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Autore: kazuha89    06/04/2013    3 recensioni
una calda estate risveglia ricordi sopiti. ricordi di un estate calda come quella presente, ma vecchia di dieci anni. l'estate in cui la panna conubbe per la prima volta..il dolce sapore del cioccolato ^__^
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Heiji Hattori, Kazuha Toyama | Coppie: Heiji Hattori/Kazuha Toyama
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Caldo.
Sembrava vagamente limitativa, come parola, a voler essere franchi. Ma ero decisamente troppo fiacco quel pomeriggio, per mettermi lì a trovare una parola migliore per definire quell’arsura infernale. Toh, arsura infernale, ecco fatto..
Si, decisamente appropriato, come termine. Era sabato, 25 luglio per l’esattezza, un luglio figlio della più arroventata estate che la vasta memoria di Tokyo potesse ricordare nei suoi annali. Ogni tentativo di refrigerio, sembrava solo fonte di inutile fatica, e i ventilatori e i congegni refrigeranti di qualsiasi tipo sembravano solo sposare di peso la pesante aria calda da una parte all’latra della stanza, senz’ alcun cambiamento. Un paio di giorni fa, Ran aveva pescato suo padre infilato fino a metà busto nel freezer, con l’assurdo alibi di tentato recupero di un fantomatico ghiacciolo. Ran gli aveva urlato che non c’era ombra di gelato là dentro, e che a tener aperto lo sportello tutto quel tempo, la cucina avrebbe finito per somigliare ad una zona marittima. Tuttavia, con la scusa di riordinare la roba congelata sparpagliata dal padre per farsi posto, mi parve che anche lei avesse indugiato un bel po più del richiesto, prima di richiuderlo. Ma ancora una volta, la calura mi aveva indebolito fin troppo per sollevare polemica alcuna.
Quel pomeriggio, poi, ero talmente accaldato da non essere nemmeno in grado di star seduto composto, cosa insolita per la tipologia di carattere che avevo tessuto attorno alla figura di Conan Edogawa.
Nei miei infanti panni originali, la gente era abituata al mio fare da animaletto selvatico, sempre con macchie do ogni genere e origine sui vestiti , stravaccato sul divano nelle pose più “picassiane” possibili. Spesso addirittura, a mia madre veniva chiesto se ero stato adottato, tanto i miei erano eleganti e fini, e io rozzo e sgraziato.
Conan invece, lo avevo reso diverso. Ne ero stato costretto, a dire il vero.
Avevo fatto ogni cosa in mio potere per dissociare il bambino che ero da quello che vostra grazia superalcolica mi aveva fatto tornare, altrimenti si sarebbe sbugiardato subito tutto. Per la somiglianza era bastato un leggero cambio al look, come la posizione del ciuffo, gli abiti pomposi da bimbo perbenista e gli spessi occhiali parto della geniale mente del vecchio Dott. Agasa. Non chissà quale sforzo, in fondo, seppure la giacca fosse scomoda oltre ogni limite quando dovevo muovermi velocemente. Avevo inoltre detto che il mio vero io e Conan eravamo parenti, completando l’opera, però il carattere mi aveva richiesto un po più di impegno, specie perché avevo dovuto modificare le mie normali abitudini, in modo che il gioco reggesse. Sforzo abissale, oserei dire. Conan era il mio perfetto anticristo, sempre per benino, moderato, elegante e cordiale. Tutto ciò che, francamente, non avrei mai desiderato né essere né frequentare, a quell’età. Però i risultati erano evidenti: a nessuno era mai venuto in mente di associare le mie due identità in maniera concreta, se non in qualche sporadica occasione che poi era rimasta campata in aria. Tutto, era filato più che liscio. Noioso, scomodo, ma liscio.
Però, in quell’arroventato pomeriggio di luglio, il caldo aveva lessato ogni mia buona maniera, fittizia o reale che fosse, e mi aveva spinto a gambe all’aria contro il sedile del divano con la testa a penzoloni dal sedile, in pantaloncini corti e t-shirt, con gli occhiali di traverso a scivolarmi via dal naso su una patina di sudore. La grazia fatta persona, in poche parole.
Però almeno, mi consolava l’idea che primo, nessuno badava al fatto che stessi sdraiato in quella maniera bislacca per via del caldo che impediva razionalità. Secondo, Picasso pareva aver messo del suo un po in tutti, quel giorno.
Goro, che già di suo di norma era sempre sbracato qui e là sia in ufficio che in casa, quel giorno era praticamente un origami vivente, coi piedi sulla scrivania, il mini tv con le corse dei cavalli tra le ginocchia nude dati i bermuda, la canotta tutta sollevata e fradicia di sudore, una birra tutta coperta di condensa sulla pancia e una che lui mandava avanti e indietro dal collo alla gola, stravaccato sulla sua sedia talmente in bilico da sfidare la forza di gravità. Uno vero spettacolo per gli occhi.
Ran sedeva sul bordino della finestra a caccia di qualche sporadica zaffatina di aria fresca, i lunghi capelli castani spostati da una parte e un mini completo da tennis fatto si e no da un metro di stoffa complessivo. Beh, per quello, nulla di che lamentarsi..
