigetta aperta. Ci scrutò lentamente e poi tirò fuori da quella piccola valigetta di pelle, una pila di fogli.
Il cuore cominciò ad accelerare il suo battito, e con me anche quello di tutti gli altri presenti nella stanza.
Ero talmente nervoso e spaventato che il piede prese a muoversi con volontà propria e non potetti smettere di sbattere la punta della penna che avevo in mano sul piccolo banco grigio davanti a me. Lentamente, il gigante cominciò a chiamarci uno ad uno, chi veniva chiamato si avvicinava alla scrivania, con andamento sicuro e occhi spensierati, per poi ritirare quel piccolo foglio col nome di ognuno di noi sopra. Per ogni persona che si alzava, il mio cuore batteva sempre più velocemente, il sudore grondava dalla fronte e la penna veniva sbattuta sempre più violentemente contro il banco. Dopo qualche minuto, il mio nome venne pronunciato e la penna che tenevo in mano si spezzò in centinaia di piccoli pezzi, mi alzai dalla sedia, e quel piccolo tragitto dal mio posto alla scrivania, sembrava infinito, passo dopo passo lasciavo alle mie spalle una serie di pozzanghere di sudore che scendeva incessantemente dalla fronte, quando arrivai lo sguardo del gigante incrociò il mio. Ero impietrito, incapace di tirare fuori la benché minima sillaba e, tantomeno, di muovere alcun muscolo. Il colosso prese il foglio col mio nome sopra, lo guardò e sorrise, poi me lo porse pronto già a chiudere la valigetta. La sentenza era nelle mie piccole mani sudate, il terrore mi attanagliava lo stomaco, presi fiato e guardai lessi il verdetto.
Il mondo si colorò, un sorriso si stampò sul mio volto e qualsiasi dolore, tic e improvviso aumento del battito cardiaco svanì immediatamente. La campanella suonò nuovamente e questa volta uscimmo dal carcere, pronti a ritornare nelle nostre case. Ero privo di preoccupazioni, e ogni macchina che mi sfrecciava accanto mi faceva apprezzare sempre di più il dolce letto caldo che mi attendeva a casa e il sorriso dei miei genitori che avrebbero fatto vedendo il voto che avevo ottenuto a scuola, o come mi piace definirla, il carcere. 

  
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