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Autore: None to Blame    07/04/2013    9 recensioni
Perché la felicità aveva l’odore di fumo e cannella ed erba bagnata ed indossava una sciarpa rossa.
Tutto il resto non importava.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Principe Artù, Un po' tutti | Coppie: Gwen/Lancillotto, Merlino/Artù
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione
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Note introduttive di nessunissima importanza (potete saltarle a piè pari, non vi mordo)

Lo so, mi state guardando male. Chiedo perdono, ma aggiornerò le long il prima possibile (vedi note finali per altre vaghe precisazioni).
Naturalmente, avrò commesso tanti di quegli errori che non si contano, per non parlare degli svariati anacronismi. Però, è una storia tanto per fare, un tentativo di sbloccarmiPerdonatemi per questa - non tanto - piccola schifezza.
È banale e scontatissima e fa schifo (mi ripeto, sono a corto di termini e ne avrete riscontro anche nella storia, la cui varietà terminologica sarà davvero povera). Sono sicura che c’è già qualcosa di simile, se non qui, almeno tra quelle inglesi (magari proprio scritta da una cinquantenne di Philadelphia, che ne sa un po’ più di me). 


Molti dei luoghi (e banche e uffici e roba simile) sotto indicati – compreso il Mayflower Green – sono completamente inventati.

Ho abbandonato il Verdana, qui, e spero che questo font sia abbastanza chiaro. Sapete, mi piaceva di più per l'atmosfera che dava. Non credo di aver mai scritto storia più lunga – almeno di un capitolo solo. Undicimila parole e passa. Wow, è un traguardo.
Comunque, davvero, se non vi va, non la leggete. Io non ve la consiglio.

Se, però, volete sfidare la sorte, voi pochi temerari, allora non posso che augurarvi buona lettura. :) 











A piedi nudi









 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Philadelphia, gennaio 1978
 
 
Aveva un cappello a tesa larga ed un papillon ben annodato, le braccia incrociate sul petto e le code della sua giacca che gli svolazzavano alle spalle, spinte da un vento immobile. In mano reggeva un bastone da passeggio dal pomello tondo ed eternamente lucido.
E camminava, sempre sicuro di sé, nei suoi intramontabili stivali, una gamba gettata in avanti, il capo piegato.

Arthur accarezzò l’etichetta nera, il pollice che sfregava l’intreccio dorato delle lettere che si attorcigliavano nitidamente attorno al bastone di Johnnie Walker.

Sospirò pesantemente, tirandosi su a fatica e riponendo la bottiglia sul basso tavolino davanti al divano, la pelle color crema che ostentava ancora quell’aria da alta società.

Nell’altra mano, reggeva il bicchiere che aveva appena riempito, un’estremità lievemente scheggiata, una piccola crepa che si sarebbe allargata e avrebbe iniziato a sanguinare liquido scuro e amaro.

Se lo portò alle labbra, tracannando il whisky in poche sorsate, e poi un’esalazione di godimento. Arricciò il naso e schioccò la lingua contro il palato, il sapore forte che ancora pulsava nella bocca.

La mano libera corse sul tessuto intrecciato del cuscino, le frange color sangue ed i ricami dorati – come la tuba di Johnnie Walker. Ne accarezzava la trama ruvida e respirava solo perché non riusciva ad impedirselo e sembrava facile lasciarsi cullare dal ritmo costante di qualcosa di inevitabile – dentro e poi fuori; e ripeti ancora, fino a quando non è finita.

Avrebbe desiderato starsene lì, sul divano color crema ed un tumbler in mano, con Johnnie Walker che lo guardava sprezzante dalla sua immagine stilizzata, ad esaurire i suoi respiri fino a soffocare nella sua stessa agonia.
 
 
 
 





 





**















 Philadelphia, novembre 1976
 
 
 
L’autunno era al suo apice ed il sole ancora premeva afoso sulla città, l’asfalto bruciante, gli avambracci dei tassisti fuori da finestrini aperti che spuntavano da maniche arrotolate, le gonne svolazzanti e niente calze sotto i vestiti.

Arthur si allentò il nodo della cravatta, gettandosi la giacca sulle spalle con un movimento fluido, le dita artigliate al colletto. Una mano nella tasca dei pantaloni e l’andatura del self-made man con la macchina di papà ed un conto bancario a cinque zeri. Passo molleggiante e costante, il fare rilassato del bello e impossibile che non sa che farsene della modestia, quello con una coda di ammiratrici che esplodono in gridolini di godimento quando storceva la bocca in quel sorriso seducente che le donne adoravano.

Lasciandosi alle spalle un massiccio palazzo di uffici, l’insegna della Camelot Bank a possenti lettere rosse ed un continuo viavai attraverso le porte scorrevoli, continuò sulla strada, il marciapiede largo ed i negozi che scorrevano lenti sulla sua destra, il dolce odore della glassa al limone di una pasticceria che si spandeva nell’aria.

In lontananza, intravide un gruppetto di studentesse, le camicette annodate sotto il seno e qualche libro sotto braccio. Raddrizzò la schiena e si passò una mano fra i capelli, facendo risplendere il quadrante del suo Cartier dal cinturino di pelle sotto la luce del sole. Sorrise con fare seducente mentre le affiancava, lentamente, beandosi delle loro risatine eccitate.

Quando furono lontane, controllò l’orologio, fermandosi di fronte alla lucida vetrina di una libreria, Avalon Bookstore in ghirigori cremisi sul vetro della porta.

Entrò, l’odore di polvere e muffa che si infilò nelle narici.
Era un ambiente spazioso, un bancone sul fondo che nascondeva un vecchio e i suoi capelli quasi trasparenti, gli occhialetti tondi alla John Lennon ed un registratore di cassa che non doveva essere perfettamente funzionante. Oltre a lui, c’erano altri tre clienti – una bambina che sfogliava un volume più pesante di lei; un ragazzo alto e magro, di spalle, nella sezione Scienze; ed una donna, un libriccino fra le mani morbide, i capelli neri che le ricadevano sulle spalle, un abito pastello che le sfiorava le ginocchia nude.
Riscrivendo la propria lista di priorità, Arthur le si avvicinò, afferrando un libro qualsiasi dallo scaffale, sfogliandone le pagine senza prestarvi attenzione.
La donna non diede segno di averlo notato. Lui si schiarì la gola e lei sollevò lo sguardo, includendolo nella visuale e poi ignorandolo, portando di nuovo l’attenzione sul suo volumetto.

« Salve, milady »

La donna alzò la testa e gli rivolse un breve cenno.

« Posso chiederle qual è il suo nome? »

Lei inarcò un sopracciglio, seccata.

« Polly. »

« Ma che splendido nome! Le si addice, sa? Io sono Arthur, Arthur Pendragon. »

Polly lo ignorò, disinteressata. Arthur non si arrese.

« Cosa sta leggendo? »

« Bukowski »

Arthur annuì.

« Certo. Uhm, le piace la letteratura russa? »

Polly si voltò lentamente, rivolgendogli un’occhiata stupita e disgustata, quasi risentita. Richiuse il libro e si diresse alla cassa, lasciandolo con la sua aria perplessa.


Arthur aprì la bocca, forse per richiamarla, ma fu interrotto da una risata.

Si girò di scatto, notando il ragazzo della sezione Scienze che nascondeva un sorriso divertito dietro la mano, ciocche nere che gli ricadevano sulla fronte, il volto sbarbato ed un’aria infantile, una sciarpa rossa annodata attorno al collo.

Arthur lo guardò, stizzito.

« Cosa c’è di così divertente? »

« Non è andata tanto bene con quella tipa. »

L’orgoglio da maschio alfa gli impose di replicare.

« Sarà fidanzata. E immagino che tu avresti saputo fare di meglio. »

« Beh, diciamo che non era proprio il mio genere. »

« Preferisci le biondine, poppante? »

Lo sconosciuto sollevò le sopracciglia, gli occhi spalancati.

« Poppante? Amico, guarda che mi sto per laureare! »

« Tu non mi puoi chiamare “amico”. Nemmeno ti conosco! »

« Fortuna mia. »

Arthur decise di lasciar cadere lì la conversazione, viste le occhiate gelide dell’anziano cassiere e della sua mancata conquista.

Lo sconosciuto scrollò le spalle, inclinando la testa.

« Sei sposato? »

Quasi si strozzò con la propria saliva.

« Cos- come ti viene in mente?! »

Quello gli indicò col mento il libro che aveva ancora fra le mani, quello con cui si era mostrato occupato. Era verde e recava il titolo “Il marito perfetto”.
Percepì una punta di imbarazzo colorargli le guance – e non gli accadeva spesso.

« No, ecco… Io cercavo altro, a dir la verità. »

L’altro annuì.

« D’accordo. Allora ti lascio alle tue ricerche. Io sono Merlin, comunque. Merlin Emrys. E tu sei Arthur Pendragon. »

Gli tese la mano e Arthur la strinse, ritrovandosi a sorridere al bizzarro studente impiccione che aveva riso della sua debacle.

« Esatto. »

« Sei quello della Camelot Bank, giusto? Il figlio di Uther Pendragon. Ti facevo più vecchio. »

« È la carta stampata che mi rende vecchio. Senti, mi ridaresti la mano? »

Merlin abbassò lo sguardo sulle loro mani, ancora strette nel saluto, e le districò, arrossendo violentemente – con sorpresa dell’altro.

« “Il palmo esteso nel saluto: Guarda! Per te ho disserrato il mio pugno!” »

Arthur sbarrò gli occhi.

« Cosa? »

« Auden, un poeta inglese. Credo sia morto da poco… »

« Ti intendi di letteratura? »

« È un po’ la mia passione. Dopo la laurea, mio zio ha promesso che mi farà lavorare qui. »

« Qui? »

« Sì, in questa libreria. Il tizio alla cassa »  indicò il vecchio dietro il bancone, che sfogliava un registro con aria severa  « è mio zio Gaius. E potrò lavorare qui. »


Arthur si lasciò sfuggire un verso di perplessità.

