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Autore: deadjoke    03/04/2013    1 recensioni
La vita porta in serbo tante sorprese, alcune di queste, a volte, non sono delle migliori. Tutto ciò che possiamo fare, come il protagonista di questa storia, è tenere duro e cercare di andare avanti.
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La vita procedeva al meglio, avevo 35 anni, una moglie e due splendidi bambini che giravano sempre per casa, allegri e spensierati.
Un giorno, a lavoro, iniziai a tossire e solo dopo qualche secondo mi accorsi di stare sputando sangue. Non potevo crederci, pensai di essermi tagliato la lingua mordendola mentre masticavo la cicca, ma un forte dolore al petto fece sfatare questa ipotesi. Mi recai in ospedale con l’intento di sottopormi a varie visite e a qualche radiografia. Non avevo mai visto posto più triste, le persone sedute nelle varie sedie sparse per la sala avevano un broncio stampato sul volto, come biasimarli, chiunque si trovi in ospedale non avrà sicuramente un sorriso a trentadue denti. C’era chi continuava a tenersi stretta una parte del proprio corpo presentando segni di dolore, altri con parti del proprio corpo in bottiglie ripiene di ghiaccio e infine quelli come me, impauriti dal fatto di avere qualche grave malattia e con lo sguardo fisso sul vuoto, in attesa di essere chiamati per procedere con la visita.
Le infermiere al bancone non sembravano interessarsi minimamente ai pazienti che andavano a chiedere una visita, rispondeva a tutti con la stessa semplice e fredda frase “compili il modulo e aspetti il suo turno seduto”, non faceva distinzioni, neppure vedendo un uomo con un chiodo piantato nel cranio.
Aspettavo con ansia che l’infermiera mi chiamasse e, mentre aspettavo, iniziai a fissare il vuoto pensando a ciò che mi sarebbe potuto capitare, i miei viaggi mentali vennero interrotti dalla vibrazione del mio cellulare. Era un messaggio da mia moglie, la quale mi chiedeva dove fossi. Non avevo il coraggio di dirle ciò che mi era successo, non era giusto nei suoi confronti, ma se non fosse stato nulla non avrei avuto motivo di spaventarla inutilmente. Risposi che dovevo sbrigare delle faccende di lavoro.
Passai infinite ore seduto su quella piccola sedia di plastica color giallo sbiadito, affiancato da innumerevoli persone con differenti problemi, non me la sentivo di iniziare una conversazione domandando “qual è il suo problema?”. Verso il calar del sole venne il mio turno, mi alzai, cercando di riacquistare sensibilità alle gambe e mi diressi nella indicatami dall’infermiera. Stetti in piedi al centro della stanza, attendendo l’arrivo del medico, il quale si presentò dopo pochi minuti, entrando con andamento sciatto e il volto pieno di occhiaie dovuto alle ridotte ore di sonno. Gli raccontai tutto quello che mi era capitato, dopodiché mi fece fare qualche lastra e radiografia, successivamente mi disse che potevo tornarmene comodamente a casa, in attesa dei risultati. Non potevo smetterla di pensare.
Continuavo a domandarmi cosa avrei potuto e dovuto fare se mi avessero trovato un tumore. Continuavo a domandarmi come avrei potuto dirlo alla mia famiglia.
Seduto nella mia macchina, asfissiato dai pensieri, le lacrime scesero a fiumi.
Presi un respiro profondo, come per scacciare via tutto e partì verso casa.
Le luci erano spente, ma si poteva intravedere una piccola luce proveniente dal televisore ancora acceso, entrai nella stanza e vidi la mia adorata moglie sdraiata sul divano che dormiva con una piccola coperta dei bambini che le lasciava fuori i piedi.
Mi tolsi la giacca, gettandola sulla più vicina sedia, spensi il televisore e sollevai il mio amore. La stesi sul letto, cercando di non svegliarla e dopo essermi cambiato entrai anch’io nel comodo letto che avevamo comprato quando venimmo ad abitare in quella casa.
