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Autore: saso    26/10/2007    2 recensioni
In una Baghdad distrutta dalla guerra, due uomini vivono le loro vite. Uno è un semplice maresciallo capo dei Carabinieri, l'altro è un giovane uomo a cui la guerra ha portato via tutto, a cominciare dalla famiglia. Le loro vite si incontreranno ed allora la loro guerra interiore avrà fine.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La guerra dell'anima
Salve a tutti, questo racconto è stato scritto più di tre anni fa, per partecipare ad un concorso di "Letteratura Giovanile" della mia città. Il racconto è arrivato quarto tra oltre mille racconti inviati, ma ancora oggi mi è oscuro il motivo che mi ha fatto vincere. Prima di lasciarvi alla lettura di questo racconto, voglio fare una specificazione, per evitare quelle discussioni che già anni fa si sono aperte su questo racconto: personalmente la mia non è una nè critica, nè una condivisione di principi da parte di nessuno. Ho voluto semplicemente raccontare una storia, la storia di Mohamed e del Maresciallo Trevoli, e basta. Senza espressioni di giudizio, condanne o altro, si tratta solo di una storia scritta per se stessa. Detto questo, voglio specificare inoltre che nella ricostruzione diella Baghdad distrutta dalla guerra, mi è stato d'aiuto mio zio che lavorava in missione per l'esercito, a lui vanno tutti i miei più sentiti ringraziamenti. Buona lettura.


"A tutti coloro che vivono una guerra: pace!"

La guerra dell’anima

La mattina in cui si sarebbe ucciso, Mohamed Yhalli, si svegliò presto. La sera prima, aveva deciso che avrebbe fatto un ultimo giro per la sua amata città prima di compiere il suo ultimo atto. Fuori dalla sua casa, distrutta dalla guerra, con lo stucco azzurrino che sotto le intemperie del tempo si sgretolava dalle mura, il sole non era ancora sorto, e l’aria della notte umida più del solito per quei mesi estivi risultava difficile anche da respirare.
Appena sveglio, era rimasto disteso sul suo materasso consumato costituito più che altro da uno strato di polverose e puzzolenti coperte, avvolto nelle lenzuola sudice, a guardare il soffitto buio e i luminosi puntini immaginari, pensando alla sua vita, distrutta, e a quello che avrebbe dovuto fare quel giorno appena giunto al mercato.
Era terrorizzato al solo pensiero di quello che doveva fare, ma sapeva, o almeno credeva di sapere, visto che chi gli avevo dato quell’incarico glielo aveva ripetuto tante di quelle volte, che il suo era un sacrificio necessario per liberare il suo popolo dall’invasione degli infedeli. Dentro di lui però, un vortice di pensieri e sensazioni contrastanti lo teneva bloccato disteso nel suo piccolo mondo, al buio, nascosto tra le pieghe della notte che lenta si rivestiva e lasciava spazio al tumultuoso giorno, che puntualmente arrivava in quelle terre sempre più stanco e sempre più privo di vita ma sempre cocente e brillante, come a ricordare che in fondo al cielo di quegli stupidi mortali che si uccidevano a vicenda, non importava nulla.
