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Autore: _eleonora    07/04/2013    5 recensioni
Voleva solo scrivere nella vita. Pensava di essere nata per questo, ma non si sentiva ancora pronta. Come quando i bruchi si chiudono nel loro bozzo per la metamorfosi e poi ne escono splendide farfalle. Lei, allo stesso modo, stava passando gli anni a chiudersi nel bozzo della lettura come preparazione per poi chiudersi di nuovo in quello della scrittura. Ma il tempo non glielo avrebbe concesso. Il tempo avrebbe fatto cadere il suo bozzolo a terra. Quel maledetto tempo si chiamava leucemia.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Niall Horan, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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A Katia,
perchè le sue storie malinconiche mi hanno sempre ispirata.
E perchè è la migliore amica 'a distanza' che io abbia mai avuto.
Grazie di tutto.



Butterfly.
Voleva solo scrivere nella vita. Pensava di essere nata per questo, ma non si sentiva ancora pronta. Come quando i bruchi si chiudono nel loro bozzo per la metamorfosi e poi ne escono splendide farfalle. Lei, allo stesso modo, stava passando gli anni a chiudersi nel bozzo della lettura come preparazione per poi chiudersi di nuovo in quello della scrittura. Ma il tempo non glielo avrebbe concesso.

Quel giorno Janette era appoggiata al possente albero che creava l’ombra tanto ambita dai giocatori di football che potevano vantare le migliori auto ogni mattina. Stava leggendo indisturbata, come sempre d’altronde. Non sapeva cosa stava accadendo attorno a lei, non che qualcosa di spettacolare fosse in grado di avvenire in quella noiosa scuola dove le persone non facevano altro che aspettare che le lezioni finissero. Una foglia cadde sul libro aperto accarezzandole le punta delle dita che tenevano ferme le pagine impedendogli di volare via con il vento. Sorrise e la afferrò con una mano, la girò e notò un bruco: probabilmente era stato il suo peso a far cadere la foglia già mangiucchiata verso la punta. L’animale si arricciò in fretta e sembrò volersi proteggere da lei, questo le provocò un altro sorriso. Allungò un dito della mano ancora libera verso di lui lasciando il libro capovolto sulle sue gambe per tenere il segno della pagina alla quale era arrivata, il bruco si avvicinò e le fece il solletico mentre percorreva quei pochi centimetri di pelle. Lo appoggiò a terra e lo vide andare verso una foglia ancora non mangiata da nessuno, le sembrava un gran approfittatore. Era solo un avido bruco che pensava a mangiare e a distruggere la vita delle foglie, ma infondo non poteva aspettarsi un ringraziamento da parte sua. Prima di riprendere il libro si guardò attorno per capire quali fossero le questioni all’ordine del giorno. Non si stupì di scoprire che era l’unica a leggere, se non si calcolano le persone che stavano copiando i compiti con fretta, e chiese perdono a Dio per l’ennesima volta da parte di tutte quelle persone che non sapevano cosa si perdevano. Per lei la lettura era come estraniarsi da tutto, sognava ad occhi aperti e si sentiva libera. Nella sua mente si creava un modo di forme e persone sconosciuto a chi non aveva il coraggio di avventarcisi. La cosa che la rendeva ancora più felice era che quello era il suo piccolo mondo in cui niente poteva andare storto, non per sempre almeno, perché alla fine arrivava sempre il lieto fine.
Prese il libro e riiniziò a leggerlo, non leggeva libri famosi e che facevano impazzire le ragazzine grazie agli attori che interpretavano i protagonisti sul grande schermo, ma quei libri sconosciuti che per pura fortuna la scuola possedeva come regalo da qualche autore che non aveva fatto fortuna e che doveva distribuire in giro le copie che gli erano rimaste un po’ per pubblicità e un po’ per liberarsene. A lei piacevano, pensava che non avessero fatto fortuna solo perché troppo difficili per la maggior parte della gente.
Sotto le sue dita una pagina iniziò a indebolirsi e a sfilarsi lasciando sfuggire l’inchiostro. Lasciò la presa con la mano che le si era bagnata e che le stava rovinando il libro che per giunta non era neanche suo, e con l’altra lo tenne ben saldo fino a posarlo sulle sue ginocchia leggermente piegate.
«Guarda che hai fatto Josh!» esclamò divertito un ragazzo che a malapena si era accorto che il gavettone si era distrutto poco più indietro di lui su una povera ragazza. «Fai pena a lanciare gavettoni.» aggiunse poi mentre correva per prenderne un altro dalla bacinella piena di acqua e palloncini.
«Intanto ti ho già colpito tre volte.» rispose il ragazzo con già due gavettoni in mano. Li tirò uno dopo l’altro, il primo colpì in piena faccia il ragazzo biondo e l’altro finì nuovamente su Janette. Questa volta il libro era fradicio e il suo mondo stava crollando con lui, al suo posto stava emergendo la consapevolezza che avrebbe dovuto affrontare il mondo vero per colpa di quei due ragazzi tanto immaturi da giocare con i gavettoni in un giardino con persone che mangiano e studiano. Passò ripetutamente la mano sul cardigan e poi si alzò in piedi sfogliando le pagine per farle sgocciolare. Questo non servì a niente, le pagine erano tutte incollate e sembravano un grosso mattone, se avesse provato a dividerne due probabilmente le sarebbero rimaste in mano entrambe. Le pagine color crema stavano iniziando a diventare grigie e con rabbia guardò i due ragazzi che tanto si divertivano mentre lei crollava. Decise, però, di lasciare stare. Un po’ perché non avrebbe mai avuto il coraggio di andare da loro per sgridarli e un po’ perché non aveva tempo di parlare con loro visto che sicuramente non l’avrebbero ascoltata. Aveva troppo poco tempo per sprecarlo così, raggirò l’albero per andarsi a sedere nel lato opposto non ancora bagnato e lasciò il libro aperto per terra sotto un raggio di sole in modo che si asciugasse, ne prese un altro dalla borsa e incominciò a leggerlo. Nel giro di dieci minuti la sua vita aveva ritrovato il giusto equilibrio, era così che voleva vivere: leggendo. Probabilmente il tempo per scrivere non lo avrebbe mai trovato, ma non poteva permettersi di non trovarlo neanche per leggere.
 