Kazuha, in visita da Osaka venuta a passare le vacanze con noi, sedeva davanti a lei, sventolandosi frenetica con un ventaglio giapponese in stampa di fiori di ciliegio e con un miniabito di quella che sembrava tela di ragno turchese, tanto era trasparente. Mi sarei permesso un certo indugio, fosse stato per me, anche su di lei.. non fosse per il fatto che ero sdraiato su chi avrebbe fatto in modo che quell’indugio fosse per me l’ultimo in salute. E questo qualcuno era il migliore amico della diretta interessata segretamente innamorato di lei, e contemporaneamente il mio migliore amico: Heiji Hattori. Voltai di qualche grado la testa per osservarlo, una goccia di sudore mi sfiorò uno zigomo. Heiji era sdraiato per tutta la lunghezza del divano, i bermuda in fantasia praticamente scivolati a vita bassa e la maglietta sollevata fino allo sterno, profondamente addormentato con la bocca un po aperta. Caro,lui, pensai ridacchiando piano.
Era arrivato con Kazuha in tarda mattinata nel piccolo albergo di Okinawa, dove io, Ran e lo zio avevamo prenotato per le vacanze, dopo che un ricco cliente per gratitudine di aver risolto un caso di frode casalinga (la moglie lo tradiva e con l’amichetto vendeva i pezzi di valore del marito) ci aveva regalato 5 biglietti aerei per l’ambita meta balneare. Heiji, saputo dell’ affare, si era fatto invitare subito, ed erano partiti alle prime luce dell’alba per raggiungerci in tempo per partire. Una levataccia che Heiji aveva unito a un’ ora di strada in quella posizione di guida scomodissima nel furgoncino noleggiato da Goro per raggiungere l’albergo. Da contare poi la delusione nel vedere che lo zio, taccagno doc, aveva prenotato in un alberghetto lontano al massimo dalla spiaggia e senza climatizzatore. Praticamente, in mix di tutti i gironi dell’inferno. Però ormai la caparra era depositata, il volo l’avevamo pagato anche per il ritorno e Heiji e Kazuha erano lì, perciò decidemmo che per tre giorni, la morte di certo non sarebbe sopraggiunta. Sperando in bene..
Dopo pranzo, il caldo si era fatto così intenso da impedirci ogni tentativo di raggiungere il mare, e così eravamo rimasti in camera. Verso l’una, ci aveva raggiunti anche la storica amica di Ran, Sonoko, che era giunta in soccorso, armata di ventilatori portatili. Ma avuto tanto piacere di vederla da quando la conosco.
“Gesù, zio goro, quei 4 Yen che hai risparmiato per questo forno, lì spenderai in bypass quando il caldo ti farà infartare!” belò entrando in camera, annaspante.
“Bella la vita della principessina ricca, che non fa in tempo a starnutire che arrivano in 50 con un fazzolettino in seta..” aveva borbottato in risposta lui.
“Oh, vai a quel paese, doppio malto! Vi avevo chiesto di venire tutti da me, un mese fa!”
“Si ma un mese fa io e Heiji non potevamo, e adesso la villa al mare dei tuoi la tiene tua sorella con suo marito. La colpa e nostra, Sonoko-chan..” mormorò Kazuha mortificata.
Sonoko denegò.
“Amen, l’importante è stare insieme. Al mare ci andremo quando quel dannato ciccione rovente tramonterà..” disse, guardando torva il sole. Le ragazze scoppiarono a ridere. Io feci cenno di abbassare il tono.
“Mi svegliate il piccolo..” mormorai, accaldato.
Le ragazze risero e Sonoko si avvicinò circospetta.
“Oh, ma guardalo, è ancora più carino quando dorme..”
Kazuha scivolò un po giù dal cornicione della finestra. Sonoko le fece un cenno.
“Abbassa la guardia, vengo i pace. E’ carino, ma il mio Makoto non si batte!”
Kazuha la guardò un po allarmata, ma annui.  Sonoko mi arruffò i capelli sudaticci e fece per pescare una bibita dal minifrigo, quando qualcosa verso di me attrasse la sua attenzione. D’istinto, mi spinsi a posto gli occhiali, temendo che avesse notato qualcosa di familiare nel mio volto, ma il suo sguardo passo oltre me e andò a riposarsi su Heiji, interrogativo.
“Cosa c’è, sta male?” chiese Kazuha, incuriosita dal comportamento dell’amica, allungandosi oltre lo schienale del divano per vedere meglio, mentre Goro andava assopendosi sulla sedia e io andavo prendendo esempio.
“No, ma..che cos’ha sulla pancia?”
Kazuha e Ran assunsero un’espressione dubbiosa e raggiunsero Sonoko.
“Un insetto?” chiese Ran schifata e allarmata.
“No, è..un segno sulla pelle..” replicò Sonoko.
 Incuriosito, allungai un po il collo, per capire cosa intendesse. Vidi che indicava un punto un paio di centimetri sopra l’anca di Heiji, dove spiccava uno strano segno diagonale.
“Che sia il segno del costume?” chiese piano Sonoko, sfiorandolo appena.