« Non hai molta ambizione, non credo possa essere definito un successo. »

Merlin aggrottò le sopracciglia.

« I soldi non mi interessano. Preferisco lavorare in mezzo ai libri piuttosto che in una banca anonima e fredda, con ignorantoni come colleghi. »

« Le banche non sono fredde! E non c’è l’ombra di ignoranti. Ti ricordo che io ci lavoro. »

« Appunto. »

Arthur inarcò un sopracciglio.

« Mi hai appena definito ignorante,idiota? »

« Mi hai appena definito idiota, mister il-mio-conto-spese-è-più-lungo-del-mio-pene-e-io-rimorchio-a-gogò-per-compensazione? »

Non appena si rese conto di quanto avesse detto, Merlin trattenne il respiro, abbassando la testa, senza cercare di nascondere il sorrisetto che gli era nato sulle labbra.
Sul volto di Arthur era dipinta un’espressione profondamente sbigottita. Aprì e richiuse la bocca più volte, boccheggiando alla ricerca di una risposta adeguata.

« Come osi? »

Merlin non sollevò lo sguardo ed il ghigno divertito gli svanì dalle labbra quando si scontrò con il tono offeso ed irato dell’interlocutore.

« OK, d’accordo, forse ho esagerato. È che ti comporti da totale arrogante della fascia medio-alta della società, finisci sui giornali e sei pieno di donne e non te ne frega niente di nessuna di loro, lavori per tuo padre e non hai niente di veramente tuo, niente che porti il tuo nome su una targa di ottone eppure ti comporti da padrone del mondo e io quelli come te non li sopporto. »

Nessuno aveva mai osato parlare in quel modo ad Arthur Pendragon, figlio di Uther Pendragon.
Nessuno, a parte la sua coscienza, che decapitava il suo amor proprio ogni volta che veniva sottolineata la linea di parentela – la speaker alla radio che accentuava il tono quando diceva “figlio”, anche se forse era solo la sua immaginazione.

Di nuovo, Arthur si ritrovò senza parole – perché da quella bocca non erano uscite altro che verità.

Deglutì, ingoiando il suo orgoglio. Decise di non rispondere, di abbassare il capo e infilarsi le mani in tasca, la giacca appesa al gomito. Gli diede le spalle ed uscì, dimentico di qualunque compito avesse da svolgere in libreria.

« Ehi, aspetta. Aspetta! »

Merlin gli afferrò il braccio, forzandolo a girarsi.
Aveva il viso contratto da un leggero senso di colpa e si mordeva il labbro, come se non si fidasse del frutto della propria lingua.

« Senti, mi dispiace. Non volevo- davvero, non intendevo offenderti. Parlo troppo, lo so. Me lo dicono spesso, ma- beh, tendo a dire quello che non dovrei. Ti posso offrire un caffè per scusarmi? »

E Merlin gli sorrise. Un sorriso abbagliante e caldo, speranzoso, tanto che anche gli angoli della bocca di Arthur si sollevarono un poco.

« Certo. Perché no? »
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 





« E che libro stavi cercando? »

Il bar in cui l’aveva trascinato era piccolo, con dei tavolini sulla strada, sedie di plastica e tovaglie tarmate. Servivano del caffè in bicchieri di carta, bollente e poco zuccherato, qualche arachide come accompagnamento. Arthur si appuntò mentalmente che la prossima volta avrebbe portato Merlin in uno dei caffè che frequentava lui, con sedie in legno e cioccolatini ripieni, le tazze in ceramica e- no, un momento. Stava dando per scontato che ci sarebbe stata una prossima volta – quando non ne aveva alcuna voglia.

« Un regalo per mia sorella Morgana. Il titolo è Intervista col vampiro, dovrebbe essere uscito quest’anno, ma non frequento molto le librerie. »

« Capisco. Un’amante del gotico, quindi. Beh, da Gaius non l’avresti trovato. Ha fatto il tutto esaurito, qualche mese fa. »

Merlin si portò il bicchiere alle labbra e sorseggiò la bevanda, socchiudendo gli occhi come se avesse appena mandato giù dell’ambrosia.

« Hai detto che ti stai per laureare. In cosa, di preciso? »

« Psicologia. Anche se avrei sempre voluto fare Pediatria, ma non ho passato il test per Medicina – e poi costa troppo. Beh, mi limiterò ad adorare i bambini senza curarli. »

« Affronterai positivamente la paternità quando ti sposerai. »

Merlin ridacchiò, facendo poi cadere un silenzio confortevole.
Spostò lo sguardo sulla strada, un’auto che tentava una manovra per parcheggiare.

Arthur si ritrovò a fissarlo.

« Hai delle orecchie enormi. »

« Grazie, Arthur, ma ci pensa ogni giorno lo specchio a ricordarmelo. »

« Di nulla, Merlin, e scusami se mostro interesse nella tua persona. »

Arthur si morse la lingua. Era davvero una frase ambigua e poteva essere equivocata.
All’improvviso, ritenne necessario guardarsi intorno, per accertarsi che nessuno li stesse osservando, nessuno li ascoltasse.

Spostò lo sguardo sul suo polso, notando l’orario.

« Si è fatto tardi. E non ho concluso niente. »

Si alzò, infilandosi la giacca ed evitando lo sguardo dell’altro, che si era puntellato sulle mani, il volto sollevato verso di lui.

« Ci- ci si vede in giro, allora? »

Arthur annuì con un sorriso tirato.
Si allontanò con passo malfermo, la sua consueta decisione che tardava ad ingranare.

Si ritrovò a fermarsi qualche passo dopo, il suo subconscio che gli intorpidiva le membra e la ragione.

Senza accorgersene, fu di nuovo al loro tavolo, sovrastando Merlin, la testa infilata nella sua tracolla sfilacciata alla ricerca, probabilmente, del portafogli.

« Puoi aiutarmi a cercare il libro per mia sorella? »

Merlin sobbalzò, la borsa gli scivolò dalle mani, finendo a terra. Alzò lo sguardo, incerto.
Poi il suo viso si distese e regalò all’altro l’ennesimo sorriso – un sottile raggio di sole.

« Sabato? »

« Sabato. »
 
 
 
 
 
 
 
 









 
 
**
 









 
 
 
 
Philadelphia, gennaio 1978
 

Arthur si rigirava fra le mani il bicchiere, ormai vuoto, osservando come la luce vi si riflettesse. Qualche goccia di whisky si radunò sul fondo, ondeggiando al movimento e lui le mandò giù, abbandonandolo, poi, accanto a sé – sul divano color crema.

Tirò sul col naso e deglutì.

Le dita si strinsero automaticamente attorno alla stoffa rossa della sciarpa che aveva arrotolata in grembo. Un capo a buon mercato stranamente soffice – lo aveva sempre pensato. La distese completamente, accarezzandola. Un dito si impigliò nel buco su una delle estremità. Era una piccola bruciatura, ruvida lungo i bordi.

Se la portò al viso, inspirandone gli odori – fumo e cannella ed erba bagnata.

Iniziò come una piccola risata, quasi privata.
Rideva, nella sciarpa, e si piegava in due, una mano sullo stomaco.

Johnnie Walker lo guardava con disapprovazione.

Arthur lo ignorò.
 
 
 
 
 
 
 
 







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Philadelphia, dicembre 1976

 
 
 
 
Arthur aveva incontrato gli amici di Merlin solo una volta.

Avevano organizzato una festa per Halloween e Merlin aveva insistito perché venisse anche lui e magari portasse qualcun altro, per aumentare il numero.

Così, Arthur aveva portato Leon e Morgana. La scelta era caduta su di loro perché del primo si fidava ciecamente e sapeva che, qualunque cosa avesse visto, non ne avrebbe mai fatto parola in ufficio. La seconda aveva insistito, smaniosa di conoscere gente nuova e magari un po’ più genuina, visto che si era stufata dei ricconi in completi costosi che fumano sigari cubani.

Arthur era un frequentatore abituale di festini. Tra strisce di coca e superalcolici, donne semivestite e angoli bui, Arthur pensava di aver visto tutto quanto ci fosse da vedere. Riteneva i festini tutti uguali, le donne non dissimili fra di loro – una solo più calda dell’altra, magari.

Ma Merlin non gli era mai sembrato un frequentatore di quel genere di ambienti. Perciò, quando lo aveva invitato alla festicciola di Halloween, Arthur si era dovuto trattenere dallo scrollargli le spalle e minacciarlo di prenderlo a pugni se non l’avesse piantata con quella gente, perché l’avrebbe portato sulla cattiva strada.

Poi, Merlin aveva letto la sua espressione ed era scoppiato a ridere, facendosi scivolare la sigaretta dalle labbra – che finì per scavare un buco nella sua sciarpa preferita. Gli aveva detto, quindi, che la gente che frequentava lui era diversa e genuina e non aveva passatempi da drogati e annoiati.

Arthur, quella sera, davanti all’indirizzo che Merlin gli aveva dato, non sapeva esattamente cosa aspettarsi. Immaginava un gruppo di esaltati e disadattati sociali, un po’ hippie e con i fiori nei capelli, che gridavano all’anarchia mentre si annebbiavano il cervello di canne.

Invece, la casa di quella Gwen Smith era curiosamente accogliente e la stessa Gwen Smith era curiosamente accogliente. Era gentile ed aggraziata, i lineamenti attraenti, un’espressione da donna sicura di sé che si preoccupa per gli altri prima di se stessa. Arthur fu felice della sua decisione di non portare altri che Leon e Morgana, che non avevano istinti razzisti. Quel Terence Rattle del lavoro, col quale aveva scambiato qualche chiacchiera ed una birra in gruppo, avrebbe storto il naso e, probabilmente, sarebbe uscito sbattendo la porta.