Una settimana dopo.

Infilò la monetina nel distributore e il rumore del ferro che cadde si sentì per tutto il corridoio vuoto. Premette i pulsanti che le avrebbero fatto ottenere un the e si mise in attesa. Il suo occhio cadde su un manifesto appeso sulla bacheca li affianco, parlava di malattie gravi e malattie infettive. Con più attenzione capì che era un incontro che parlava sulla prevenzione di malattie infettive, e malattie dalla quale non puoi scappare. Si avvicinò e lesse anche le scritte più piccole, probabilmente nessuno lo aveva letto, visto che proprio li affianco c’erano i moduli per l’iscrizione ai corsi sportivi e l’attenzione cadeva tutta su quei fogli colorati già pieni di firme. Mancavano si e no venti minuti all’incontro, la sua voglia di sapere a quanta gente importava di quelle cose la spinse a dirigersi verso l’aula 21. Prima però andò alla macchinetta per prendere il suo the, nel prenderlo si specchiò nella superfice nera e lucida della macchinetta: era così pallida. Da piccola credeva che sarebbe diventata un vampiro, e la verità è che lo sognava ancora.
Arrivata alla classe aprì la porta e scorse un paio di ragazze in prima fila, già pronte ad ascoltare. Questo le provocò un sorriso e un po’ di speranza. Andò nell’ultima fila e ora quelle ragazze sembravano davvero piccole e insignificanti rispetto a tutti posti ancora vuoti. Il grande proiettore venne acceso e due signore iniziarono a sistemare carte e strumenti che le erano fin troppo famigliari. La sala sembrava un aula universitaria nonostante fosse solo una scuola superiore, le gradinate in legno erano perfette per leggere. Posò il the sulla sporgenza dove si lasciano i quaderni per prendere appunti, visto che a lei non sarebbe servito a gran che.
«Pensate che arriverà altra gente?» chiese speranzosa la signora con gli occhiali, le due ragazze in prima fila risposero prontamente che non doveva preoccuparsi, che questo è un argomento molto interessante e che sicuramente sarebbe arrivata altra gente, ma neanche loro sapevano se sarebbe successo. Qualche minuto dopo la campanella suonò dando inizio alla quarta ora. Un gruppetto di ragazze entrò nella sala, seguito da un paio di ragazzi e anche qualche professore. Le signore sembrarono rincuorarsi. Ad un tratto però entrò un professore che in fretta si avvicinò ad una delle due signore, parlottarono un po’ indicando la porta e annuirono felici. Il professore uscì e al suo posto entrò un ragazzo biondo, Janette l’aveva già visto. Una delle signore lo avvicinò e gli chiese qualcosa, lui indicò le gradinate e loro lo lasciarono andare. Si sedette nella fila più a destra appoggiandosi al muro e infilandosi le cuffiette. A lui non importava.
Dalla fila centrale poté seguire ogni cosa, non che ne avesse bisogno, conosceva quelle parole a memoria. Parlarono dell’AIDS, come in questi incontri è solito fare, e poi fecero una cosa diversa che venne molto apprezzata da Janette. Un signore sulla cinquantina entrò nella sala e si sedette su una sedia al centro. Iniziò a raccontare la sua storia.
«Avevo tredici anni quando lo scoprimmo, fu tutta una casualità. Ero andato con mio padre a fare i prelievi del sangue per entrare nella squadra di calcio della scuola e qualche giorno dopo mi avvisarono che avevo la LLA. La leucemia linfoblastica acuta. In un certo senso ero stato fortunato, questa è la leucemia più facilmente curabile, infatti sono qui oggi. Non sempre però si riesce a uscirne vivi, ricordo che nel mio reparto di cura c’era anche questa bambina che aveva scoperto di averla a undici anni, la prima cosa che feci quando mi fecero finalmente uscire guarito dall’ospedale fu andarla a trovare in cimitero. Fu dura: io ce l’avevo fatta e lei no. Mi sentivo quasi in colpa.