“No, è..una cicatrice, credo..” disse Ran.
 Io sbuffai e mi rimisi comodo.
“Sarà appendicectomia, probabilmente, dal punto in cui si trova il segno..”
kazuha denegò.
“Non ha mai tolto l’appendice. Lo saprei, lo conosco da quando avevamo 5 anni..”
“Beh, si sarà ferito a Kendo, allora..” replicai. Ma lei denegò di nuovo.
“Non mi sono mai persa un suo incontro da quando ha iniziato a combatte, e in genere mi occupo io delle sue ferite.. e non si è mai fatto male lì..”
Dato che era improbabile che mi lasciassero dormire finché non si svelava questo abissale arcano, mi tirai su e portai il viso vicino alla zona interessata, osservando per bene quello strano sfregio. A un’occhiata più precisa, notai che era davvero improbabile fosse un taglio da appendicectomia, data l’irregolarità del taglio e la mancanza di segni di punti di sutura. Era una ferita che si era cicatrizzata da sola, quindi non molto profonda, ma abbastanza grave da lasciare un bel baffo sul fianco del mio amico. Cosa poteva essersi fatto?
“Non è..” pensai, diventando serio. “La cicatrice di quella volta che quel poliziotto gli ha sparato nel bagno pubblico? Lo stesso giorno che Numabuki ha pugnalato me..”
Kazuha denego diventando un po pallida, e indicò una piccola cicatrice sulla quarta costola sinistra di Heiji.
“Eccolo li il segno che dici tu, così vicino al cuore..”
Annui, e ripresi ad osservare la cicatrice del mistero.
“Mh..sembra avere diverso tempo, è leggera e sbiadita. E’ saltata fuori solo perche Heiji ha preso il sole, scurendo la pelle. Le cicatrici fanno sempre cosi, e lui che è già scuro di suo, le fa risaltare il doppio. Secondo me dalla forma, deve essersela procurata..beh circa una decina di anni fa,quando era piccolo.”
“Piccolo come te, intendi? Tipo alle elementari?”
“Ah beh..si, infatti.”
Che palle, odiavo dover dire così..
Kazuha rifletté un paio di minuti, ma poi sbuffò corrucciata.
“Non mi pare proprio, Conan. Si, a scuola era peggio di Tarzan, sempre appeso a qualche ramo, sui tetti o dentro qualche cespuglio a caccia di gatti o giocattoli volanti, ma non mi sembra affatto che si sia tagliato il fianco in qualche occasione..”
“Perché non me lo sono tagliato a scuola..”
Tutti i presenti trasalirono, me compreso. Heiji se ne stava beato con gli occhi a mezz’asta ad osservare il suo pubblico. Kazuha lo guardò timorosa: Heiji era sempre di cattivo umore appena sveglio, specie se non si svegliava da solo.
“Ti..ti abbiamo disturbato?”
Lui sorrise. Lo stesso dolce sorriso di Hannibal Lecter davanti al fegato con le fave e il Chianti..
“Tu credi?” rispose, gelido. Sonoko sbuffò stizzita.
“Beh scusa, bellezza, ma la curiosità è donna, e certamente mi spinge ad indagare, se vedo un segnaccio così fuoriposto su un fisico cosi perfetto..”
Heiji spalancò gli occhi per qualche istante, preso visibilmente in contropiede. Sonoko da sempre gli sbavava dietro, ma mai in sua presenza. Kazuha mise il broncio. Era il caso di intervenire,e Ran arrivò in castagna.
“Beh..è vero che è insolita, come ferita. Specie perché Kazuha, che da sempre cura minuziosamente Heiji, non ne ricorda l’origine. Non è solo tua la curiosità, Sonoko. Tutti vorremmo sapere cosa si è fatto il nostro Heiji.”
Nel finire la frase, pizzicò sonoramente la guancia posteriore dell’amica, che fece una smorfia, massaggiandosi dolorosamente. Heiji annui, ancora un po basito.
“Appunto!” sbraitò Kazuha, fulminando Sonoko, che solo in quel momento parve realizzare il peso delle sue parole, e si morse la lingua. “Dove diavolo sei andato a squarciarti la pancia a quel modo? E perché io non ne so nulla? Conan dice che è vecchia come ferita, e senza segno dei punti, per quanto fosse poco profonda..”
“Che sia vecchia si, ha una decina di anni,esattamente come ha detto lui. Niente punti, vero anche questo, ci ho messo solo una fasciatura e del ghiaccio, come i Marines. Che tu non ne sappia niente, però..mi fa quasi venire voglia di offendermi, dolcezza..”
“Off..offenderti? e perché accidenti ti dovresti offendere, sentiamo! Ti ho tagliato io, per caso?”
“No, mi sono tagliato da solo, per quello..ma l’ho fatto per te.”
Le ragazze trasalirono stupite. Kazuha divenne paonazza. Io lo guardai, esasperato. A 7 anni..come i marines.. Che esibizionismo gratuito.
“Per..per me? Ma..ma io non mi ricordo..ma quando?”
Heiji inarcò le sopracciglia, decisamente irritato.