Dentro di lui un vociare silenzioso riprendeva il suo scorrere lento, ma fra tutte una voce era più forte delle altre, la voce di sua figlia, Fathma, che gridava dal centro del vortice, ma lui non riusciva a sentirla, non riusciva a capire cosa gridava la sua piccola bambina.
Due settimane prima all’alba di un giorno normale, per quanto normale possa essere un giorno in una terra distrutta dalla guerra e da tutto cioè che essa comporta, sua moglie e la sua piccola figlia erano uscite per andare a comprare qualcosa con gli ultimi soldi rimasti, ma non erano più tornate. Soltanto nel pomeriggio, quando preoccupato per il loro ritardo Mohamed era uscito per cercarle, aveva scoperto che erano morte in un attentato su un pullman.
Da quel giorno la sua vita era cambiata, anzi a dire il vero la sua vita era finita. Per questo motivo aveva accettato la richiesta di uno sconosciuto di vendicare la morte della propria figlia che era morta con un attentato contro i veri colpevoli  gli infedeli invasori.
Scosso da quei dolorosi pensieri si alzò di scatto dal letto, quasi lo avessero assalito o come se al buio una scarica improvvisa l‘avesse colpito in pieno, e procedendo lentamente a tentoni, visto che dopo la guerra sia l’elettricità che le candele erano scomparse del tutto, raggiunse il bagno. Qui sempre tastando riuscì a trovare la ruvida e fredda pietra del lavandino in cui era raccolta un po’ d’acqua e lentamente vi immerse la mano destra. Il freddo dell’acqua a contatto con la sua pelle accaldata dall’aria esterna e dal calore accumulato dal sonno, lo fece rabbrividire. Quando tornò nell’altra stanza si piegò sotto il letto e prese il giubbotto ripieno di esplosivo che gli aveva dato lo sconosciuto. Nel silenzio più assoluto della sua stanza, con gli uccelli che fuori iniziavano il loro spensierato canto, lui lo indossò stringendolo delicatamente alla vita rivestendosene come un prete si riveste prima di andare di servire la messa, sentendo il peso di quell‘oggetto di morte, ma ancora di più sentendo il peso della sua anima.
Sopra di questo indosso la sua lunga tunica grigia, logora e sporca e la fascia nera che gli serviva per bloccarla alla vita. Prese il piccolo telecomando di plastica che, secondo quanto gli avevano ripetuto tante volte lo sconosciuto e i suoi compari, serviva per fare innescare l’esplosione e lo infilò in tasca, posandolo delicatamente, ma ripulendosi subito dopo la mano sulla tunica.
Prima di uscire, si fermò un attimo sulla soglia della porta ad assaporare per l’ultima volta quell’odore, un misto tra muffa e polvere, che era tutta la sua vita e che per lui da anni significava solo una cosa: casa. Le voci della sua anima, che fino a quel momento si erano come zittite, ripresero a lamentare la loro sventura, ma lui sordo e silenzioso si voltò e si avviò per la strada dove doveva combattere la sua ultima guerra, quella dell’anima.