«La LLA, e in generale la leucemia, non è uno scherzo, non lo è mai stato. Questa malattia ti mangia il sangue e te lo rende bianco. Per chi di voi non lo sapesse: leucemia significa sangue bianco in greco. Non esiste solo questo tipo di leucemia, ne esistono tanti. Alcuni curabili facilmente grazie ai medicinali d’oggi, altri che ti fanno morire dopo pochi mesi.
«Sono stato fortunato perché il mio letto era sempre circondato da fiori, giochi e amici. Anche quando dopo essere stato rimesso dovevo fare i controlli avevo sempre degli amici che venivano con me. Se loro non ci fossero stati probabilmente sarebbe stato tutto diverso, più triste e difficile. Siamo qui oggi, o almeno io, per sensibilizzarvi a questa cosa. Non dovete farvi indietro con le persone che hanno questa malattia, dovete stargli vicino e fargli capire che tutto andrà bene.» Janette abbassò lo sguardo sulle sue gambe magre. Cercò di capire gli altri come stavano reagendo, erano tutti molto attenti. Anche quel ragazzo si era tolto una cuffietta e si era sistemato per ascoltare meglio, e ora stava li con una mano alzata.
«La sua vita ora è normale?» chiese appena la parola gli fu concessa. Il signore annuì e assicurò a tutti che una volta curata si poteva vivere normalmente. Aggiunse  poi che però non tutti riescono a farcela, spesso per sfortuna le persone sono troppo deboli. Spiegò che la debolezza poteva essere la conseguenza di alcuni sintomi, come l’anoressia. La leucemia provoca uno stato di sazietà nello stomaco prima dei pasti, impedendoti di mangiare e quindi togliendoti molte energie, per questo quella bambina era morta. Il ragazzo sembrò irrigidirsi, quasi si preoccupò. «Quindi chi è anoressico ha la leucemia?» chiese. Il signore escluse questa possibilità, questo era solo uno dei tanti sintomi. Ne citò altri come: l’astenia –che è la poca forza fisica e psicologica nel reagire alle situazioni-, il pallore, la febbre, le sudorazioni eccesive di notte, i dolori, l’ evidente calo di peso e le emorragie –spesso dal naso o dalle gengive-. Questi sono solo alcuni dei sintomi.
La campanella suonò interrompendo tutti i discorsi che stavano iniziando a crearsi. Li fecero promettere di aiutare le persone con queste malattie, e di non evitarle. La solitudine può essere la cosa peggiore per queste persone. Janette si alzò e con distrazione fece cadere il thè che ormai era diventato freddo sui posti davanti al suo. Imprecò e si alzò per sistemare. Portò il bicchiere e il cucchiaino appiccicosi nel cestino e quando tornò per asciugare si accorse che lo stava già facendo qualcun altro al posto suo.
«Grazie.» disse attirando la sua attenzione e infilandosi imbarazzata le mani in tasca.
«Tranquilla, ho notato che non avevi una borsa e quindi niente fazzoletti.» lei abbassò lo sguardo. «Sono Niall comunque.» disse tendendole una mano mentre l’altra accartocciava il fazzoletto inumidito.
«Janette.» disse solo allungando leggermente la mano. Lui dovette avvicinarsi ancora di più perché lei non dava segno di voler ricambiare il saluto, appena le loro mani si toccarono ci fu qualcosa in Janette che si mosse. Una sensazione inspiegabile e mai provata prima. Mentalmente si costrinse a bloccare quella sensazione e a sembrare carina e educata. «Grazie.» sussurrò con lo stesso imbarazzo di prima.
«L’hai già detto.» rispose divertito il ragazzo facendola arrossire. «Prego, in ogni caso.» mollò la sua mano e tornò al suo posto per prendere il cellulare e le cuffiette. Le concesse un cenno con la mano e se ne andò rinfilandosi le cuffiette. Janette osservò la sua mano e provò a ripensare a quella sensazione, ma non riusciva a provarla di nuovo. Per farlo le serviva lui.
 