“Bene..fa piacere sapere che ho patito le pene dell’inferno per tre giorni, co’ sto maledetto taglio che perdeva come un rubinetto ad ogni mossa, per qualcuno che mi è tanto devoto..da scordarsene! Uff..sei veramente tonta.. Toyama..”
Io lo guardai, confuso, e così anche le ragazze. Heiji in genere usava molti vezzeggiativi per Kazuha, come tesoro, dolcezza e via discorrendo. Ma mai il suo cognome, neanche davanti a suo padre, il gelido capitano della polizia di Osaka. Nel sentire questa frase, però, Kazuha parve illuminarsi come un albero di natale. E sorrise, estatica.
“Scusa, mi dispiace..ti fa tanto male il pancino..Hattori?”
Ran e Sonoko si voltarono così svelte verso l’amica che le loro teste parvero fare il giro su se stesse come quelle di certi gufi. La mia per poco non si svitò del tutto..Hattori? Lui odia che lo si chiami Hattori, e infatti lo faccio solo io!
Heiji rise piano.
“Non sarebbe valido, ti ci ho indirizzata io verso la luce, non l’hai vista da sola..”
“L’importante è esserci arrivata..” mormorò lei, sorridente. “Dio..come accidenti ho fatto a rimuovere un simile ricordo?”
“Non penso tu abbia rimorso tutto il malloppo, ma solo questo..beh, a tuo dire trascurabile dettaglio. Però a ripensarci potrebbe anche essere normale che tu lo abbia scordato. In fin dei conti..non ti avevo mai detto che era tanto grave, tu credevi che mi fossi solo graffiato, se ben ricordo..”
Kazuha batté le mani.
“Esattamente! E non vedendo il sangue uscire, ti ho creduto, brutto..”
“Beh, abbi pazienza, che figura ci avrei fatto a piagnucolarti addosso, lamentando un labbro di 4 centimetri grondante sangue se nemmeno mi faceva male, eh? L’ho nascosto bene, e ho fatto finta di nulla. Avevo delle priorità, in quel momento, non avevo tempo di pensare a me..”
“Si..” confermò Kazuha. “eri tutto preso a fare l’eroe per me, non avevi certo tempo spiccio..”
“Ma di che parlare, si può sapere?” intervenne Sonoko, accaldata. “Il nostro bel detective color cacao si sarebbe ferito in battaglia per te? Dettagli prego..”
“Mi associo, sono curiosa di sapere che è successo!” rincarò ran, eccitata.
“Beh, se devi scodellare tutta quella pappardella sulle mie prodi gesta, zucchero, metti il volume al minimo.” Mormorò heiji, sbadigliando, mentre io andavo a risistemarmi sulle sue gambe. “Morfeo e io non abbiamo ancora finito di discutere..”
Detto questo, Heiji respirò a fondo, e prima di subito il dibattito col dio del sonno era ripreso. Kazuha rise piano.
“Prodi gesta..ferite di battaglia..eroe..mi sa tanto che è tutta roba che non c’entra, questa, con la storia vera. Più che un eroe..Heiji quel giorno calzò le vesti..del furfante rapitore!”
“Furfante rapitore?” fecero eco le ragazze.
“Si, senza dubbio, un bel furfante rapitore coi controfiocchi! Ah, ricordo come fosse ieri, quel giorno. Ha il suo dire, il signorino..non ho mai dimenticato nulla, di allora, e non accadrà mai..”
Mentre la voce di kazuha, velata e leggera come un soffio di vento aleggiava nella stanza, sentivo i miei occhi chiudersi, sotto il tocco delicato delle dita del sonno. E in pochi istanti, quel racconto di un’ estate molto simile a quella che stavamo vivendo in quel momento noi, si disperse nei meandri della mia mente, proiettato come un film vecchio di 10 anni..
 
Ricordo un caldo simile a questo, ma più familiare. Un caldo che aveva conservato i profumi di casa, un caldo a cui ero abituata. Le estati di Osaka erano fatte con lo stampo, sempre uguali. Ma per chi come me amava la terra in cui era nato, non esisteva niente di meglio. Quel pomeriggio, però, al contrario di come è di solito nelle belle stagioni, il mio umore era decisamente nero, perciò quel profumo di alberi in fiore e di dolcetti appena fatti, nemmeno mi toccava. E ricordo bene anche il perché.
Mio padre, in quel periodo, si cimentava nei suoi primi incerti passi da papà single, dopo che mia madre era stata sconfitta dal cancro. Entrambi eravamo decisamente impacciati, nei rispettivi ruoli di padre e figlia: lui non voleva cedere al dolore della perdita della mamma davanti a me, e faceva il duro. Io invece, non volevo dargli un dispiacere, e mi mordevo la lingua per sembrare forte come lui. Che sciocchi, per limitarci il male a vicenda, stavamo diventando due martiri silenti.
Però si da il caso che sin dalla notte dei tempi, io e mio padre si sia campioni mondiali di testa dura, e quindi il gioco poteva andare avanti per un bel po, se non fosse stato per il meraviglioso regalo che il destino volle farmi quello stesso giorno.