Gwen lo aveva salutato con un breve abbraccio ed un bacio sulla guancia, come se fossero amici di vecchia data che si ritrovano dopo lungo tempo. Arthur aveva affondato il viso nei suoi capelli e nel suo odore di agrumi, il tempo necessario perché lei non se ne accorgesse.

Nessuno sembrava averlo riconosciuto, anche perché non compariva sui giornali in fotografia da almeno un mese.

La festa era intima, pochi stuzzichini e alcolici leggeri. Le altre ragazze presenti, una bionda di nome Elena ed una minuta brunetta dalla vocetta nervosa che si chiamava Freya, erano socievoli e apparentemente insensibili al fascino di Arthur – ma il suo orgoglio non sembrò risentirne.

Conobbe Percy e Lancelot, marito della padrona di casa. Percy era un omaccione silenzioso che ricordava la favola del gigante buono. Lancelot, dal canto suo, parlava il necessario e sembrava essere un modello esemplare per qualsiasi tipo di essere umano.

Infine, incontrò Gwaine.

In realtà, fu attaccato da Gwaine, che urlò il suo nome, afferrandogli le spalle e strizzandogliele. Aveva iniziato a parlare ininterrottamente, incurante dello stato dei timpani dell’altro, scortandolo per la stanza e ficcandogli fra le mani un bicchiere di quella che lui chiamava botta lunare. Fu Merlin a salvarlo, in quell’occasione, staccandolo da quel parassita animale e facendo qualche dovuta presentazione. Indossava un pullover nero che lo faceva sembrare ancora più magro ed il suo sorriso gli aveva scaldato le vene più della botta lunare di Gwaine.

In fin dei conti, gli amici di Merlin non erano eccessivamente bizzarri. Leon sembrava aver attirato l’attenzione di Freya e Morgana, dopo la quarta tequila, non aveva fatto altro che pomiciare con Gwaine per tutta la durata della festa.

Perciò, fu piacevolmente sorpreso quando, rientrando nel suo appartamento, trovò un invito per un “ritrovo per il Ringraziamento”. Era su un semplice cartoncino bianco, una grafia lineare che ritenne appartenere a Lancelot, la sua firma e quella di Gwen in basso.

Scalciò via le scarpe ed accese la luce del salone, accasciandosi sul divano color crema che Morgana lo aveva costretto a comprare. L’appartamento era un superattico, un intero muro una vetrata sui tetti della città e sui fiocchi di neve che cadevano inclementi.

Si sporse oltre il bracciolo e raggiunse il telefono, componendo il numero e attorcigliando le dita al filo mentre aspettava.

« Sì? »

« Merlin, sono io. »

« Arthur! Com’è che sei già a casa? »

« Sono il capo. Posso permettermi di uscire prima. Ho ricevuto l’invito di Gwen. »

« Oh, fantastico! Gwen ha invitato anche mia madre, sai? Dice che non vuole che passi il Ringraziamento da sola, perciò le ha chiesto di venire. Naturalmente, lei non si lascerebbe sfuggire un’occasione del genere. »

« Avrò, quindi, l’onore di incontrare la signora Emrys. »

« Non osare chiamarla così, davanti a lei. Lo odia. Ti chiederà di chiamarla solo Hunith. O perfino mamma. Con Gwen lo fa. »

« Non mi ci abituerò. »  ridacchiò  « Cosa pensi dovrei portare? Una bottiglia di vino? Champagne? Nel minibar dovrei avere del Johnnie Walker di ottima annata, ma forse- »

« Arthur, non devi portare niente. »

« Ma- »

« Niente ma. Niente niente. »

Arthur grugnì e per un po’ prese in considerazione l’idea di chiedere a Merlin di avvicinarsi di più alla cornetta, perché non sentiva bene la sua voce, perché voleva che il silenzio si riempisse del suo respiro – ma poi scosse la testa, accusando la stanchezza per simili pensieri, perché Merlin era suo amico e quello che aveva appena pensato era deviato.

« Senti, Arthur, mi dispiace, ma sto preparando la tesi. Il fatto è che domani devo parlarne con il mio professore e dovrei presentarmi almeno con qualcosa di pronto. Ci sentiamo domani sera, magari? »

« Certo, certo. Le priorità, Merlin, giusto. A domani sera, allora. »

Dalla cornetta proruppe un click e lui rimase immobile, un inadeguato sorriso che si allargava sul volto.

Arthur si sarebbe detto profondamente confuso se non fosse stato anche profondamente felice.
 
 
 
 
 
 






 
** 
 











 


 
 
 
 
 
 
Philadelphia, capodanno 1976-1977
 
 

« Bevi, fidati! »

Morgana gli mollò un bicchiere fra le mani, il liquido verde che rischiava di traboccare.

« Morgana, io non mi fido di te. »

« È quasi innocuo! Manda giù! »

Arthur fissò sospettoso il contenuto del bicchiere, guardandosi intorno alla ricerca di aiuto. Gwaine era accanto a lui, la testa sul tavolo e la bocca aperta, a russare profondamente. Percy, che stava per svenire a sua volta, ma dimostrava di avere in corpo una stamina ferrea, si appoggiava alla schiena del compagno con il gomito, reggendosi la testa sul dorso della mano e forzando gli occhi a restare aperti.
Avevano scelto un locale molto frequentato ed un tavolo nell’angolo più oscuro della sala.
Al centro, la pista da ballo era scomparsa sotto i piedi dei ballerini festeggianti, cappellini di carta e coriandoli fra i capelli. Gwen e Lancelot erano stretti l’uno all’altra, lei con la testa sul suo petto. Freya stava ballando con Merlin, che le palpeggiava senza vergogna fianchi e sedere, fasciati da un luccicante abito blu. Da qualche parte, dovevano esserci Leon ed Elena, gli unici due single del gruppo che erano rimasti e che avevano deciso di inaugurare il nuovo anno con un ballo di buon auspicio e la promessa che avrebbero rimorchiato qualcuno.

Arthur mandò giù il liquido, sorpreso dal suo sapore dolce.
Pochi attimi e la testa iniziò a pesargli. Vagamente, udì Morgana parlargli in tono orgoglioso.

« Ora hai bevuto anche l’assenzio. Complimenti, fratellino! Buon anno! »

Artigliata al suo braccio, Mithian le rispose, forse augurandole di rimando buon anno.
Si appoggiò alla sua spalla, accarezzandogli la coscia ed Arthur sentì l’impulso inspiegabile di scrollarsela di dosso.

L’aveva conosciuta in ufficio.

Era bellissima e brillante, la nuova segretaria di qualcuno – non importava.
Se l’era chiesto alcune volte, a letto, quando non riusciva a chiudere occhio. Se l’era chiesto, nella doccia, quando il vapore dell’acqua calda sembrava confondergli ancora di più le idee. Ma Arthur non aveva una risposta. Arthur non sapeva perché l’avesse invitata ad uscire e poi l’avesse baciata, con l’alito che sapeva di birra e trovando le sue labbra troppo morbide, la sua vita troppo stretta, i fianchi troppo tondi. Non sapeva perché l’avesse invitata nel suo appartamento – che Merlin non aveva mai visto e
no, diavolo, non doveva pensare a Merlin in quel momento, perché pensava a Merlin mentre aveva un capezzolo di Mithian fra i denti?

Era una delle donne più belle che avesse avuto nel suo letto ed il giorno dopo le aveva portato il caffè mentre riemergeva dalle lenzuola, il seno nudo che svettava in tutto quel bianco, un luccichio malizioso nello sguardo.

Arthur aveva ritenuto opportuno presentare Mithian al suo gruppo di amici – per osmosi, erano diventati anche i suoi amici.

Aveva finto di non vedere la perplessità sul volto di Gwen, perché probabilmente era solo un gioco di luci. Aveva finto di non notare la tensione negli occhi di Merlin mentre stringeva la mano di Mithian senza sorriderle, il modo in cui aveva evitato il suo sguardo, parlando di meno e bevendo di più.

E Merlin aveva iniziato a strusciarsi contro la piccola Freya, che pendeva dalle sue labbra e non si accorgeva del suo sguardo duro mentre le sistemava i capelli dietro le orecchie.


Lì, sulla pista da ballo, a tre minuti dal 1977, Merlin accarezzava la schiena di Freya e lei gli baciava il collo ed Arthur sentiva l’assenzio macinargli la ragione e la forza di volontà – perché non poteva, non doveva essere altro che la musa verde che tormentava la collina di Montmartre il secolo scorso.
La sentì rimontare nello stomaco, scalciare per uscire in qualsiasi forma e forse avrebbe inaugurato il nuovo anno rigettando la povera cena a base di fritture e noccioline.

Arthur si disse che se lo meritava.

Il fatto è che non sapeva perché.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 








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Philadelphia, gennaio 1978
 

Non pensava che i tumbler fossero così fragili.

Forse era proprio per testarne la resistenza che l’aveva scagliato contro il muro, dove si era infranto, giusto sotto la riproduzione di un Van Gogh, i cocci che tintinnarono cadendo sul parquet, la base ancora integra, accanto alla collezione di dischi, in un mucchietto disordinato e senza speranza, luccicanti nella luce soffusa che ora li colpiva dall’alto.

Forse era stato un raptus di rabbia cieca, una furia animale che aveva visto il bicchiere come responsabile, lo aveva incolpato ed aveva urlato.

Forse aveva pianto.