Il giorno seguente.

Era davanti alla macchinetta in attesa che il the fosse pronto, poi si sarebbe chiusa in biblioteca alla ricerca di qualche libro da leggere. Il cartellone era stato tolto e al suo posto ce n’era uno per l’orientamento universitario. Non era un problema che la sfiorava, era ancora al quarto anno. Il bip della macchinetta la fece tornare alla realtà e lei estrasse il bollente bicchierino di plastica dalla macchinetta. Lentamente si diresse in biblioteca, si rifugiò in una sezione qualsiasi e prese un libro qualunque, si sedette a terra con la schiena appoggiata allo scaffale e iniziò a leggere. Ogni tanto sorseggiava il the che però finì in fretta, a malapena al secondo capitolo. Delle voci si stavano dirigendo nella sezione della narrativa inglese, quella in cui si trovava ora. Dei ragazzi e delle ragazze la sorpassarono per arrivare alla fine dello scaffale, alcuni la guardarono incuriositi, altri distrattamente, altri neanche si accorsero che era li. Si gettarono tutti sullo stesso libro che l’insegnante aveva dato da leggere creando un gran baccato.
«Ciao.» sussurrò un ragazzo abbassandosi su di lei e mettendosi in equilibrio sulle caviglie. Lei sorrise soltanto, alzando di più lo sguardo incontrò un paio di occhi azzurri che la ipnotizzarono. «Ti conviene andare a sederti sulle poltrone, tra poco qui ci sarà una guerra per quel libro.» le suggerì alzandosi e tendendole un mano. Lei di nuovo non diede segni di vita, così lui si allungò verso di lei e le prese la mano alzandola. «Non sto scherzando, ti conviene andare.» sorrise e si girò per tornare ai suoi amici. Delle quattro copie solo una ne era rimasta disponibile, purtroppo erano in sette a volerla. Lei si diresse sulle poltroncine come le era stato suggerito, ma non riusciva a leggere. Ripensava a quella sensazione di calore e di completezza che quella mano riusciva a darle.
Incrociò le gambe sulla poltrona e osservò la sezione in cui i ragazzi stavano litigando, aveva ragione. Stava avvenendo una specie di dibattito fra quelli che lo volevano, e il tono delle loro voci non sembrava così gentile. Il frastuono non le permetteva di concentrarsi.  Andarono avanti per una buona mezz’ora prima di decidere che per loro era abbastanza, decisero di concedersi due giorni a testa per leggerlo perché sennò poi sarebbe stato troppo tardi. Prima di andarsene il ragazzo, che aveva dovuto sopportare di avere gli ultimi due giorni si avvicinò a lei.
«Ciao, di nuovo.» disse in difficoltà. La ragazza sembrava non volergli dare ascolto e lui non sapeva cosa fare per attirare la sua attenzione. Lei sorrise imbarazzata giocando con l’angolo della pagina che stava leggendo.
«Ciao.» sussurrò lei. Lui si sedette nella poltrona affianco mettendola in soggezione, nessuno dei due sapeva cosa fare. «Grazie per avermi avvisata.» aggiunse poi. Lui fece un cenno con la testa facendole intendere che non doveva preoccuparsi.
«Tu leggi sempre?» chiese poi il ragazzo cercando di iniziare una conversazione. Lei annuì incuriosita dal significato di quella domanda, socchiuse il libro facendo scorrere un dito fra le pagine per tenere il segno. «Senti… mi dispiace per il libro dell’altro giorno. Me ne sono accorto quando ti sei spostata, ma ero troppo impegnato a colpire Josh.» con le mani arrotolava i due lacci della felpa grigia.
«Quel libro è finito nel cestino prima che potessi finirlo.» disse lei amareggiata, era una storia senza fine, lasciata a metà, come se una bomba fosse esplosa senza lasciare tracce di vita, come se neanche il narratore fosse sopravvissuto per poterla raccontare.
«Scusa.» aggiunse lui dispiaciuto. Lei non sembrava reagire, stava provando ad immaginare il finale di quella storia «Se vuoi» iniziò per attirare la sua attenzione «ti offro qualcosa a pranzo. Per farmi perdonare.» lei annuì non troppo entusiasta, voleva dire che non avrebbe potuto leggere. «Okay, sotto l’albero in cui eri settimana scorsa a mezzogiorno.» si alzò e la salutò con una mano per poi raggiungere i suoi amici che stavano prenotando il libro dalla bibliotecaria.
L’ora di pranzo era arrivata e lei si trovava sotto il suo albero a leggere come sempre. Dopo qualche minuto il ragazzo arrivò chiedendole se poteva sedersi li affianco.
«Tu non hai amici?» chiese dando un morso al suo panino.
«Non mi è mai interessato.» in realtà una volta le interessava, ma ora… ora non aveva senso affezionarsi alle persone. I libri erano la miglior compagnia che potesse desiderare.
«Perché? Insomma non è una cosa normale che tu voglia stare sola.» disse per poi appoggiare il panino sul suo vassoio e aprire la bottiglia di the al limone.