Era una mattinata di luglio come questa, e io a quei tempi ero ansiosa di iniziare le scuole elementari, e quindi un altro avventuroso capitolo della mia vita. Ero una bambina molto particolare, bisogna dire. Ogni cosa, nelle mie mani mutava in qualcosa che comprendeva sfide mozzafiato e scorribande fuorilegge. Le altre bambine mi snobbavano perché, a differenza loro che erano tranquille e a modino, io ero selvaggia e intraprendente. Loro passavano i pomeriggi a giocare con bambole piene di pizzi e a bere the immaginario? Io a costruire monumenti con la sabbia e il fango o a infilarmi tra i cespugli per snidare scoiattoli. Loro erano sempre pulite e ordinate, nelle loro belle gonne tutte di un colore diverso. Io odiavo le gonne, ed ero sempre con le ginocchia sbucciate e i pantaloncini corti. In sintesi ero si una femmina, ma il mio io era più maschio che mai. A volte complicava le cose, questa mia personalità distruttiva e selvatica, però. Per esempio, nessuno dei bambini con cui giocavo mi reputava una ragazza, né mi vedeva come tale, e ciò mi feriva un po. Mi chiedevo: perché per essere considerata una ragazza, devo per forza vestirmi da ragazza? Non è giusto..
Sorvolando su questa punta amara della mia vita, le cose andavano a gonfie vele per me. Ero felice, e in fondo mi bastava quello. Finche mio padre decise, un bel giorno, di dare uno scossone generale a tutto.
Da quando la mamma se ne era andata, papà aveva lasciato il suo lavoro, per tanto tempo che alla fine avevo persino scordato quale esso fosse. Poi, un pomeriggio, circa 8 mesi dopo il fatto di mamma, il telefono di casa squillò, e papà rispose. Chi era al telefono non lo seppi mai, ma tenne papà alla cornetta per due ore intere, e parlò quasi sempre lui. Alla fine, mio padre agganciò, e rimase seduto al tavolo della cucina un’altra ora suonata. E alla fine di quella strana pausa di riflessione, salì in camera sua, e quando scese, vidi che si era cambiato i vestiti, e ora indossava un completo marrone scuro a me famigliare, e alla cintola vidi brillare qualcosa che mi fece tornare in mente che lavoro facesse mio padre: era il distintivo della polizia di Osaka, e lui era il capitano.
Si, al telefono doveva essere il suo capo, che lo aveva sollecitato a tornare, e alla fine papà aveva ceduto. Bene, pensai, mi stavo giusto chiedendo per quanto ancora saremmo campati, se non si decideva a tornare al lavoro.
Ero felicissima che papà avesse riacceso la sua vecchia fiamma per la polizia, da sempre una grande passione per lui. Però neanche immaginavo che razza di discapito ne avrei avuto io..
Mio padre, infatti, il giorno prima del fatidico ritorno alla vecchia scrivania, mi comunicò che per il momento una baby sitter non era a portata di tasca, e perciò avrei dovuto seguirlo al distretto, e rimanere con qualche collega in attesa della fine del turno. Traduzione per tutti: passare l’estate tappata in un ufficio polveroso a guardare la tv con un poliziotto noioso. Evviva..
Dulcis in fundo, mio padre decise pure che era arrivato il momento di piazzarmi al sole e farmi maturare come un cachi, e la prima fare della mia maturazione forzata fu..levarmi la libertà: niente, scorribande al fiume, niente bicicletta nei campi, niente nascondino nel bosco. Mio padre impose dieta ferrea al mio divertimento: solo giochi per bambine, tranquilli e indolori. Noia a due mani, per ben dire.
Secondo fase, mise mano al mio guardaroba, e ci fece apparire come per magia gonnelline e vestitini floreali indecenti alla vista. Terza fase..mi costrinse a metterne uno per il primo giorno di lavoro. Tortura cinese..mandatela qua!
Quella mattina, ci misi un secolo buono a spingere il mio corpo davanti allo specchio per affrontarne il riflesso, ma la preparazione mentale mai fu sufficiente all’orrore che vidi. Ero il mio stesso anticristo, tutto ciò che odiavo radicalmente..mi sarei quasi picchiata!
Vestitino bianco a fioretti rosa e blu, sandalucci bianchi con un bel fiore sopra. Ciondolo al collo a forma di fiore. Fiori dappertutto. Persino sulle mutandine avevo degli stramaledetti fiori, ovunque avevo dei fiori, un’invasione!
Mentre cercavo di non vomitare sulla superficie dello specchio della mia camera, papà entrò per vedere il risultato del suo diabolico piano a mio danno.
“Oh, finalmente, erano mesi che cercavo mia figlia sotto quello strato di fango e polvere, credevo me l’avessero scippata gli alieni!” disse, allegro.
“Magari, almeno avrebbero avuto la decenza di non mettermi addosso questa roba, dopo la vivisezione..”
Papà smontò il sorriso.
“Lotta dura, eh kazu? Beh, penserei che tu sia opera del postino, se non ti scorresse in vena un po di sana competizione, dopotutto. Bene, vediamo chi la vince, bella mia. Voglio vedere se terrai su quel muso, quando i colleghi mi faranno i complimenti per la mia splendida bambina..”