La sciarpa scivolò sul pavimento, morbidamente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 













 
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Philadelphia, febbraio 1977
 
 
 
« Non ti facevo un tipo da Sex Pistols. »

« Regalo di Morgana. »

« Ottimi gusti. Immagino sia una di quelli che si toccano pensando a Sid Vicious. »

« C’è qualcosa di malato nella tua considerazione. »

« Chiunque ha fatto un pensierino su Sid. È parecchio sexy, glielo devi concedere. »

« Sono rimasto ai sogni erotici delle compagne di college su Elvis. Ma potremmo anche cambiare discorso, mi mette un po’ in imbarazzo. »

« Poverino, Arthur-dalle-mille-donne. Non regge una conversazione sulla masturbazione. Forse non ne ha mai avuto bisogno. »

Merlin lo guardò dal basso e rise di gusto davanti alla sua espressione sbigottita.

Era seduto a gambe incrociate sul suo pavimento, le dita che accarezzavano i dorsi dei pochi dischi della sua collezione. Arthur scrollò la testa e gli porse un bicchiere di aranciata, accovacciandosi accanto a lui.

« Ti piace il jazz? Dovrei avere un Coltrane, da qualche parte. »

« Gwen va pazza per John Col- Eccolo! »

Merlin estrasse un disco dallo scaffale e cacciò fuori il vinile, sorridendo come un bambino.

« Dai, mettiamolo! »

Si alzò di scatto, guardandosi intorno alla ricerca di un giradischi. Arthur glielo tolse di mano, dirigendosi verso un angolo della stanza. Disco sul piatto, puntina nel solco e Merlin chiuse gli occhi, abbandonandosi sul divano.

Afferrò il cuscino che gli stava a fianco, una roba etnica che Leon gli aveva comprato per Natale – non era molto bravo a fare regali.

« Cosa fai lì in piedi? Siediti anche tu! »

Accarezzò il posto accanto a lui ed Arthur annuì, sedendosi. Si appoggiò allo schienale, voltandosi per guardare Merlin – che sorrideva ancora, il jazz che pulsava contro le pareti, il suono del sassofono che si attorcigliava alle sue dita, sensuale e provocante, il vivace accompagnamento di un pianoforte.

Arthur chiuse gli occhi e si lasciò trasportare.

« Lancelot mi ha raccontato che, per l’anniversario di matrimonio, si è fatto trovare a casa in anticipo, le candele accese, un Dom Pérignon e Blue in Green di Miles Davis dal vecchio grammofono. Gwen era entusiasta e giura che è stata la loro scopata più bella. »

« Farò finta di non aver sentito. »

« Il jazz esercita un potere strano sulle persone. »

« Morgana lo odia. »

« Rettifico: il jazz esercita un potere strano sulle persone normali. »

« Ci dovresti scrivere un saggio. »

« Magari lo farò. »

Il sassofono si elettrizzò nel suo assolo, bassi ed acuti che si altalenavano, vibrando contro le corde nel petto e fischiando contro i timpani.

Ad Arthur scivolò un brivido lungo la schiena.

Inspirò profondamente, trattenendo nei polmoni quell’aria piena di jazz e Merlin, satura di parole non dette.
 
 
 
 
 
 
 






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Mithian era stata sportiva.
Aveva reagito con un debole sorriso ed una pacca sul suo braccio. Lui le aveva detto tutte quelle cose che si dicono alle donne – « Sei fantastica, meriti di meglio, sono stato bene ma mi serve del tempo per pensare e blabla ».

Non diede l’impressione di prenderla sul personale, ma trattò la questione come se fosse un accordo lavorativo, la scadenza preannunciata di un contratto precario.

Fino a quando, due giorni dopo, passando davanti alla sua scrivania, non notò un ragazzino dai capelli ricciuti e baffetti patetici di uno che non si rade da un mese.

Alla fine, anche Mithian aveva un orgoglio femminile che non aveva saputo difendere.
 
 









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Quando annunciò ai suoi amici la rottura con Mithian, Gwaine sembrò prenderla come un’offesa alla sua persona e Morgana gli rise sguaiatamente in faccia. Leon e Percy lo abbracciarono, cercando di confortarlo e Lancelot gli passò la sua bottiglia di birra.
Freya sparò un’acida frecciatina sull’egoismo degli uomini e lasciò un’occhiata sbilenca a Merlin – che l’aveva scaricata senza troppe parole due settimane prima.

Solo Gwen sembrò felice di quella notizia, come se l’avesse attesa a lungo.

Di nuovo, Arthur fece finta di non notare il volto acceso di Merlin.

Di nuovo, si disse che era solo suggestione.






 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Philadelphia, gennaio 1978
 

Il traffico sfilava e si muoveva pigro, decine di metri in basso. La cacofonia non arrivava lì, non superava lo spesso strato trasparente della vetrata.

Arthur non si appoggiava mai alla vetrata, perché gli aloni della pelle sudata non se ne andavano. C'era un impronta indelebile, sul vetro, cinque dita ed un palmo.

Si voltò, un’ultima occhiata ai tetti coperti di neve e di nuovo sul divano color crema – così costoso, così vuoto.
Afferrò la bottiglia dal tavolo per il collo e ne tracannò il contenuto, i cocci del bicchiere ancora luccicanti, lì in terra.

Johnnie Walker, gambe all’aria ed il cappello che non cadeva, sembrò corrugare la fronte e ricordargli che lui era un uomo.

Arthur si staccò dalla bottiglia e la rimise sul tavolo, Johnnie Walker di spalle, il volto invisibile verso le luci di Philadelphia.
 
 
 
 
 
 
 


















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Philadelphia, marzo 1977
 
 

« Geniale! Assolutamente geniale! Non posso crederci, ho assistito a qualcosa che cambierà la storia! Che resterà per generazioni e generazioni! »

« Merlin, datti una calmata. È solo un film. »

« Solo un film?! Solo un film?! Arthur Pendragon, abbiamo visto la stessa cosa? »

Arthur sorrise fra sé e scosse la testa, incredulo.

Il Golden Dragon era un multisala in periferia ed era la meta preferita delle famigliole alla domenica. Arthur non andava mai al cinema, se non a qualche primo appuntamento. Però, un giorno, il telefono aveva squillato con impazienza e la voce di Merlin, dall’altro capo, gli aveva urlato contro che se non fossero andati al cinema a vedere quel nuovo film di fantascienza che era uscito, non gli avrebbe più rivolto la parola. Arthur aveva accettato, a patto che l’altro avesse contenuto la sua immotivata eccitazione.

Si erano dati appuntamento davanti al cinema ed avevano acquistato dei popcorn. Merlin aveva il volto affondato nella sua sciarpa rossa e non faceva che parlare di quanto si fosse informato sulla produzione – gli effetti speciali, la colonna sonora, il cast, questo regista di nome George Lucas.

Quando le luci sfumarono nella sala, il suo entusiasmo sembrò suggerirgli di tacere. Fremette ancora, stringendosi le ginocchia – Arthur gli aveva anche consigliato di non alzare troppo il livello delle sue aspettative, perché di solito si resta delusi da ciò che si aspetta a lungo.

Tuttavia, si dovette ricredere quando, sulla schermata nera, comparve la frase “Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana…”.

E poi la musica iniziò.
 
 




Quando il film si era concluso, lui e Merlin erano rimasti incollati allo schermo fino a quando non finirono di scorrere i titoli di coda.

Si voltarono, poi, nel buio, per scoprire che la maggior parte degli spettatori era ancora lì, la consapevolezza di aver appena assistito ad un capolavoro.

Merlin aveva iniziato a parlare molti passi più tardi, fuori dal cinema, quando la calca si era sciolta ed ognuno era tornato alla propria auto con la mente ancora leggera e fremente.
Era l’entusiasmo di un bambino ed Arthur, stavolta, davvero non poteva biasimarlo.

« Andiamo a piedi? »

Merlin annuì, gli occhi che gli rilucevano e sbuffi di vapore che gli uscivano dalle narici.

L’inverno era arrivato tardi e tardava a scongelarsi, la neve che non arrivava ad accumularsi in mucchietti candidi ai lati della carreggiata, sciogliendosi prima di toccare il suolo. I venditori di caldarroste e pannocchie lungo i bordi della strada ringraziavano il tempo inclemente che ancora costringeva la gente a coprirsi fin sopra le orecchie.

Merlin amava le caldarroste - « Scaldano le mani ed il cuore ».

« E poi un Harrison Ford che- Dio, è stato eccezionale! Ho pianto come un bambino quando Obi Wan è morto! Luke potrebbe essere un po’ più sveglio, no? Bah. E quella Leila ha fegato! Diavolo se mi piace! Voglio il seguito! »

Aveva monopolizzato la conversazione, ma ad Arthur non dispiaceva. Lo rilassava sentirlo parlare, emozionato, le mani che gesticolavano. Aveva epiteti per ogni attore, chiamava Darth Vader stufa a legna – per qualche motivo ignoto – ed esprimeva infiniti apprezzamenti per Han Solo e la principessa.
Arthur non lo interrompeva. Si limitava a spostare lo sguardo dalla strada davanti a sé al suo volto, a ridere di tanto in tanto e fargli un cenno col capo quando era ora di svoltare. Erano a pochi isolati dal suo appartamento. Si sarebbero scaldati davanti al suo caminetto e poi avrebbe chiamato un taxi per Merlin. Oppure si sarebbe addormentato sul suo divano – aveva sviluppato una sorta di morbosa ossessione per quell’orrido divano color crema, Merlin.

Quasi non si accorse della pioggia che aveva iniziato a sbattere contro l’asfalto.

« Cavolo, dovevamo prendere la macchina! »

« Suvvia, sono solo due gocce. Non ti bagnerai la pelliccia, Chewbecca. Oh, guarda! »

Seguì il suo sguardo, fisso in un punto imprecisato.

« Cosa? »

« Il parco è aperto! »

Arthur guardò di nuovo e vide un cancello scuro leggermente socchiuso, l’insegna appesa alla ringhiera che recitava “Mayflower Green”.