«Preferisco leggere.» disse accarezzando la copertina del libro. Lui si strinse nelle spalle.
«Tieni, ti ho preso il gelato alla vaniglia. Oggi danno solo questo come dolce.» glielo porse e lei lo afferrò controvoglia. Non aveva fame. Iniziò a giocare con il cucchiaino  mescolando il gelato ormai sciolto. «Non ti piace?» domandò deluso il ragazzo passandosi un mano nel ciuffo biondo.
«No, è che non ho molta fame in realtà.» disse posando la coppetta sull’erba. «Ma mi piace molto il gelato.»
«Dovresti mangiare qualcosa, sei molto magra.» disse prendendo in mano il gelato e posando la labbra sul bordo della coppetta per berlo, visto che ormai era troppo liquido per usare il cucchiaino. «Che corso fai?» disse accantonando il discorso precedente dopo aver finito di bere il gelato.
«Il quarto.» disse lei osservando come fosse disinvolto, e come non avesse ancora finito di mangiare visto il tanto cibo che aveva preso.
«Io il quinto.» disse lui.
«E cosa hai intenzione di fare dopo?» domandò un po’ tentennante, non voleva sembrare un' impicciona.
«Non lo so ancora, forse niente, forse legge, forse chi lo sa? Medicina, lettere… sono ancora molto indeciso.» disse facendo movimenti strani con le mani, lei sorrise davanti alla scena. «E tu? Hai già in mente qualcosa»
«Non credo che avrò la possibilità di andare al college.» guardò l’erba.
«Se è per motivi di soldi puoi sempre avere una borsa di studio.» provò a suggerirle mettendo di lato il vassoio finalmente vuoto. «Non è difficile averne una, anche un mio compagno ne ha ottenuta una grazie allo sport.»
«Non si tratta di questo.» sussurrò riaprendo il libro.
«D’accordo. Senti, io ora devo andare ma se a te va possiamo vederci qualche volta.» si alzò e si scrollò i pantaloni passando ripetutamente le mani sulle cosce. Lei non rispose. «Non voglio mica mangiarti, è solo che sei sempre sola e pensavo che un amico ti avrebbe fatto piacere.» continuò lui vedendo la sua indecisione. Intanto si chinò per prendere il vassoio. «Okay, facciamo così: io ti lascio il mio numero e tu mi scrivi se hai voglia di uscire. Va bene?» prese un foglietto senza aspettare la sua risposta, lo strappò dal quaderno degli appunti che puntualmente rimaneva vuoto, e ci scrisse sopra con una penna colorata il suo numero. «Tieni.» con un sorriso posò il foglietto sopra il libro aperto della ragazza che non avrebbe mai avuto il coraggio di chiamarlo. Se ne andò affiancando un paio di ragazzi che lo salutarono con una pacca sulla schiena.
Quel pomeriggio Janette aveva le solite cose da fare, per questo si trovava in ospedale con il libro aperto sulle ginocchia nell’attesa che qualche infermiera facesse il suo nome. Quell’attesa finì quando l’infermiera la chiamò, ormai si erano affezionati tutti alla ragazza solitaria che attendeva la morte leggendo libri e sorseggiando the.
«Libro nuovo?» domandò l’infermiera prendendo la cartella clinica della ragazza. Lei annuì con un flebile sorriso, li dentro nessuno l’aveva mai vista sorridere per davvero. «Allora, facciamo i soliti controlli. Okay?» la ragazza chiuse il libro piegando l’angolo della pagina a cui era arrivata e lo posò sul comodino affianco al letto su cui era seduta.
Dopo il tempo debito l’infermiera iniziò a scrivere cose che Janette non aveva mai capito, e che probabilmente non capirà mai. Con fare tentennante le chiese dove fosse sua madre, e lei rispose che era andata a prendere un caffè alla macchinetta quando lei era entrata nella stanza, l’infermiera uscì nella sala d’attesa e chiuse la porta alle sue spalle. Non erano buone le notizie che doveva dare alla madre della ragazza, per niente buone. Ma dopotutto tre erano gli anni passati da quando l’avevano scoperto e tre erano gli anni che le avevano dato. Solo che lei sperava di poter guarire in qualche modo, come il signore che aveva parlato a quell’incontro a scuola.
La madre della ragazza non sembrava reagire, probabilmente stava cercando di realizzare cosa veramente l’infermiera le aveva detto. Ma nella sua testa rimbombavano quelle due parole. Un mese. Un mese. Un mese. Non ci volle molto perché le lacrime le rigassero il volto. Le sue mani si strinsero fra i capelli come delle morse, non se ne capacitava. Sua figlia aveva ancora un mese di vita per colpa di una stupida malattia. Per colpa della leucemia. Passarono minuti che sembravano infiniti e le sue lacrime sgorgavano come non mai, ma non doveva piangere davanti a Janette, no. Lei stava già abbastanza male di suo, non poteva permettersi di farle pesare anche il suo dolore da madre.
 