Lentamente il sole si era fatto strada tra le interminabili volte del cielo e con la sua luce serpeggiava tra le infinite vie cantando il suo silenzioso grido che chiamava tutti alla tragicità della vita. Sorgendo illuminava tutto della meravigliosa Baghdad dalle stupende cupole d’oro della moschea Haydar-Jan ai cancelli dorati dell’ex palazzo presidenziale. Ma questo spettacolo culturale che aveva ispirato tanti poeti veniva sfregiato dall’immenso danno fatto dalle bombe della guerra.

Quella stessa mattina a poco più di tredici chilometri dalla casa di  Mohamed, il maresciallo capo dei Carabinieri, Marco Trevoli si era svegliato presto perché doveva recarsi al vecchio aeroporto per prendere gli ultimi aiuti umanitari che arrivavano dall’Italia.
Mentre stava ancora disteso sulla sua brandina impolverata dentro il vecchio ufficio postale che loro utilizzavano come base, pensava alla sua famiglia che aveva lasciato alla periferia di Napoli e a tutto quello che aveva lasciato là.
“Non c‘è molta differenza tra quel posto e questo” si ritrovò a pensare, mentre ricordava quello che aveva visto succedere durante i suoi anni di servizio nella sua città: violenza e ignoranza erano le malattia a cui lui ormai aveva fatto gli anticorpi. Dopotutto guerra era quella che si combatteva nella sua terra e guerra era quella che lui si trovava a fare in una terra che non gli apparteneva.
Mentre pensava a tutto questo, un nuovo pensiero gli sfiorò la mente. Un pensiero più dolce, più tenero: il tenero sguardo della sua piccola figlia, Maria, che aveva dovuto abbandonare per andare a guadagnare qualcosa per poterle assicurare un futuro. Scosse debolmente la testa, quel luogo desolato non era degno di così dolci pensieri. Decise allora di uscire e di andarsi a preparare.
Quando fu pronto scese nelle cucine, dove fece la sua ultima colazione, servendosi del caffè caldo e del pane con marmellata. Ripresosi dalle forze, si avviò verso il garage dove preparò il camion da trasporto e insieme a tre dei suoi soldati si avviò verso l’aeroporto dove l’attendevano gli uomini della croce rossa.
Seduto sul sedile anteriore, vicino al guidatore, rilassò la mente e permise ai pensieri di assalirlo dolcemente. Mentre il camion si avviava per le strade distrutte della vecchia Baghdad un turbine di voci, sentimenti e odori lo avvolse e lo trascino dentro il vortice della vita che lui aveva messo in stand-by.
Dal primo giorno che era giunto in Iraq il maresciallo Trevoli aveva capito il vero significato della vita. Anzi, per la prima volta in trentacinque anni aveva capito di essere vivo. Nella vita normale, quando una persona è presa di continuo dalla routine quotidiana, ha poco tempo per pensare, perché tutti i pensieri vengono assorbiti e filtrati da una grande spugna che è il sistema. Ma mentre si è in guerra, ogni istante è un’eternità e tutto sembra una nuova scoperta, prima fra tutti la facilità con cui gli uomini morivano. Nella vita normale, anche la morte sembra normale, ma in guerra tutto appare come un’incognita grande e pesante, come un immensa spada di Damocle, che violentemente pesa sulla testa di tutti. E col tempo ti ritrovi a pensare a chi capiterà la prossima volta, se sarà il collega con cui la sera ti ritrovi a scolarti una birra in silenzio, guardando le stelle, o se toccherà a quel ragazzo americano di neanche vent’anni a cui hai salvato la vita una volta, o se toccherà a te, magari, o se tu sarai salvato e se potrai tornare alla vita quotidiana, a quel sistema che prima odiavi ma che adesso ti manca, e questo mancare ti fa comprendere per la prima volta della sua esistenza.
Questa terribile verità, sulla morte, che aveva appreso in quella terra dimenticata, lentamente lo uccideva da dentro, nutrendosi della sua vita, ma questa sofferenza lo spingeva sempre di più ad imbracciare le armi ad a combattere la guerra della sua anima.
Scivolando tra le strade decisamente poco affollate, ma comunque distrutte dalla guerra, il camion era giunto finalmente all’altezza dell’ultimo posto di blocco, superato il quale sarebbe finalmente giunto a destinazione.
 I due soldati che stavano di guardia al posto di blocco erano due giovani ragazzi di colore che potevano avere circa vent’anni, e alla vista del camion, si sbrigarono ad impugnare le armi e schierarsi di fronte alla barricata di filo spinato. Uno dei due giovani soldati americani, intimò l’alt al guidatore, il quale si fermo ad una modesta distanza dalla barricata.
Destatosi dai suoi pensieri, il maresciallo Trevoli si sbrigò a prendere i documenti che aveva sul cruscotto e scese dal camion. Dopo aver chiarito tutto parlando in quel suo inglese stentato e con quella tipica cadenza napoletana che faceva tanto ridere i suoi colleghi, salutò i due americani, che spostarono la barricata e fecero passare il camion dei carabinieri.
 