« Non credo sia aperto al pubblico e poi piov- Merlin! »

Ma lui non gli aveva dato retta. Era corso in avanti, spalancando il cancello e chiamandolo a gran voce. Arthur represse un insulto e lo seguì.
L’altro camminava a passo spedito verso un gazebo, riparandosi sotto la tettoia.

« Forza, vieni! »

Arthur lo raggiunse e aprì la bocca per parlare, ma Merlin ridacchiò e si sfilò scarpe e calzini, abbandonandole sul legno di una panchina.

Prima che potesse fermarlo, era fuggito via, verso il parco.

C’era un salice, sulla sinistra, ed il vento ne frustava i rami. Una morbida distesa d’erba immersa nell’oscurità della notte e baciata dalla pioggia.

E c’era Merlin, che roteava e volteggiava, i piedi nudi e le braccia aperte. Aveva le palpebre serrate ed un largo sorriso, sembrava danzare.

Uno spettacolo incantevole, un uragano benefico, una visione accecante – e non era mai abbastanza.

Ad un certo punto, inclinò il capo e squadrò Arthur, ancora al riparo sotto il gazebo.
Gli andò incontro, le braccia tese.

« Via le scarpe e vieni qui. »

Lo afferrò per un braccio, guardandolo duramente mentre si slacciava le stringhe e si sfilava una scarpa dopo l’altra.

« Anche i calzini. »

Obbedì, la mano di Merlin ancora artigliata al suo gomito. Quand’ebbe finito, gli sorrise.

« Ora sei pronto. »

Lo liberò della sua presa e tornò sulla sua personale pista da ballo, un luogo che il mondo al di fuori non può comprendere e non può contaminare.

Facendosi forza, Arthur mise il primo piede sull’erba bagnata, rabbrividendo. Era fredda e un poco viscida, solleticava la pelle e faceva venir voglia di girarsi e scappare a gambe levate – sembrava ci fosse troppavita, più di quanto un essere umano potesse sopportarne.
Per qualche ragione, Merlin era tornato indietro, ad aggrapparsi ancora al suo braccio. Forse per guidarlo, forse perché temeva si tirasse indietro.

Lo sciabordare delle gocce sull’asfalto lì fuori, qualche clacson in lontananza e le dita di Merlin che gli stringevano il polso.

Arthur sollevò lo sguardo, intorno a lui c’era quel velo striato che la pioggia tende a creare, quel rumore costante ed infinito, c’era Merlin che gli sorrideva, quella luce negli occhi che aveva sempre quando lo faceva. Gli zigomi lucidi e gocce sulla punta delle ciglia, non aveva mai avuto il suo volto così vicino. Rivoli d’acqua lungo le tempie ed i capelli appiccicati alla fronte, la bocca in una curva divertita ed una fossetta deliziosa. 

Fu quasi un gesto naturale per Arthur attirarlo a sé e premere le labbra contro le sue.

Se il mondo si fermò, Arthur non vi fece caso. 
Se la pioggia smise di schiaffeggiare la terra, lo fece senza avvertirlo.

Le labbra di Merlin erano soffici ed era tutto ciò che Arthur aveva sempre desiderato ed erano sempre state lì, a portata di mano – ma lui non l’aveva mai capito.

Forse la prima espressione di Merlin era stata attonita. E forse dopo aveva emesso un gemito inconfondibile, ma Arthur si concentrò solo sul sapore dell’angolo della sua bocca e di come i suoi fianchi sembrassero sottili sotto il suo tocco, di come le sue mani sembravano incastrarsi in modo perfetto fra le sue ossa sporgenti.

Si separarono e Merlin lo guardò, le sopracciglia aggrottate ed un rossore che si spandeva fino alle orecchie. Arthur inclinò il capo su un lato, senza permettere che dubbi e domande gli trapanassero il cervello. Gli accarezzò la guancia e sorrise, la pioggia che gli sferzava violenta sul volto.

Una nuova goccia cadde dalle ciglia di Merlin, scure e lunghe, gli sfioravano la pelle seducenti.

Forse non era pioggia, ma Arthur lo strinse a sé, di nuovo, la testa nell’incavo del suo collo, e gli sussurrò parole e promesse che non avevano senso e sorrise e pianse, la felicità che gli pulsava nelle vene.
 
 
 
 
 
 













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L’appartamento di Merlin era sudicio e puzzava di muffa, le macchie umide su un soffitto che perdeva ogni volta che pioveva. Aveva pochi mobili ed una ricca collezione di libri e dischi, un mangiadischi di seconda mano ed una radio che non funzionava spesso. Le molle del suo letto gracchiavano e le lampadine pulsavano debolmente.
Ma l’appartamento di Merlin era al ventiquattresimo piano di un condominio in centro ed aveva un piccolo terrazzo con mattonelle scheggiate e balaustra in solida pietra. Merlin aveva spiegato spesso quanto gli piacesse sistemarsi lì con i tuoi testi da studiare e godersi dell’aria salubre di città.

Arthur aveva visto l’appartamento di Merlin – suo amico, suo cosa? – solo due volte prima di quella sera al cinema.

Dopo due settimane, poteva quasi dire di conoscerlo quanto casa sua.

Era stata una giornata frizzante e Arthur aveva raggiunto Merlin a casa sua mentre l’altro finiva il suo periodo quotidiano dedicato alla tesi. Aveva i gomiti appoggiati alla balaustra, l’intera Philadelphia si spiegava sotto la sua vista, sonnecchiando pigra nel tramonto e preparandosi ad una notte riposante.

« Arthur »

Merlin era in piedi dietro di lui, poteva percepirne lo sguardo piantato nella nuca, che gli trapassava il cranio e arrivava dritto al serbatoio di pensieri nascosti.

Si avvicinò, mettendogli una mano sulla spalla, accarezzandogliela piano.

« Cosa c’è che non va? »

« Me lo chiedi? »

Lo sentì irrigidirsi, la mano che si bloccava. Respirò piano tre volte e prese fiato per parlare.

« Arthur- »

« Io non ce la faccio! Io non- io non sono… Non ce la faccio. Non sono come te, tu riesci- »

« Io riesco a fare cosa, Arthur? A essere me stesso? Sì, è vero, mi riesce facile. Se tu la smettessi di avere una tale paura- »

« Io non ho paura! »

« Ma davvero? Tu hai una tale paura dell’opinione altrui che, se potessi, ti attaccheresti una maschera in faccia con la supercolla! »

« D’accordo, forse do importanza a quello che pensano gli altri. Magari perché esco sui giornali una settimana sì e l’altra pure! »

« Smettila di preoccuparti degli altri! Devi fare quello che vuoi tu! »

« Merlin, tu sai bene in che razza di ambiente siamo cresciuti. Io non ce la faccio a vivere sentendomi addosso le occhiate degli sconosciuti. Per non parlare di quello che penserebbero le persone a lavoro, i miei amici, mio padre. Mio padre mi depennerebbe dal testamento, mi toglierebbe tutto, a cominciare dalla reputazione! »

« Sarebbe solo per i primi tempi! Lo so che tuo padre è una specie di mostro, ma ci tiene a te! »

« Tu non capisci. »

« Certo che capisco, Arthur. »  gli afferrò le spalle  « Ho capito di essere- ho capito quello che volevo quando avevo solo sedici anni. L’ho nascosto, all’inizio, ma mi faceva sentire peggio. Alla fine l’ho accettato. E non è andata male. »

« Vuoi farmi credere che al liceo non ti hanno mai picchiato? Non ti hanno mai preso di mira? I professori, anche loro. Non ti hanno mai trattato diversamente? »

Merlin abbassò lo sguardo.

« Merlin, io ero fra quelli che si appostavano sul retro della scuola ad aspettare il secchione o quello strano. Ora sono dall’altra parte. Non posso vivere con questo. »

« E che vuoi fare, allora? »

Arthur distese la fronte, un improvviso senso di colpa in gola.
Merlin trattenne il respiro e chiuse gli occhi.

« Tu vuoi finirla. »  fu un sussurro e deglutì, per poi incrociare le braccia al petto  « Va bene, per me va benissimo. Fallo, Arthur, piantami qui, sul balcone di casa mia e stasera me ne vado in un locale per soli uomini a trovare qualcuno che almeno ha il fegato di prendere quello che vuole. »

« Merlin- »

« Mostra di avere spina dorsale, Arthur. »

Lo guardò, la fronte corrugata, il labbro che tremava. Arthur gli si avvicinò, ma Merlin indietreggiò, gli occhi luccicanti per qualcosa che non era allegria.

« Devo andare. »

E se ne andò, a larghe falcate, sbattendosi la porta alle spalle.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 








 
« Cosa ci fai ancora qui? »

Arthur sobbalzò, una macchia umida sulla camicia a testimoniare che si era addormentato, sbavandosi sul braccio. Dalla finestra, i raggi rosati della mattina accarezzavano la città e risplendevano sui trucioli di matita sparsi sui libri di testo.

Merlin era sulla soglia, le occhiaie scavate e le sopracciglia contratte.

Arthur si alzò, reggendosi alla scrivania.

« Dove sei stato? »

« Rispondimi prima tu. »

Si guardò intorno.

« Ti aspettavo. »

« Perché? »

« Ora tocca alla mia risposta. »

Merlin richiuse con uno scatto secco la porta, gettando le chiavi sulla poltrona. Si addentrò nella stanza, una mano sul fianco e lo sguardo che evitava Arthur.

« Sono stato in quel gay club a due isolati da qui. Un affascinante quarantenne mi ha offerto da bere ed io l’ho ringraziato, mentre un paio di italiani di godevano lo spettacolo. »

Arthur scattò in avanti e gli afferrò le spalle, fissando lo sguardo nel suo e attirandolo a sé, con rabbia. Violentemente, gli sfilò il maglione, gli morse le labbra, il sapore metallico del sangue sulla lingua.