“Oh beh, al mondo è pieno di matti, e nessuno vieta loro di entrare in polizia, se qualcuno vuole..”
Papà grugnì, e io sbuffai. Lotta tra titani della testa di marmo, come ho detto prima.
Però, marmo o compensato che fosse, la mia testa era sempre più piccola e meno potente di quella del mio insensato genitore, e alla fine fui costretta a trascinare le mie indecenti grazie giù al distretto, dritta in bocca all’umiliazione assoluta. Però volli giocarmi un’ultima carta, prima di cadere in battaglia, una sorta di sforzo eroico finale: per tutta la durata del viaggio, piazzai in faccia un broncio lungo una settimana, e votai silenzio che neanche le monache di clausura. Papà fece orecchio da mercante, ma la sua mascella emetteva a intervalli regolari, dei cigoli che neanche un vecchio cancelletto rugginoso.
Arrivati alla centrale, scesi dalla macchina in silenzio e in totale serietà, e lo seguì all’entrata. Papà mi lanciò qualche occhiata irritata, ma non mi lasciai scalfire. Alla fine, prima che aprisse la porta, la tensione vinse sulla pazienza e si la sciò sfuggire un leggero ma udibile: e fa come ti pare allora, zuccona..” chiaro segno, che avevo visto la sfida. L’allieva ha superato il maestro.
Mentre andavo beatamente crogiolandomi nella mia vittoria, dal fondo del corridoio in cui eravamo appena entrati, si spalancarono le lustro porte in acciaio dell’ascensore, e ne usci un uomo, tuttora l’uomo più strano che abbia mai visto.
Il suo passo era lento, ma deciso, e risuonava in tutto il corridoio. Aveva una postura molto rigida ed elegante, era una testa più alto di papà e sembrava molto sicuro di sé. Indossava come mio padre un completo giacca e cravatta, ma il suo era di un rosso scurissimo, quasi marrone, ed era a occhio nuovo di zecca. Ma la cosa di lui che mi attrasse di più, fu la sua pelle. Mio padre era pallido e spento, mentre quell’uomo aveva una bellissima carnagione olivastra, che era in perfetto abbinamento con il suo sguardo freddo e le sue labbra strette in un espressione durissima e severa. Confesso che tutto l’insieme, mi fece correre un leggero brividino lungo la schiena: non era, a metterci la mano sul fuoco, elemento a cui far perdere la pazienza, poco ma sicuro.
Mentre osservavo quella figura un po in soggezione, notai che veniva dritto dalla nostra parte. E con mio stupore, vidi che puntava proprio papà.
“Ti ho visto parcheggiare. Sempre il solito macinino, eh Toyama?”
“Dammi tu una macchina bella, se la mia non ti piace..” rimbeccò mio padre. Ah! Dove aveva trovato il fegato di rispondere a quel tipo. Io al suo posto, sarei volata alla concessionaria più vicina.
Poi, mentre il tipo pareva cercare una degna risposta a questa frecciatina di papà, il suo sguardo cadde su di me. E io per poco, sul pavimento dalla paura. Mi fissò per qualche secondo, poi guardò mio padre, scivolando leggero con una mano sui bottoni della giacca, che andarono sbottonandosi piano.
“Di, credi che la centrale sua un asilo?” borbottò. Papà lo guardò stranito.
“Ma se mi hai detto tu di non buttare i soldi per una balia quando potevo portarla qui con otaki!”
“Lo so.” Rispose incoerentemente lui, e si chinò verso di me, mentre mio padre sbuffava esasperato. Ora, il suo sguardo serio e freddo era a linea di tiro col mio, e il mio istinto mi spinse al riparo dietro la gamba di mio padre. L’uomo smosse appena le labbra in una specie di sorriso accennato.
“No, tranquilla, non ti faccio niente, piccola..” mormorò. Assurdo. Il suo tono di voce era completamente cambiato! Quello usato con papà era freddo e professionale, mentre questo gentile e docile. Intimidita ma un po rassicurata, scivolai un po fuori dal mio nascondiglio. L’uomo annui, e mi tese una mano in segno di saluto. Io alzai la testa, cercando gli occhi di papà. Lo vidi annuirmi, sereno.
“Su, saluta, da brava..” disse. Io annui, e tesi la mia piccola mano tremante a quella grande e scura di quell’uomo. Ne venne inghiottita fino al polso.
“Piacere di conoscerti, piccola Kazuha..” disse l’uomo. Io annui, e mi sforzai di sorridere. L’uomo parve soddisfatto, e si rimise in piedi, e con tocchi svelti si riabbottonò la giacca. Mi sorprese un po realizzare d’un tratto che l’aveva sbottonata solo per chinarsi a salutare me. Forse l’avevo preso male, in fondo. Mentre pensavo a questo, i miei occhi furono abbagliati da qualcosa appeso alla cintura dell’uomo: era un distintivo, da poliziotto come quello di papà. Però notai qualcosa che mi rubò il fiato. Il distintivo di papà aveva i gradi del capitano, diversamente dai colleghi con cui a volte aveva lavorato, che avevano semplici distintivi da poliziotto senza i gradi. Ma quello di quel tipo aveva i gradi..e molti di più di papà!