Una settimana dopo.

Janette era sempre più debole e pallida. Non mangiava, se non quello che era costretta, e quella stanza d’ospedale le trasmetteva talmente tanta tristezza che voleva scappare ogni giorno. Neanche i libri riuscivano più a sollevarla come una volta, le sembravano tutte bugie. Come se lei non fosse abbastanza forte da rendere il mondo dei suoi sogni quello reale. Sua madre le portava due libri al giorno che una volta letti si ammassavano con gli altri nell’angolo della stanza dove ormai c’era un alta pila di colori e forme diverse. Le visite non erano molte, quel signore aveva ragione: la solitudine è la cosa peggiore per le persone come Janette. Sua nonna, suo padre, sua madre, qualche cugino ma niente amici.
Quello a cui preferiva dedicarsi nel tempo libero quando aveva già finito entrambi i libri era pensare a Niall, quel ragazzo biondo con cui aveva parlato a scuola. Il foglietto con il numero era il su segnalibro, ma era consapevole del fatto che non lo avrebbe mai chiamato. 
Ma quel giovedì di quella settimana sarebbe stato un giorno speciale. L’infermiera era in ritardo, ma non si era persa, era solo fuori dalla porta a parlottare con qualcuno. Probabilmente era sua nonna che chiedeva sempre informazioni su di lei. La maniglia si abbassò e lei socchiuse il libro alzandosi leggermente con la schiena in attesa di scoprire chi fosse il parente oggi. Quando la porta si aprì lei non poté credere ai suoi occhi.
«Janette, lui e Niall. È qui per un corso d’orientamento universitario, se a te non crea problemi oggi gli faccio vedere di cosa si tratta il mio lavoro qui con te.» la ragazza deglutì e disse all’infermiera che non le creava problemi. Però forse un po’ glie ne creava, non voleva che lui sapesse della sua malattia, voleva essere ricordata come la ragazza che leggeva, non come quella con la leucemia. L’infermiera prese la sua cartella dai piedi del letto e illustrò al ragazzo in cosa consistevano tutti quei segni fatti con l’inchiostro blu. Lui però era troppo distratto per darle retta, pensava a quella ragazza davanti a lei sotto un lenzuolo bianco, e al fatto che non si era reso conto della sua malattia. Guardava gli occhi verdi della ragazza e i suoi capelli neri, capelli che nel giro di qualche giorno sarebbero stati pari a zero. «Janette, come stai?»
«Sono un po’ stanca e oggi non ho mangiato.» nella mente di Niall il ricordo delle parole di quel signore, del suo rifiuto al gelato, del fatto che non dovesse scegliere il college… tutto ora bruciava e sembrava un grosso errore.
«Forse leggi troppo, per questo sei stanca.» l’infermiera lasciò la cartellina ai piedi del letto e posò le mani sul legno. La ragazza sorrise quasi in attesa di un altro commento. «Ma questa è l’unica cosa che ti fa sentire ancora viva. Lo so, lo so.» aggiunse poi divertita. Janette chiuse definitivamente il libro chiudendo fra le pagine il numero del ragazzo, che prontamente se ne accorse. «Okay, Niall il mio lavoro consiste nell’assicurarmi che lei stia meglio, cambiarle i medicinali dalle sacche collegate agli aflebi e, cosa più importante, chiacchierare con lei.» disse posando una mano sulla spalla del ragazzo. «Oggi puoi occuparti del terzo punto, anche perché ho un nuovo paziente oggi e devo conoscerlo.» disse amareggiata all’idea che un’altra persona sarebbe entrata nella sua vita per poi andarsene. Era questo uno dei suoi più grandi problemi, si affezionava ai pazienti pur sapendo che se li affidavano a lei significava che sarebbero morti di leucemia molto presto. Il ragazzo annuì e l’infermiera si avvicinò a Janette per cambiarle la sacca da cui partivano gli aflebi, le sorrise e poi uscì lasciandoli soli.
«Ciao.» sussurrò lui ancora ai piedi del letto, troppo lontano rispetto a come di solito stava l’infermiera. Lei gli fece cenno con una mano di sedersi sulla sedia affianco al letto, per essere un po’ più vicina a lui.
«Ciao.» disse una volta che si fu seduto. Lui sorrise imbarazzato. «Non guardarmi così, mi fai sentire peggio.» aggiunse lei riferendosi all’amarezza negli occhi del ragazzo.
«Scusa, è che non me l’aspettavo. Tu… l’incontro… io non credevo che…» balbettava senza sapere cosa in realtà volesse dire. Lei sorrise.
«Non importa.» disse lei per rassicurarlo. Almeno lo aveva rivisto. Lui afferrò la sua mano e la strinse forte.
«Non so se funzioni, ma mi hanno fatto promettere che se mi fossi trovato in una situazione del genere avrei dovuto assicurarti che tutto andrà bene. Quindi ricordatelo, andrà tutto bene.»
«Ho tre settimane Niall.» sussurrò lei interrompendolo. Lui chiuse gli occhi e strinse di più la mano della ragazza. Ripeté che sarebbe andato tutto bene e che le sarebbe rimasto vicino perché, come gli avevano detto, la solitudine è la cosa peggiore per le persone come lei.
 
Una settimana dopo, di nuovo.

«Hey Janette.» disse il ragazzo entrando nella piccola stanza bianca dell’ospedale. Si irrigidì subito appena scorse il volto della ragazza.
«E’ successo stanotte.» rispose lei sfiorandosi la testa calva. Lui le si avvicinò e le lasciò un bacio sulla fronte.
«Sei ancora più bella.» lei sorrise. «Ti ho portato un paio di libri, dei fiori e, come mi avevi chiesto, della cioccolata.» aggiunse sottovoce. Non poteva mangiare certe cose ma ne aveva davvero voglia e aveva supplicato il ragazzo di portargliene un po’. «Se mi scoprono e mi bandiscono siamo messi male.»
«Shh, nessuno lo saprà mai.» sfilò la cioccolata dalle mani del ragazzo e la scartò per morderne un pezzo, dopo averla assaporata ne spezzo un quadrato per Niall che la guardava quasi incantato dalla sua forza e dal suo sorriso.
 
Un’altra settimana dopo.