« Vuoi che prenda ciò che voglio? »

Merlin annuì, senza fiato, la schiena contro il muro, la testa gettata all’indietro.

« Tu sei mio, Merlin. »

Gli afferrò i capelli con forza, facendo combaciare di nuovo i loro sguardi, i respiri che si mescolavano, impigliandosi fra di loro. Merlin gli rifilò il suo ghigno malizioso ed Arthur glielo strappò via avventandosi sulla sua bocca.

Gli morse il collo mentre i pantaloni calavano. Si concesse un sorriso contro la sua pelle, bianca e pura – e di nessun altro.
Sesso e rabbia andavano a braccetto e ad Arthur non dispiaceva affatto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 






« Non è vero. »

« Mmh? »

Erano crollati sul pavimento, i pantaloni attorno alle caviglie ed i corpi sudati e appiccicaticci, umidi, sporchi, maleodoranti – soddisfatti.

Arthur aveva un braccio attorno alle spalle di Merlin, la sua fronte premuta contro il collo, la sua mano sul petto.

« Non è vero che ho rimorchiato. In realtà, un tipo mi ha davvero offerto da bere ma io- beh, non ho fatto niente. Non- non lo farei, non a te. »

« Dovrò punirti per questa bugia. »

Merlin ridacchiò, sospirando.

« Arthur »

« Sto cercando il mio posto felice, Merlin. »

« Come? »

« Sai, un posto immaginario in cui la gente si rintana per non perdere quella serenità che si accumula con tanta fatica. »

« Capisco. »

Arthur sfregò il suo pollice sulla spalla di Merlin, meccanicamente.

« Mi hai già interrotto, accidenti a te. Cosa volevi dirmi? »

Merlin deglutì.

« Possiamo- sai, Arthur, potremmo… fare finta. »

Arthur sollevò il busto, costringendo l’altro a spostarsi. Lo guardò esterrefatto e Merlin continuò a parlare prima che l’altro lo interrompesse.

« Ho sbagliato a prendermela. Non ho cercato di mettermi nei tuoi panni e sono scoppiato. Mi dispiace. Capisco che tu non ti possa sentire a tuo agio, è una cosa nuova, per te. In fondo, sarebbe anche stupido forzarti a entrare in un ambiente che non ti appartiene ancora. Quindi, possiamo fare finta. Possiamo comportarci come ci siamo sempre comportati, da amici. Nessuno sospetterà niente e tu avrai il tuo tempo per metabolizzare. Possiamo andare avanti per sempre, non importa, perché è una cosa nostra. »  gli sfiorò la guancia  « Quello che m’importa sul serio è stare con te. »

Arthur si ritrovò a corto di parole. Coprì la mano di Merlin con la sua e chiuse gli occhi.
Sentì le labbra dell’altro sulla guancia, in un bacio così puro eppure intimo.

« Merlin- »

Gli mise un dito sulla bocca, a bloccargli quella confessione.

« Basta parole. »

Ed Arthur ritardò di due ore a lavoro, ma davvero non importava.
 
 
 
 
 
 










**
 









 
 
 
Philadelphia, maggio 1977
 

« Non mi hai parlato di Will. »

Era strano come sembrasse rinata la città. Si era svernata nel giro di poche settimane ed i vestiti a fiorellini erano sbucati come bucaneve, assieme ai sandali nuovi che ticchettavano sui marciapiedi, i gelati con la stecca di cannella ed una laurea in Psicologia tanto sudata.

Era sabato mattina ed alcuni negozi già calavano giù le saracinesche, la promessa di un bel pranzetto ed una pennichella a cuocersi sotto il sole.

« È un vecchio amico d’infanzia, abita a quaranta miglia da Philly. Mia madre mi ha telefonato e mi ha detto che si è rotto una gamba. Devo andarlo a trovare. »

« E gli devi per forza portare un regalo? »

Merlin gli scoccò un’occhiata, borbottando qualcosa tipo “insensibile”.

« È un gesto carino che le persone normali di solito fanno. Inoltre, mi sono perso i suoi ultimi tre compleanni. E Will è un permaloso, se non gli porto qualcosa è possibile che mi stacchi un braccio a morsi e se lo conservi in un barattolo per rinfacciarmelo ogni Natale. Sapessi che è stato capace di urlarmi al telefono… »

Arthur inarcò un sopracciglio, reprimendo un commento.

« Che musica ascolta? »

Svoltarono l’angolo, l’insegna verde della Once and Future Music Store sulle loro teste.

« È piuttosto fissato con i Talking Heads. Direi che con l’ultimo uscito vado sul sicuro. »

« I Talking Heads?! Ma come- bisogna essere dei deviati mentali per apprezzare quella schifezza. »

La mano di Merlin si bloccò sul pomello della porta, le sopracciglia corrugate.

« Naturalmente, tu sei l’esperto, mister Pavarotti. »

« Ti ho già spiegato che quella registrazione non era mia. »

Entrarono nel locale, poco affollato, le luci soffuse, file e file di dischi lungo le pareti.

« Certo, certo. »

« E poi che hai contro la lirica? Tu ascolti il country! »

Una ragazzina, le trecce che le incorniciavano il volto ed un quarantacinque giri di Crosby, Stills, Nash & Young, fece segno loro abbassare la voce.

Merlin gli sussurrò contro rabbioso.

« Non è country. Ha solo perso colpi. »

« Neil Young che perde colpi e fa musica da saloon. »

« Ti farò dare una strigliata da Gwen. Adora Neil quasi quanto adori il jazz. »

« Tremo al sol pensiero. »

« Tremerai, Arthur Pendragon. Lo sai. »

Si divisero per ottimizzare i tempi. Arthur andò a chiedere informazioni alla giovane cassiera, sfruttando in modo spudorato il suo fascino ed ammettendo che « i Talking Heads sono il mio gruppo preferito. La musica del futuro, come testimonia il loro nuovo album. »

Merlin lo tirò per la giacca.

« Sei senza vergogna, tu. »

« È strategia, Emrys, strategia. »

« Sì, mi piace quando mi chiami per cognome. »

Socchiuse le palpebre, prendendosi il labbro fra i denti e muovendo lentamente la testa.
Scoppiò a ridere quando vide l’espressione di Arthur, arrossito fino alla punta dei capelli.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 




« Non ti parlo. »

« Mi stai parlando, ora. »

Merlin aprì la bocca e poi la richiuse di scatto, stringendosi al petto la busta con il disco.

Erano usciti dal negozio, Merlin aveva pagato senza guardare Arthur e lo aveva preceduto in strada, camminando a larghe falcate sul marciapiede, la folla di persone – anziani con bastoni e ragazzine bionde – che scorreva attorno a loro.

« Perché non mi parli? »

L’altro strinse le labbra, scuotendo la testa. Arthur ridacchiò.

« Non sarà perché ho offeso Neil Young? »

Merlin annuì e rifilò all’altro un pugno sulla spalla per farlo smettere di ridere, ma quello non demordeva. Doveva asciugarsi gli occhi dalle lacrime, tanto era divertito.

« Come mi faccio perdonare? »

Quello ci pensò, arricciando il mento e alzando gli occhi al cielo. Si illuminò ed indicò un punto in fondo alla strada, dove un furgoncino bianco con un cono gelato stilizzato su una facciata si era fermato, per soddisfare una marmaglia di bambini urlanti.

« Un gelato? Hai quasi venticinque anni, Merlin. »

Ma quello fece una faccia che non ammetteva repliche ed Arthur sospirò.
Camminarono, le braccia che non osavano sfiorarsi di un millimetro, tra la calca di quel soleggiato mattino.

Senza preavviso, Arthur tese la mano e gli sfiorò le dita, intrecciandole con le sue, palmo contro palmo, il pollice gli carezzava il dorso.

Merlin era sobbalzato al primo contatto e l’aveva guardato sbigottito.

Una signora in una gonna tirata sulle ginocchia li squadrò sprezzante, quasi disgustata e si premette la borsetta contro il ventre.

Merlin gli strinse con forza la mano, la testa alta, petto in fuori. Sorrideva agli sconosciuti che incrociavano come se gli avessero di nuovo annunciato la fine delle ostilità in Vietnam.

La gente li scansava vedendoli mano nella mano, ma l’omino dei gelati fece loro un largo sorriso ed infilò sui loro coni due stecchetti di cannella in più.
 
 
 
 
 
 
 









 
**










 
 
 
 
 
 
 
« Ragazzi, dobbiamo dirvi una cosa. »

« Arthur, aspetta. »

Gwen restò con la mano sollevata a mo’ di scusa verso di lui mentre ripeteva a Gwaine che no, non avrebbe potuto regalare al bambino una tutina dei Black Sabbath.

Era la festa per una nuova vita, come Lancelot aveva scritto a grandi lettere su ogni invito. Gwen era in dolce attesa ed il futuro papà aveva preso la notizia con un entusiasmo difficilmente sgonfiabile. Gwen, dal canto suo, era radiosa e sorrideva più del solito.

Erano tutti a casa loro, tranne Morgana, in Europa per qualche ragione inconfessabile. Erano appollaiati su sgabelli o affondati nei divani. Freya era accovacciata sul tappeto con il suo nuovo taglio di capelli ed il vistoso piercing al naso.
Dal grammofono, la voce di Neil Young arrivava dolcemente soffusa.

Gwaine era arrivato in ritardo con una cassa di birra – « sono incinta, Gwaine, non posso bere alcolici » – ed i capelli legati sulla nuca. Aveva baciato Gwen su entrambe le guance, chiedendole che regalo sarebbe stato adatto per un neonato.
Leon si era spalmato il palmo sul viso.