“Eh si, lui è più bravo di me, piccola.” Disse papà,individuato il mio punto d’osservazione. “Io sono il capitano della polizia, mentre lui..è il questore, e si chiama Hattori Heizo. Non so se l’ho mai nominato a casa, ma lui è il mio capo qui alla centrale.”
Sconvolta, guardai di nuovo quell’uomo in volto. Dunque era lui. Lui era l’uomo che aveva ripreso papà al lavoro dopo la morte della mamma, lui lo aveva convinto a tornare. D’istinto, mi nacque un sorriso. Lui..lui aveva aiutato mio padre!
“Cos’è, lo hai già visto, forse? Beh non è la prima volta che vi incontrate, in fondo, è vero..”
“Toyama, l’ altra volta che l’ho vista, era nella nursery dell’ospedale, dubito fortemente che abbia memoria di quel momento..”
Papà vece una smorfia, e io trattenni a fatica il riso. Ok, quel tipo mi stava simpatico!
“Bene, ora che abbiamo sbrigato in convenevoli, piccina, devo rubarti il papà. E’ un paio di secoli che non lavora, deve mettersi sotto. Tu però non verrai con noi, i bambini non hanno accesso ai piani alti. Ti ho trovato però qualcuno che possa stare con te mentre io e tuo padre lavoriamo..OTAKI!”
La sua voce andò a sbattere contro ogni parete trasportata dall’eco, per svanire alla fine del corridoio da dove era venuto lui. Sembrava però non aver richiamato l’attenzione di colui che il questore aveva chiamato, dato che non venne risposta. Poi, improvvisamente, si avverti uno scarpinare dal fondo, e da una laterale emerse un omone tutto trafelato di corsa. Ci raggiunse rapido ma barcollante, e completamente madido di sudore.
“Co..comandi, questore!” disse rauco dalla corsa. Il questore lo osservò incuriosito.
“facevi jogging per i corridoi? Hai il fiatone, Otaki..”
L’uomo chiamato Otaki denego, tamponando la sua facciona con un fazzoletto. Notai che aveva i tratti gentili, e una strana cicatrice sopra un sopracciglio.
“Macché, questore, si figuri, io odio lo sport. E’ solo che...”
E fece un cenno verso il corridoio da dove era venuto con aria eloquente. Il questore emise un versetto divertito.
“Scimmietta selvaggia..” mormorò tra sé. Otaki emise un verso sprezzante, come a voler dire “come no, certo..” ma non ne capì il motivo.
“Bene, Otaki, lei è la bambina a di cui ti ho parlato ieri, la figlia del capitano Toyama..”
Otaki mi sorrise emi fece un cenno. Poi alzò la testa e salutò ossequioso papà.
“Lieto di riaverla tra noi, capitano!”
“Lieto di riesserci, caro Otaki..” rispose papà, ricambiando il saluto. “Ti affido mia figlia, dunque, nella speranza che fili tutto liscio..”
Otaki annui, ma vidi una vena di preoccupazione nel suo sguardo.
“Stia sereno capitano, prima di torcere un capello alla piccola, dovranno spennare tutto me!”
Papà sorrise rassicurato.
“Bene, buon lavoro Otaki, ci vediamo più tardi. Per qualsiasi cosa..sai cosa fare..” disse il questore. Cosi dicendo, mi fece un lieve buffetto sulla testa, un breve cenno a Otaki e si diresse all’ascensore. Papà cerco di baciarmi la fronte, ma mi scansai ribelle. Otaki sbarrò gli occhi allarmato. Ma papà lo rassicurò:
“Tranquillo, è una brava bambina. E’ solo che oggi è in collera con me. Bene, vi lascio. Mi raccomando..”
E sparì anche lui, dietro al questore. Otaki attese che i suoi superiori fossero fuori tiro, poi lasciò scappare un sospirone.
“Madre santissima, ma perché quei due pensano che io abbia la faccia da balia, eh? ma non si può..”
Io lo guardai.
“Ma non ha la faccia da balia, signor Otaki.”
“Ispettor Otaki, piccola!” mi riprese lui, gentile. “chiamami pure ispettore, se ti è più semplice.”
“ok..non ha la faccia da balia..ispettore.”
Lui rise di gusto.
“Vallo a dire a tuo padre e al questore, allora, magari ti danno retta. A me, non ne danno. Su, andiamo a fare merenda al distributore, ho i cammelli che mi passeggiano in bocca..”
Mi allungò una manona tre volte la mia, e mi accompagno al distributore dei dolcetti, dove mi offrì un succo e dei bon bon alla frutta squisiti.
“Più tardi magari prendila vera la frutta, che poi ti vengono le carie e tuo padre manda anche me dal dentista..” disse, rubandomi una caramella alla mela verde. Io risi. Lo guardai bere il suo caffè per un paio di minuti, poi mi rivolse nuovamente la parola.
“Però, cara, temo che oggi dovrò remare contro i boss, mi spiace. Sono sepolto dalle scartoffie,e se non metto ordine in ufficio, mi toccherà chiederne un altro per affollamento delle pratiche..”