Il ragazzo la osservava dalla sua sedia. Stava dormendo e non voleva svegliarla, quindi la guardava. Le sue forze erano pari a zero, era molto peggiorata e l’infermiera gli aveva confidato che speravano di salvarla, ma dopo due settimane si erano arresi. Aveva pianto appena saputo la notizia, si era molto affezionato a lei. Era una ragazza vera, che non pensava a cose futili. Che aveva saputo vivere gli ultimi anni come le sembrava più giusto, facendo ciò che amava. E il fatto che amasse la lettura e non le feste o le sbronze lo faceva piangere ancora di più. Una ragazza come lei non si meritava certe cose, doveva essere salvata in qualche modo. Solo che non poteva farlo, nessuno poteva farlo. E lei si era arresa già da tempo all’idea che la sua vita sarebbe finita. La ragazza aveva confidato molte cose a Niall, sapendo che in ogni caso non avrebbe potuto dirle in giro, o comunque non avrebbe potuto usarle verso di lei visto che sarebbe morta. Sapeva i suoi ultimi desideri, i suoi rimpianti e le cose che era felice di aver fatto. Niall prese la sua mano cercando di non piangere, una volta afferrata posò il gomito dell'altra mano sul ginocchio e con la mano si coprì la faccia rivolta al pavimento. Aveva iniziato a piangere per la consapevolezza che davvero non poteva fare niente.
«Niall…» la ragazza ancora stordita dal sonno posò una mano sulla guancia umida del ragazzo e lo accarezzò dolcemente. «Che ti prende?» sussurrò avvicinandosi a lui e stando attenta a tutti i tubi che erano collegati alle sue braccia. Lui si asciugò velocemente il volto e improvvisò un sorriso finto.
«Niente.» disse tirando su con il naso nella speranza che lei ci credesse.
«Non mentirmi, è successo qualcosa a scuola?» domandò più seria lei, lui scosse la testa. «In famiglia?» di nuovo ricevette un no come risposta. «Con qualche ragazza?» lui annuì, lei si sentì come una fitta la cuore, ma poi si raccomandò di non fare scenate. Lui meritava una ragazza che lo avrebbe reso felice, una vera ragazza e non un corpo attaccato a dei fili. Lei doveva rendersi conto che fra loro due non ci sarebbe mai potuto essere niente, per il bene di Niall. «Che ragazza?» lui alzò lo sguardo incrociando quello della ragazza.
«Janette…» la chiamò prendendo tutto il coraggio che aveva in corpo. «Io…» iniziò impaurito dalla situazione in cui si stava cacciando.
«Tu?» lo incitò lei.
«Io credo di amarti.» balbettò sentendosi subito libero. Sul petto della ragazza si creò un grosso e pesante peso, non poteva permettersi di rovinare la vita di un ragazzo come Niall. Lui era divertente e la sua voglia di vivere era la prima cosa che notavi di lui. Ma con lei vivere era l’ultima cosa che ci si poteva aspettare.
«Ti sbagli.» balbettò lei in risposta.
«No, io credo che sia un sentimento vero.» replicò più convinto e accennando ad un piccolo sorriso. «So che sarebbe impossibile e sbagliato, ma non posso più tornare indietro. Io ti amo.» lei rabbrividì e abbassò lo sguardo. «Non… non farmi questo. Ti prego.» sussurrò lui posandole una mano sul mento per alzarle il volto, ma lei schivò la presa lasciando che la sua mano cadesse sul letto delusa. «Janette, ti prego.»
«Cosa dovrei fare? Perché mi preghi? Questo farà male a te, e io mi sentirò ancora peggio perché morendo ti lascerò. Io non voglio soffrire più di così. Non ho mai voluto amici per non soffrire nel lasciarli e un ‘ti amo’ è l’ultima cosa a cui punto.» balbettò mentre una lacrima le rigava il volto.
«Voglio solo renderti felice fino a quando potrò farlo.» sussurrò cercando di nuovo di alzarle lo sguardo. Questa volta lei si lasciò trascinare dalle sue morbide dita fino ad incontrare i suoi occhi azzurri. «Io ti amo.»  spostò la mano verso la sua guancia e la accarezzò dolcemente. «E’ uno di quei ti amo che non conosce limiti come la leucemia, io ti amo e basta. Non mi importa del resto.» aggiunse imprigionandole il volto fra le mani. Lei posò la mano destra sulla mano di Niall e la accarezzò per poi stingerla intrecciando le loro dita. Lui portò le loro mani unite alle sue labbra e le baciò. «Lascia che io ti ami.» lei annuì e lui lentamente si avvicinò a lei. A pochi centimetri dalle sue labbra si alzò leggermente per baciarle la punta del naso e con la mano ancora liberà le sfiorò la testa una volta ricoperta dai lunghi capelli neri. Il cuore della ragazza batteva a mille, non aveva mai vissuto un esperienza simile, sarebbe stato il suo primo bacio. Le labbra del ragazzo si posarono dolcemente sulle sue, quasi non le sentiva ma a breve il ragazzo spinse con più foga le sue labbra contro quelle rosee della ragazza. Lei si sentì attraversata da un brivido. Lo amava. Il ragazzo approfondì il bacio facendola sussultare, per un secondo pensò di fermarsi, forse per lei erano troppe emozioni, invece lo assecondò facendolo sorridere. Si sentiva esattamente come quel primo giorno in cui le loro mani si toccarono, si chiedeva se fosse stato destino. «Ti amo.» sussurrò dopo averle lasciato un leggero bacio sulle labbra.
«Ti amo.» aggiunse lei sorridendo.
 
Quattro giorni dopo.