Lentamente Mohamed Yhalli aveva percorso tutta la città a piedi costeggiando le facciate sbiadite delle case, per nascondersi dal sole, percorrendo i lunghi viali principali e le piccole viuzze e i vicoli che sapevano di morte.
Prima di compiere la sua missione, aveva deciso di visitare per l’ultima volta i luoghi della sua amata città. Così attraverso strade e scorciatoie, che da piccolo aveva percorso tante volte quando riusciva a liberarsi prima dall’aiutare suo padre e aveva un po’ di tempo per giocare con gli altri bambini, era arrivato di fronte alla moschea più grande di tutto l’Iraq, Haydar-Jan. Le cupole d’oro di quella grande e meravigliosa moschea avevano il grande potere di incutere un grande timore reverenziale a tutti coloro che osavano alzare lo sguardo e di sfidare la loro infinita onniscienza. Odorosi ricordi di luminose mattine estive affiorarono nella mente di Mohamed: lo sguardo di sua figlia, dolce e sincero, i giorni passati a pensare al domani, gli innumerevoli pomeriggi passati nello studio di un amico a farsi leggere le poesie dei poeti più famosi, e le innumerevoli sere in cui da giovane era rimasto a guardare le stelle sperando con tutto il cuore di poter andare via da quella terra, lui e la sua famiglia.
E poi, improvvisamente, affiorò in lui la rabbia, e si ritrovò bloccato pervaso dalla paura. Si riscosse lentamente, pensando alla sua vendetta, che ora dopo ora era sempre più vicina. Gli avevano detto di farsi esplodere al mercato, alle tre del pomeriggio, quando i soldati sarebbero stati li a controllare che non vi fossero problemi. Mancavano tre ore al suo sacrificio. Decise di non entrare in moschea, poiché, anche se quegli uomini dicevano il contrario, lui si sentiva sporco con quel mostro di morte addosso e indegno di entrare in quel luogo che lui amava e temeva così tanto. Decise quindi di andare a visitare lo zoo.
Lo zoo di Baghdad era immenso e bellissimo anche grazie all’ambiente che la natura offriva in quella regione. Dentro vi si trovavano animali di ogni specie. Mohamed lo raggiunse senza problemi nel giro di pochi minuti visto che si trovava li vicino. Sapeva bene che l’avrebbe trovato chiuso, poiché da quando era scoppiata la guerra nessuno si prendeva più cura di quelle povere bestie. Si avvicinò alla grata nera vicino alla strada e guardò dentro. Da quella parte, la prima cosa che si vedeva era la gabbia dei leoni. Non facevano poi così tanta paura, ridotti com’erano: talmente dimagriti che si riuscivano a vedere le costole e stremati dal caldo che giacevano l’uno accanto all’altro dentro la loro piccola e sporca gabbia. Anche lui si sentiva così, in gabbia. Prigioniero di una guerra non sua, schiavo dei desideri di potere dei vecchi e dei nuovi padroni. Tutto perdeva senso a Baghdad. Tutto era privo di senso e sospeso nel tempo: tra il passato certo, ma terribile, e il futuro ignoto e per questo pieno di paure. Tutto era incerto. Ma su una cosa Mohamed non aveva dubbi, su quello che avrebbe fatto di li a due ore. Così, sempre più stanco e provato si avviò verso il mercato.
Le strade di Baghdad sembravano come degli sporchi cimiteri. Anche se non vi erano più corpi per le strade, poiché le mogli piangenti e le madri dolenti avevano dato sepoltura ai corpi dei loro figli, nell’aria vi era un forte odore di morte, che impregnava tutto, filtrando nei polmoni entrando sempre più dentro, fino a perforare l‘anima e a farti sentire quel pianto dei vivi e quel canto dei morti che era costante in presenza di una guerra. “Chi sono io, un vivo tra i morti o un morto tra i vivi?”, questo si domandava Mohamed mentre svoltava l’angolo e giungeva nella piazza del mercato.
Un fiume impetuoso di voci lo investì, riportandolo alla realtà. Si addentrò tra la calca, che comprava e vendeva, nella ricerca del punto giusto: doveva avvicinarsi più che poteva ai soldati, ma di soldati in quel momento non ce n’erano. Si addentro accora un po’, facendosi spazio tra la folla urlante, fino a quando non giunse a metà della via di bancarelle, dove vide che due soldati si avvicinavano dalla sua parte con passo spavaldo, scrutando la gente e parlando tra loro. Si fermò. Guardandosi intorno vide che vi erano molte madri con bambini piccoli. Il ricordo di sua figlia l’assalì, come una pioggia di chiodi e di vetri affilati, squarciandogli l’anima. “No” pensò “ non qui!”. E impaurito tentò di allontanarsi dalla folla, ma mentre stava girando su se stesso, inciampò in qualcosa che era a terra e cadde lungo disteso.