« Perché non ti possono piacere gruppi un po’ meno rumorosi? »

« Sei solo invidioso dei miei gusti. Gwen »  si rivolse a lei  « che nei dici dei Led Zeppelin? »

Lei annuì.

« Andiamo già molto meglio. »

« A te piacciono quelli che fanno dormire, Gwen. Non so perché andiamo d’accordo. Metti qualcosa di più vivace! »

« Innanzitutto, questo è Zuma, è uscito solo due anni fa ed è già un pezzo classico. Sarà il nome di Neil Young a essere ricordato fra quarant’anni, di certo non quel dannato gruppo caotico che fa metal chiamandolo musica. »

« Mia cara signora Du Lac, il tuo Neil ha appena pubblicato un fiasco. »

Gwen sbottò.

« American Stars ‘n Bars non è un fiasco! Sono stufa di tutte le critiche immotivate! »

Lancelot ritenne necessario intervenire.

« Calma, tesoro, non devi innervosirti. »

« Al diavolo! Eri tu che ieri sera piangevi ascoltando Star of Bethlehem o no? »

Lancelot, quindi, ritenne egualmente necessario escludersi dalla conversazione.

Merlin la spalleggiò, confessandole che anche Arthur aveva espresso pareri negativi sul nuovo album.

Gwaine era d’accordo.

« Per metà country ed il lato B fa venir voglia di tagliarsi le vene. Andiamo, non è proprio normale. »

« Non è che tu possa biasimarlo, no? Con tutti i problemi che ha. Prima la moglie, poi gli sono morti due amici… »

La testa di Leon scattò in alto.

« Chi è morto? »

« Il chitarrista dei Crazy Horse ed un certo Berry o Barry, non saprei. »

« Danny Whitten? Danny Whitten è morto? »

« Leon, ma dove vivi? »

Il ricciuto scoprì che non aveva una risposta. Si infilò una mano nei capelli, elaborando la notizia.
Gwaine non demordeva.

« Comunque, il vecchio Neil è uscito di senno. La copertina fa accapponare la pelle. »

« Parla quello che ascolta Alice Cooper. »

Leon ridacchiò, facendo spazio all’amico, che si accasciò sul divano.

Gwen dichiarò conclusa la discussione, mormorando qualcosa come « Neil è un Romantico e voi non lo capite ». Distribuì i bicchieri, aprendo una bottiglia di limonata e servendo tutti.

« A proposito! Come sta Elyan? »

« Oh, benone! È nel Maryland, questa settimana. Fotografa lemuri in uno zoo. »

Elena si mostrò interessata.

« Quando torna? »

« Penso che dopo i lemuri avrà parecchio tempo libero. »

Il giro di limonate continuava. Quando arrivò ad Arthur, sembrò ricordarsi di qualcosa.

« Oh, Arthur! Scusami, prima volevi dirmi qualcosa? »

Lui aprì la bocca, ma fu preceduto da Merlin, appollaiato sul bracciolo della poltrona in cui era accomodato Lancelot.

« Noi due stiamo insieme. Come coppia, intendo. »

Dopo, Gwen si sarebbe scusata centinaia di volte per quanto era successo, perché una ragazza incinta con della limonata in mano non dovrebbe mettersi a saltellare euforica come un’adolescente; e forse Freya avrebbe dovuto spiegare ancora perché era scoppiata a piangere, chiudendosi in bagno; magari Gwaine avrebbe dovuto chiarire il motivo per cui era scoppiato in un inaspettato « alla buon’ora! ».

Ma alla fine, contavano solo i sorrisi dei loro amici – amici.

Più tardi, dopo che Leon ebbe accompagnato Freya a casa, mentre Elena dormiva sbrodolando sul cuscino in finto cachemire del morbido divano di casa Du Lac-Smith con i piedi sulle cosce di Percy, Neil Young, rinvigorito dal dibattito, aveva iniziato a cantare, a farsi sciogliere sulla lingua parole che venivano direttamente dal cuore.

Gwen e Lancelot erano in piedi, l’uno aggrappato all’altra, a ballare lentamente.

Merlin si alzò, poggiando il bicchiere sul tavolino da caffè e spegnendosi la sigaretta nel posacenere, tendendo una mano ad Arthur, che sorrise e gliela strinse, sollevandosi.

Merlin premette la fronte nell’incavo del collo ed Arthur affondò il volto nei suoi capelli, le labbra contro l’orecchio – forse sussurrava, forse taceva e lasciava parlare Neil. Le dita di Merlin calde sopra la camicia, i suoi fianchi stretti e fragili fra le sue mani.

Pardon my heart if I showed that I cared, but I love you more than moments we have or have not shared.

Ecco, in quel momento, Arthur avrebbe giurato che la felicità aveva il sapore della pelle di Merlin, l’odore dei suoi capelli e la consistenza delle sue ossa e che indossava sempre un largo sorriso ed una sciarpa rossa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 









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Philadelphia, gennaio 1978
 

La sciarpa era caduta a terra, accanto al divano color crema.

Arthur la raccolse, accasciandosi di nuovo contro lo schienale. La ripulì minuziosamente, annusandola ancora per controllare se avesse preso l’odore di polvere e cera del suo parquet.

No, profumava ancora di fumo e cannella ed erba bagnata.

Evitò di alitarci sopra, ritrovando un minimo di lucidità.

Diede un’occhiata alla bottiglia ed imprecò sottovoce, il tono che raschiò in fondo alla gola, quando la vide vuota. Si tirò in piedi e raggiunse il minibar, le lucide ante in legno e gli intarsi pregiati, le maniglie d’ottone.

Un’altra Johnnie Walker, che si lasciò stappare facilmente e finì a riempire la sua bocca prima che l’aria si infiltrasse nella bottiglia.

Era una serata fortunata.
 
 
 
 
 
 
 










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Philadelphia, agosto 1977
 
 
« Merlin Emrys non osare uscire da quella porta! »

La frase fu spezzata dal rumore sordo della serratura. Arthur calciò via una sedia, che aveva commesso l’unico crimine di trovarsi nella sua strada.

Da due settimane era la stessa storia.

Non abitavano insieme, almeno non ufficialmente, ma Merlin passava tutto il suo tempo libero nell’appartamento di Arthur. Naturalmente, per lui non c’era alcun problema.

Ma Merlin era disordinato. L’aveva capito nel momento in cui aveva messo piede a casa sua, ma non si era mai reso conto di quanto problematico potesse essere convivere con qualcuno dalle abitudini tanto diverse.

Merlin non lavava mai i piatti né faceva il bucato. Non riaggiustava le lenzuola al mattino e lasciava i suoi jeans sul divano color crema.

Le cose avevano preso una piega abitudinaria – Arthur esasperato perché Merlin aveva lasciato l’accappatoio sul pavimento, Merlin che gli urlava che lui non metteva mai in secondo piano il suo lavoro, Arthur che gridava ancora più istericamente e Merlin che usciva sbattendosi la porta alle spalle.

Poi, Merlin tornava. A volte, Arthur era seduto alla scrivania davanti alle sue scartoffie. Spesso, lo trovava già a letto. In generale, lo baciava, arruffandogli i capelli, scusandosi. E la cosa finiva lì, in una nottata bollente sotto le coperte.

Stavolta, era iniziata diversamente. Era iniziata da Merlin, che aveva seccamente fatto notare all’altro quante ore stesse dedicando a quella nuova cosa sul lavoro e quanto poco tempo a loro due. Arthur aveva reagito come reagiva sempre – attaccando. Avrebbe dovuto tapparsi la bocca quando la mano di Merlin aveva iniziato a tremare, la rabbia che premeva per esplodere. Ma anche Merlin aveva reagito come reagiva sempre – evitando il punto di non ritorno.

Così, aveva lasciato Arthur a prendere a pugni il suo divano color crema, il senso di colpa che gli montava nel petto.
Sul bracciolo, abbandonata, c’era la sua sciarpa rossa – Merlin, nella fretta, l’aveva completamente dimenticata.


Lui sarebbe tornato, ma questa volta Arthur si sarebbe fatto perdonare.

Sapeva di non essere un gran cuoco, perciò si limitò ad ordinare dal takeaway  messicano preferito di Merlin, apparecchiando la tavola con dovizia di particolari.

C’era una tovaglia rossa, perché a Merlin piaceva il rosso. Rossa era la sua fedele sciarpa e rosse si coloravano le guance quando gli parlava seriamente, rossi erano state le vene nei suoi occhi di laureando, rosso era il modo in cui aveva descritto una volta il sesso e rossi i suoi frutti preferiti – le ciliegie. C’erano i piatti del suo servizio migliore, quelli bianchi – come la sua pelle, il suo sorriso, il suo candore – con rilievi lungo i bordi.
E c’erano candele, perché Arthur amava il modo in cui la luce tremolante baciava il volto di Merlin, accentuandone gli angoli e rivelandone alcuni segreti, nascondendone altri, facendogli splendere gli occhi e rendendo il suo incarnato di un prezioso dorato. Sì, le candele erano perfette.

Avrebbe indossato la polo blu che Merlin riteneva evidenziasse il suo corpo, richiamando il colore dei suoi occhi – e richiamando anche le iridi di Merlin, perciò più che adatta.

Estrasse con maestria un disco dalla sua custodia, appoggiandolo sul piatto. Frank Sinatra iniziò a cantare ed Arthur sentì già l’emozione entrargli nelle vene.

Ritenne di non avere tempo per una doccia, perciò si limitò a rinfrescarsi e a cambiarsi d’abito, senza preoccuparsi di mettere le scarpe.
Il campanello lo fece sobbalzare e corse alla porta.

« Ha ordinato messicano? »

Un ragazzino di circa quindici anni con i capelli lunghi fino alle spalle gonfiò una bolla con il chewing-gum e la fece scoppiare. Arthur gli rifilò una banconota da venti dollari e quello gli mise in mano il resto, porgendogli il sacchetto.