«Hey Janette!» disse lui entrando e lasciandole un bacio sulle labbra. Era pallida, troppo pallida.
«Niall, non agitarla.» disse l’infermiera che appuntava qualcosa sulla cartellina della ragazza per poi metterla sotto il braccio.
«Tranquilla, ho anche io dei limiti.» disse ammiccando divertito dalla situazione.
«Non intendevo quello.» disse accennando ad un sorriso. «Oggi è molto debole, cerca di non urlare o altro.» il ragazzo si fece cupo, e l’infermiera abbassò il volto portandosi via la cartellina. Prima però si avvicinò alla ragazza e le diede un bacio sulla fronte. «Non è orario, ma se vuoi chiamo i tuoi genitori.» la ragazza annuì flebilmente consapevole del significato di quella frase. Niall rimase a fissare la cartellina che se ne stava andando via con l’infermiera, quella era solo la conferma di tutte le sue paure.
«Janette.» la chiamò avvicinandosi.
«Niall.» continuò lei sussurrando, ma non perché volesse sussurrare, perché non aveva le forze per urlare il suo nome e fargli capire come fosse contenta che lui fosse qui con lei. Lui non rispose, i suoi occhi diventarono lucidi e la ragazza si scostò leggermente per lasciare che si sedesse vicino a lui. Si sedette dandole le spalle, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e nascose il volto fra le mani. «Niall.» cercò di consolarlo lei  accarezzandoli la schiena. Lui sospirò e si girò verso di lei con gli occhi rossi per l’aver trattenuto le lacrime, le sorrise e si mire steso affianco a lei nonostante lo avessero ammonito più volte di non farlo per via dei fili. «Non piangere.» aggiunse lei. Le sue labbra erano quasi bianche e il suo volto era giallastro, come quando hai la febbre e vomiti.
«Rimani qui, ancora un po’. Ti prego.» disse abbracciandola e posando il volto sul suo petto che a malapena si alzava e abbassava.
«D’accordo.» sussurrò lei. Con una mano gli asciugò una lacrima che non aveva resistito ad uscire. «Ti amo.» sussurrò poi.
«Ti amo anche io.» balbettò il ragazzo che ormai non controllava più le lacrime. La baciò dolcemente sentendosi invaso da un brivido appena incontrò il freddo delle sue labbra. «Ti amo.» ripeté quasi per assicurarsi che lei se lo ricordasse. «Ti amo.» balbettò di nuovo.
«Shh, lo so.» lo rassicurò lei.
«Scusa.» disse stringendola a se. «Dovrei darti forza, invece piango più di te.»
«Solo perché non ho la forza per piangere.» rispose lei sorridendo, per quanto lei riuscisse a sorridere. «Non è colpa tua, non puoi farci niente.» aggiunse. Lei tossì, come era solita fare in continuazione da due settimane a questa parte. I suoi occhi erano bui, le sue labbra bianche e la sua pelle giallastra, ma nonostante questo lui la trovava la ragazza più bella che avesse mai visto.
«Diventerò medico, te lo giuro. E poi troverò una cura per la leucemia.» sussurrò accarezzandole il profilo del volto. Fece continuare la mano fino al suo collo, alle sue spalle, sulle sue braccia fino alla sua mano. La afferrò e la tenne stretta. Lei portò le loro mani unite al suo petto.
«Grazie.»
«Nessuno starà più male, te lo giuro.» aggiunse con un nodo in gola. Le lacrime continuavano a rigargli il volto senza sosta, il suo cuore gli stava pregando di fare qualcosa, ma la mente era troppo annebbiata dal dolore per reagire.
«Grazie» sussurrò di nuovo più flebilmente però. Lui strinse la sua mano e la spostò di qualche centimetro fino al cuore della ragazza. Si avvicinò a la baciò.
«Ancora un po’.» sussurrò supplicandola. «Solo qualche giorno.» aggiunse ancora. Lei spinse quasi impercettibilmente le sue labbra contro quelle di Niall, troppo debole per essere visto, ma abbastanza forte per dargli forza. Era un bacio casto, un bacio che pregava di non dover essere un bacio d'addio. «Ti prego.» aggiunse piangendo e continuando a lasciale leggeri baci ogni secondo. «Ti amo.» sussurrò come se servisse per cambiare qualcosa.
«Ti amo anche io Niall.» sussurrò prima di bloccarsi nel tempo. Lui la scosse pregando che il bip continuo che gli arrivava alle orecchie fosse quello della macchinetta del caffè del corridoio che si era rotta.
«Non farmi questo, ti prego! Ti prego!» urlò e la sua voce spezzata rimbombò per tutto il corridoio dell’ospedale. «Ti prego.» aggiunse abbracciandola. La passò una mano sul volto per abbassarle le palpebre e subito l’infermiera arrivò, qualche minuto dopo i parenti, e qualche minuto dopo anche le lacrime di tutti. Non la lasciò, le persone la baciarono un ultima volta mentre ancora era fra le braccia del ragazzo che piangeva senza limiti.

Lei era ancora un piccolo e indifeso bruco che stava creando il suo bozzolo, ma un' improvvisa pioggia lo aveva staccato dal ramo e lo aveva fatto cadere a terra prima che lei potesse diventare una bellissima farfalla.

 

Give me a moment.
*si soffia il naso*
Ho scritto questa storia perchè questo è un argomento che mi sta molto a cuore.
Mi sono informata e ho cercato di rispettare molte cose.
Ma alcune, tipo la perdita dei capelli, avvengono molto prima di quanto ho messo io. 
So che è lunga, ho provato ad accorciarla ma davvero sarebbe diventata orrenda senza tutte queste parti. 
Niall credo sia quello più adatto, secondo me, per fare questo ruolo.
Spero davvero che vi sia piaciuta, so che non è il massimo, ma spero di avervi trasmesso qualcosa. 
Spero anche che recnsiate in molti, è una storia lunga e per me è stato impegnativo scriverla,
e vorrei sapere cosa ne pensate. 
Non sono molto brava con le os, ne ho fatta solo una finora, e questa è la seconda. 
Ho solo provato a fare qualcosa di bello e significativo. 

Eleonora.

  
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