Il giorno seguente, sabato, venni svegliato dall’odore di brioche calde, scesi le scale e salutai i bambini con un bacio sulla fronte e un abbraccio, poi salutai il mio tesoro con un piccolo bacio sulle labbra che sapevano di caffè. Le spiegai che sarei dovuto uscire nel primo pomeriggio per ritirare delle pratiche di lavoro all’ufficio postale e che sarei dovuto andarle a consegnarle in ufficio subito dopo. Mi credette, ciò non mi consolò molto, la vera consolazione l’avrei ottenuta vedendo che non avevo il benché minimo problema.

Uscii verso le cinque di pomeriggio, diretto all’ospedale, mi presentai all’apposito sportello e diedi un foglio rilasciatomi il giorno della visita, la signora dietro il vetro non staccava gli occhi dallo schermo del computer e, tra un battito e l’altro sulla tastiera, mi chiese di pagare il ritiro delle lastre e delle ecografie. Quale prezzo può avere la vita se non qualcosa di astratto, mi domandavo mentre le porgevo con disgusto quell’abbondanza di soldi che mi ero portato appositamente.
Con una mano fece scorrere la busta e mi augurò buona giornata, avevo paura di aprirle e soprattutto, non ero certo si riuscire a capirci qualcosa visto che non avevo mai studiato medicina. Mi recai dal mio medico personale, il quale mi accolse a porta aperta e mi offrì anche un caffè che rifiutai.
Gli porsi la busta e gli chiesi di aiutarmi a capirne i risultati, la aprì e messe il contenuto su una lavagnetta retro illuminata posta sulla parete vicino alle sua spalle.
Guardò quei pezzi di plastica con faccia stupita e amareggiata, si girò verso di me e mi domandò se tali fogli erano miei, col cuore in gola risposi, il suo sguardo cadde verso il basso per qualche istante, prese fiato e mi disse che avevo un tumore maligno ai polmoni.
Svenni.
Mi svegliai dopo qualche secondo sdraiato sul lettino del mio amico medico, il quale mi domandò se avevo già avvertito la mia famiglia, risposi negativamente e poi, con tono vuoto, gli chiesi se poteva dirmi quanto tempo mi sarebbe rimasto.
Due settimane di vita, non avrei fatto in tempo a vedere i miei figli crescere, visitare qualche paese straniero con la famiglia e godermi le risate con gli amici.
Tornai a casa e informai mia moglie. Scoppiò in lacrime, chinandosi sul letto e tirando a se il cuscino usandolo come enorme fazzoletto, la raggiunsi e le baciai il collo.
Le chiesi di non avvertire i bambini, non volevo che passassero dei giorni pieni di tristezza pensando che ogni giorno che passava poteva essere anche l’ultimo.
Mi disse di andare a controllare meglio i risultati e se necessario di ripeterli ulteriormente per averne un’assoluta certezza, le promisi che ci sarei andato il giorno seguente appena sveglio. Passammo la notte abbracciati nel letto, a crogiolarci in un misto di ricordi, lacrime e risate. Appena sveglio mi vestì, cercando di non svegliare nessuno in casa, presi le chiavi della macchina e andai nuovamente in ospedale. Non vi era anima viva all’interno, nessuno con arti mozzati in barattoli di ghiaccio e nessun uomo con chiodi o quant’altro conficcato in testa. Mi diressi nello studio del dottore, il quale mi accolse con aria riposata e mi disse con aria felice che i risultati che mi erano stati consegnati non erano i miei. Mi spiegò che una delle infermiere scambiò le buste per via dello stesso cognome e che io non avevo il benché minimo segno di tumore o malattia, la fuoriuscita di sangue dalla bocca mi era stata causata dalla rottura di una piccola vena vicino alla lingua, la quale ritornò a posto nel giro di pochi giorni.
Uscì dallo studio in uno stato di felicità assoluta, non ci pensai due volte ad inviare un messaggio a mia moglie, spiegandole tutto l’accaduto. Attraversai le strisce pedonali col semaforo verde, concentrato a mandare il messaggio.
Un rombo di motore.
Il grido di più persone.
Venni investito.
La macchina accelerò, ed io, fino a pochi attimi prima, colmo di felicità, mi trovavo steso sul suolo della strada, ricoprendo di rosso le strisce a me sottostanti.
Chiusi gli occhi e rividi per un secondo la mia famiglia, i miei amici e tutte le persone più importanti con cui avevo passato il mio tempo.
Feci il mio ultimo respiro, e pensai.
Strana la vita. 

  
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