“Non può badare a me, dunque..” chiesi, sorseggiando il mio succo.
“Non per la mattinata, almeno. Ti dovrò mettere nell’ufficio sfitto vicino al mio. Lì c’è la tv, e puoi vedere il bel parco qui di fronte. E’ solo per un 2-3 orette che mi serviranno per smantellare un po di lavoro arretrato e far posto a quello nuovo..”
“Ok, nessun problema, mi piace la tv..” risposi, rasserenante. A dire il vero la trovavo noiosa, ma non potevo dar peso a quel poveretto cosi indaffarato con la mia presenza. Sembrava già cosi sfatto a quell’ora del mattino.
“Grazie della comprensione, tesoro!” disse l’uomo, riconoscente.
“Nulla. Il suo lavoro è ben faticoso, vedo. Suda tantissimo ed è già stanco in prima mattinata..”
“Ah..ma no..” rispose lui, e assunse un espressione un po irritata. “Sono stanco per..per un altro motivo.”
“Si riferisce alla famosa scimmietta di cui parlava il questore Hattori, forse?”
Otaki emise ancora quel verso sprezzante.
“Già.. una scimmietta, come no..”
Poi, come ad aver formulato un ‘idea agghiacciante, cambiò a razzo discorso.
“Non darti pensiero per quello, cara, non è nulla. Piuttosto, andiamo nel fantomatico ufficio, che il sole mangia le ore!”
Mentre ci dirigevamo verso l’ufficio che mi avrebbe ospitata mentre l’ispettore Otaki lavorava, notai che ogni tanto buttava occhiate furtive qui e la, incupito. Sommato allo strano comportamento avuto poco prima e al sui rimuginare contro quella strana “scimmietta” citata dal questore, dava un bel po da pensare.
Eccolo qui, è piccolo, ma basta al servizio che deve rendere oggi, no?”
Apri con un bel mazzone di chiavi, una porta bianca a destra dell’entrata degli uffici generali della centrale, ed entrò. La stanza doveva in origine, essere nata come magazzino o archivio, tanto era piccina. Però, a opera di forze oscure, qualcuno ci aveva infilato una scrivania e una sedia, mutandola in ufficio. Era stata fatta anche una piccola finestra a scorrimenti, un meraviglioso occhio sul parco in fiore davanti al palazzo, e una vetrata a vista corridoio. Davanti alla seduta poi, era stato piazzato anche un antiquato televisore con l’antenna a vista. Beh, non era Versailles, ma non faceva nemmeno tanto schifo.
“Ok, il telecomando è lì, quando vuoi vedere la tv. Non salire sulla scrivania per guardare dalla finestra, altrimenti potresti volare giù! La puoi aprire, se vuoi guardare il parco, ma non ti devi sporgere troppo, intesi! Io sono qui di fronte, ti vedo dalla vetrata. Se ti serve qualsiasi cosa, vieni di la e mi chiami, ok?”
“Ho capito ispettore, tranquillo!” dissi, serena. L’ispettore annui.
“Brava bambina, Vado, ci vediamo dopo!”
Usci salutandomi con la mano, chiudendosi la porta alle spalle. Lo vidi schizzare di nuovo lungo il corridoio, con aria allarmata. Beh era fin troppo evidente, stava cercando qualcosa. Qualcosa che a occhio e croce, non avrebbe dovuto perdere, e per questo correva di qua e di la alla sua ricerca. Forse..quella misteriosa scimmietta?
Beh, pensai sedendomi sulla scrivania e posando al fronte contro il vetro intiepidito dal sole della finestra, non era un problema mio, e nemmeno me ne importava. A pensarci bene, erano ben poche le cose importanti ormai, per me. Un po era divertente combattere papà contro quel look insopportabile, ma alla fine mi era indifferente come mi vestivo. Per quello optavo per i vestiti semplici e non ne avevo cura, perché non mi importava se si rovinavano. Per quello mi sbucciavo e mi graffiavo sempre. Perché non mi importava di farmi male o meno. Non mi importava nemmeno se le bambine non volevano giocare con me, né che i maschi mi trattassero come uno di loro. Di me, del mio aspetto, di ciò che la gente pensava..non mi importava di niente. Dopo aver perso la mia mamma..niente pareva più di valore, niente pareva più importante.
Mentre pensavo a questo, avvertendo gli occhi farsi pesanti di sonno causato dal calore del sole fuori dalla finestra, alle mie spalle, sentì un rumore. Pensando di averlo immaginato, feci spallucce e tornai a scrutare le fronde immobili degli alberi, in attesa di assopirmi. Ma un secondo dopo..ancora quel rumore. Stavolta, girali piano la testa verso la porta chiusa dell’ufficio. Ma non vidi niente, nella minuscola stanza. Sospirai un po angosciata. Eppure l’avevo sentito bene, e per ben due volte. Tenendo ben teso l’orecchio, feci finta di tornare a guardare fuori. Ma appena guardai la finestra, dentro ci vidi qualcosa che mi fece quasi venire un colpo. Nel riflesso del vetro, alle mie spalle, a un centimetro da me, vidi riflesso.. un bambino.
  
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