« Buonasera, sir. »

Arthur ricambiò il saluto e richiuse la porta, appoggiando la busta del takeaway sul ripiano della cucina.

Tornò in bagno a sciacquarsi di nuovo la faccia. Rientrando in salotto, diede un’occhiata all’orologio. Erano da poco passate le dieci di sera ed i rivoletti lucidi al di là della vetrata indicavano che aveva appena iniziato a piovere. Merlin era senza sciarpa e senza ombrello. Arthur controllò che almeno avesse ricordato di portarsi il suo portafogli – lo appoggiava sempre sul tavolo nell’ingresso. Non c’era e mancava anche il suo mazzo di chiavi, quindi si sarebbe rintanato in un locale, avrebbe ordinato una birra e l’avrebbe bevuta lentamente, le braccia sul bancone. Poi, intorno alle undici, sarebbe corso a casa, pronto ad abbracciare Arthur e a chiedergli perdono con quel suo tono al quale non aveva mai saputo resistere.

Arthur si accomodò sul divano color crema con un giornale in mano ed aspettò pazientemente, sobbalzando ad ogni tuono che rimbombava nel cielo.

Merlin sarebbe tornato. Questione di pochi minuti e sarebbe entrato silenziosamente, camminando in punta di piedi per non disturbarlo.

Pochi minuti.

Ancora qualche minuto.

Minuto dopo minuto, Arthur si addormentò, la testa che gli cadeva in avanti e le palpebre che faticavano a restare aperte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 








Quando il telefono squillò, Arthur gridò, preso alla sprovvista. Sollevò la cornetta, guardando l’orologio – mezzanotte e venticinque.

« Arthur Pendragon? »

« Sì, chi parla? »

« Dottor Jenkins, Willow Hospital. »

Arthur sollevò la schiena di scatto.

« Sì? »

« Sono spiacente di informarla che il signor Merlin Emrys ha avuto un incidente. »
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 









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I medici hanno quell’aria fasulla da chiromante lettrice di tarocchi, eppure sai che ogni parola che esce dalle loro bocche è la pura e genuina verità.

Era vero che un tassista completamente ubriaco si era lasciato scappare il volante ed era finito sul marciapiede, il muso della macchina spiaccicato contro la fiancata di una casetta indipendente. Era vero che Merlin Emrys, sotto la pioggia, non aveva fatto in tempo a scansarsi ed era finito fra il muro di mattoni ed il paraurti. Era vero che l’abitante della casa aveva chiamato i soccorsi e che il tassista era stato arrestato. Era vero che i paramedici erano stati eccezionali ed avevano fatto il possibile, ma, prima che l’autoambulanza frenasse davanti al pronto soccorso, l’ecg dava già suono fisso.

Forse, era vero anche quel mi dispiace ed era sincera perfino la compassionevole pacca sulla spalla.

Il fatto era che Arthur non vi fece caso.

Non fece caso a Gwen, che lo abbracciò e pianse silenziosa sulla sua spalla, né alle parole di conforto di Gwaine e Lancelot. Non fece caso nemmeno a Morgana, che gli prese il volto fra le mani e gli intimò di rimettersi in sesto.

Non vi fece caso; e fu stranamente facile.
 
 














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Non vide Hunith fino al giorno del funerale.

Si era preparato solo per lei, ma, da lontano, in quel completo nero e dietro la retina del suo cappello, vide qualcosa che lo stupì, vide un dolore che non aveva bisogno d’aiuto – ed Arthur la invidiò.

I funerali furono brevi ed uguali a tutti gli altri. Il cimitero era immerso nel verde e Merlin fu sepolto in una bara in legno chiaro, accanto ad un salice frondoso. Il prete aveva una voce irritante e monotona ed Arthur fu chiamato a ricordare a tutti i presenti quanto Merlin fosse di buon cuore, quanto avesse scaldato gli animi di chiunque l’avesse conosciuto e tante altre parole senza senso.

Hunith gli accarezzò un braccio e lui le baciò la guancia, cercando di sorriderle. Lei inclinò la testa e sembrava Merlin, sembrava lui ed Arthur voleva dare fuoco al mondo intero. Gli sfiorò la guancia e gli sorrise, le rughe attorno agli occhi lucide di un pianto che non avrebbe mai avuto fine.

« Non tenerti tutto dentro, figlio mio. »
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 










Ci furono saluti ed ultime condoglianze fuori dai cancelli ed Arthur guardò la strada, le mani nelle tasche.

Doveva tornare a casa, ma non c'era niente che volesse di meno di una casa senza Merlin.


Un passo dopo l’altro, Arthur iniziò a camminare. Era mattina inoltrata ed il sole splendeva fra le nuvole. Vedeva ragazzine che si abbracciavano piangenti sui muretti, quotidiani fra le mani e la foto di Elvis Presley in prima pagina – la morte del Re. Vedeva anziani che si grattavano la testa, guardandosi confusamente intorno.

Camminò per ore, camminò per sempre, fino a consumarsi le suole. Camminò fin quasi alla periferia, le urla gioiose di un bambino che lo riscossero momentaneamente dal suo torpore.

Il Mayflower Green.

Immerso nella luminosità di agosto, famigliole allegre su tovaglie a quadretti rossi, cestini da picnic e polpettoni di carne. Una folla inusuale per un martedì mattina.

Una bambina dai riccioli dorati si aggrappò alla ringhiera, fissandolo con gli occhioni verdi.

Arthur entrò, con passo lento. Lasciò che il sole scaldasse le sue ossa, lasciò che i giochi dell’infanzia spensierata lo condizionassero, gli influenzassero l’umore.

C’era un gazebo ed il fantasma di un ricordo.

E, più in là, a riparare una coppietta di adolescenti, un salice, i rami che ondulavano, accarezzati dal vento.

Non si era accorto di essere caduto, in ginocchio sul prato, le dita sull’erba, la fronte premuta contro il suolo.

Aveva urlato ed un neonato era scoppiato a piangere.

Arthur continuava ad urlare e malediva l’erba e la pioggia ed il fumo e la cannella.

Urlò, fino a che la voce non gli sbiadì fra le labbra, la realtà che gli scivolava fra i polpastrelli.

Forse svenne, ma non importava.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 







**
 
 
 










 
Philadelphia, gennaio 1978
 
 
Il contenuto della nuova bottiglia di whisky era arrivato all’etichetta.

Arthur si sentì fiero di se stesso e sapeva che Johnnie Walker era soddisfatto.

Fu un sussurro o un formicolio lungo la nuca.

Si voltò, gli occhi velati di lacrime – e sorrise.

Merlin era lì, accanto a lui. Sembrava trasparente, il divano color crema che sbucava fuori dal suo petto. Al collo, sbiadita, aveva la sua sciarpa rossa – ed Arthur dovette controllare di averla fra le mani, solida e bruciacchiata. Sulla guancia, un livido bluastro sbatteva contro il suo pallore, le occhiaie scavate.

Arthur sorrise, inspirando il suo profumo – era lo stesso, immutato – ed i muscoli del viso gli dolevano, perché erano mesi che non sorrideva.

Johnnie Walker scosse la testa. 

« Tu lo sai che lui non è veramente qui. »

« Non importa. »

Perché la felicità aveva l’odore di fumo e cannella ed erba bagnata ed indossava una sciarpa rossa.

Tutto il resto non importava.
 
 
 
 
 
 
 

 




























































 
Nda


 
Ehi ehi ehi! Siete arrivati fin qui! Un biscotto per voi!

Ok, lo sapete ormai che io vivo per l’angst, giusto? Bene, perciò non siete tanto sorpresi, giusto? Vi aspettavate questo finale, giusto?

Beh, tant’è.
C’ho messo ben due giorni a scriverla e mi fanno male le dita – è una di quelle che escono direttamente al pc, anche se avevo buttato giù uno schema su carta circa un mese fa.  

Iniziamo col dire che gli anni Settanta di certo non mi appartengono – voglio dire, non ero manco in cantiere a quel tempo! Ne so di quel periodo e di quest’ambientazione quanto ne so del “Teorema della corda” – ovvero, se il mio costante 4 al liceo costituisce una qualche prova, zero assoluto. Mi sono principalmente attenuta al sentito dire e a qualche vaga ricerca cinematografica. Di certo non ho idea di come fosse la vita a Philadelphia (eccezion fatta per quello che ho appreso dall’omonimo film con il mio Tommy e con il tizio che si è ridotto a parlare con le galline, ma ammetto di non aver fatto molto caso alla città – e poi erano gli anni 70?).
Però, sapete com’è, no? Mi hanno chiamata. Non sono io che ho scelto tutto questo, ma è la storia che è venuta a me – e non potevo ignorarla.

Comunque, a quelli che stanno aspettando gli aggiornamenti delle mie long (Comptine e Sober): non le ho dimenticate. È solo che sono un po’ giù in questo periodo e non mi va di pregiudicare la riuscita di un capitolo (per giunta, l’ultimo di Sober è parecchio importante) solo perché sono momentaneamente a terra.
Spero vogliate perdonarmi. Ho già perso dei lettori e mi piange il cuore, ma non posso biasimarvi. 

Altra precisazione. Non mi sono votata alle AU. Il fatto è che questi due stanno troppo bene in qualunque ambiente e mi sembra limitativo lasciarli nel loro periodo canon.

(giusto per intenderci, ho in cantiere un’idea che è da pazzi e senza alcun senso. Se incrociamo le dita, entro due giorni dovrebbe essere conclusa. E sperate di non doverla mai leggere. È assurda.)

Spero vi sia piaciuta. Spero non sia stata una palla assoluta.

Fatemi sapere, eh! Alla prossima!




   
 
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