Il maresciallo capo Marco Trevoli, era molto preoccupato quando, giunto al posto di blocco, venne a sapere che nella piazza del mercato, vicino alla loro base, era in corso una battaglia tra due dei suoi uomini e un kamikaze, che voleva farsi esplodere li. Allarmato chiese ai due soldati americani di farli passare, ma quelli risposero che avevano ricevuto ordine di non fare passare nessuno, almeno finché la situazione non si fosse calmata e che dopotutto era giusto così, che non doveva rischiare la vita anche lui. Ma al maresciallo Trevoli, in quel momento, importava poco di ciò che era giusto o meno, due dei suoi ragazzi erano in pericolo e lui non si sentiva di lasciarli soli, là di fronte la morte. Quindi, imprecando nel più ristretto dialetto napoletano, scese dal camion e si avviò verso la piazza, con passo fermo e deciso. Dal posto in cui si trovava, sarebbe arrivato in meno di dieci minuti o quindici, ma sapeva che non c’era tempo da perdere e quindi iniziò a correre. Dal verso opposto al suo centinaia di persone correvano gridando e cercando di mettersi al riparo. Giunto nella piazza, non gli fu difficile riconoscere i suoi uomini, e il kamikaze che stava con la schiena poggiata su un muro e una mano infilata in una tasca della tunica. Aveva il volto impaurito e lo sguardo stanco. Sapeva che ogni minimo gesto poteva essere fatale per lui e per i suoi uomini. Così decise quello che doveva fare. Ordinò ai suoi uomini di allontanarsi di molto, e nel frattempo stacco la sua pistola dalla cintura nera e la poggiò a terra. Alzò le mani in aria, in segno di resa, ma quell’uomo non sembrava capire nulla di quello che stava succedendo. Il suo sguardo era rivolto alla pistola, che fissava con paura.
Mohamed era terrorizzato, fissava quell’uomo in divisa, quel militare, che stava di fronte a lui, ma non capiva quello che stava facendo: un secondo prima si era tolto la pistola, posandola a terra e aveva alzato le mani in alto. La paura lo stava possedendo, invitandolo sempre di più a premere quel maledetto bottone. Si sentiva come quel leone che aveva visto in gabbia, distrutto dentro, sconfitto, dilaniato dalle sue paure, perché adesso si domandava se stava veramente per fare la cosa giusta, se ne valeva veramente la pena di morire così, se quell’uomo che adesso lo guardava con gli occhi lucidi e il sudore che scendeva dalla fronte negli occhi aveva anche lui una piccola Fathma, o se era solo al mondo, come lui, ora. Pensava a tutto questo mentre fissava lo sguardo di quell’uomo, impaurito, con il volto teso, e non riusciva a muoversi.

Il tempo si era fermato. Persino il vento che in quel periodo soffiava caldo e lento, da non fare respirare, si era fermato, come se stesse aspettando il momento giusto per riprendere a scorrere, o almeno nessuno di loro sue riusciva a sentirlo. La sua fronte si stava imperlando di sudore freddo. E la sua mente si era come fermata, nell’attesa di qualcosa, di un gesto, di una parola. Ma lui non avrebbe ricevuto nulla del genere.

All’improvviso, un colpo parti dalla pistola del carabiniere che stava dietro il capitano Trevoli, sfiorò Mohamed ad un braccio. Il capitano si voltò indietro per guardare quello che aveva sparato, che stava tremando ed aveva fatto cadere la pistola, era sconvolto dal suo involontario gesto. Poi si voltò a guardare Mohamed, e vi fu un ultimo lunghissimo istante in cui il suo sguardo si incontrò con quello di quel giovane uomo, stanco tanto quanto lui, consapevole di quello che stava per succedere. Era la fine della loro guerra dell’anima, guerra senza vincitori, ma solo vinti.   

Poi giunse l’esplosione.










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