Cap. 26
Quando Valerio mi fece l’ennesima chiamata avvisandomi riguardo il suo arrivo
imminente, non mi sentivo tanto bene. Il giorno prima avevo avuto la febbre,
anche se non troppo alta, ma non ci avevo fatto troppo caso, ed ero comunque
uscito a fare la spesa, ché ci tenevo a fare una sorpresa a Valerio quando
sarebbe tornato – Bonatti aveva ragione: ero nella
merda. Quindi avevo ignorato la temperatura salita leggermente la sera, perché
la febbre la sentivo solo quando era piuttosto alta. Stranamente, avrei detto,
visto che mi consideravo uno dal fisico deboluccio. Probabilmente il giorno
dopo avevo avuto decimi di febbre sino al pomeriggio tardi e, impegnato com’ero
stato a preparare una cena coi fiocchi, non me n’ero neanche accorto. Ma adesso
che era già sera, la tavola apparecchiata con tanto di tovaglia e tovaglioli
rossi e dorati in perfetta atmosfera natalizia – e anche un paio di candele per
rendere la stanza più accogliente – sentivo la stanchezza della giornata
acquistare il doppio del peso e gravarmi sulle spalle come un macigno.
Quando suonò il citofono, controllai per l’ultima volta che tutto fosse in
ordine e, dopo aver aperto il portone, mi assicurai di aver già spento il forno
e di aver messo in frigo i dolci. Poi mi appostai all’entrata dopo aver aperto
la porta, addosso l’ansia del primo appuntamento. Sentii il suono frenetico dei
piedi di Valerio che salivano le scale e
un “Mi scusi!” mortificato ma poi non così tanto quando superò la mia vicina
che pure stava salendo le scale per rientrare a casa. Quando mi vide lì
piantato sulla porta, il ragazzo non ci pensò due volte prima di saltarmi
addosso, le gambe avviluppate al mio busto, lo zaino da esploratore che
raddoppiava il suo peso.
«Ciao!» si limitò ad esclamare, mentre io ero lì lì
per stramazzare a terra. La vicina non era ancora entrata in casa, ovviamente
incuriosita dalla scena, e quando Valerio riappoggiò i piedi a terra, le
braccia ancora appese al mio collo, e si sollevò leggermente sulle punte per
lasciarmi un bacio sulle labbra, la vidi sbiancare.
«Entriamo, è meglio,» gli bisbigliai sulla bocca, mentre quello si allungava
per altri baci, completamente dimentico della vicina dietro di noi, gli occhi
sbarrati e la bocca semiaperta, la mano che minacciava di lasciar andare la
busta della spesa. Quando finalmente Valerio realizzò, si voltò verso la porta
accanto alla nostra, guardò la donna del tutto paralizzata - di certo non
respirava, non muoveva un muscolo, non batteva
le palpebre -, fece un suono con le labbra, poi mi picchiettò con la
mano aperta sul petto incitandomi così ad indietreggiare in casa, e lui mi
seguì in silenzio per poi chiudere piano la porta, quasi avesse paura che un
suono poco più forte potesse dare il colpo di grazia alla vicina.
Una volta dentro, Valerio mi rivolse uno sguardo da “Credo di averne combinata un’altra delle mie, scusa”, e io scossi
la testa, pensando al fatto che non avevo né voglia di arrabbiarmi, né voglia
di pensare alla vicina. E poi, che me ne fregava? A momenti neanche la
conoscevo. Il fatto che non ricordavo il nome non faceva che darmene la
conferma.
«Bentornato,» gli dissi semplicemente, con un sorriso che aveva già perdonato
il suo atto avventato. «Togli lo zaino. Non hai già mangiato, vero?» gli chiesi
mentre lo aiutavo a spogliarsi, chiedendomi come facesse ad essere così
energico dopo un viaggio in aereo. Io, per quelle poche volte che avevo
viaggiato in aereo, ero stato prossimo allo svenimento ogni volta.
«Veramente contavo di mangiare con te. Ti ho portato dei dolci,» e si mise a
frugare nello zaino poggiato sulla cassapanca lì all’entrata. Notai che aveva
dato un taglio drastico ai capelli, e adesso non andavano più per conto loro se
muoveva la testa. Stavano lì fermi, ma comunque tirati all’insù come al solito.
Sapevo che non usava né cera, né gel, né qualunque altro prodotto per capelli:
doveva essere l’elettricità nel suo corpo a spararglieli sempre in aria in quel
modo.
Finalmente trovò il pacchetto di dolci – bianco a cuoricini colorati – e me la
consegnò arrossendo leggermente.
«Sono tipici di giù,» mi informò, le mani intrecciate dietro la schiena.
«Oh, gra-»
«Ti vuoi mettere con me?»
Se ne uscì così, all’improvviso. Le braccia si muovevano, segno che le mani li
dietro si torturavano l’una con l’altra, mentre lo sguardo tentava alla bell’e
meglio di fuggire e nascondersi.
«…Eh?»
«Ci mettiamo insieme?»
Quando mi resi conto che la domanda non era stata solo una mia immaginazione,
mi saltò un colpo al cuore e portai istintivamente una mano sul petto.
«Noi stiamo già insieme,» gli feci notare, il respiro corto.
«Ma… quella cosa ufficiale…»
«Prima mangiamo, vuoi?» gli proposi, ché, davvero, in quell’angusta entrata
rischiavo di soffocare. Lui rilassò le braccia e, dopo aver assunto
un’espressione imbarazzata, allungò le mani sui miei fianchi e si alzò
leggermente sulle punte cercando la mia bocca. A malincuore, dovetti fermarlo
ponendogli la mano sulle labbra. «Non lo farei, se fossi in te. Ho un po’ di
febbre».
«Lo sapevo che eri pallido per un motivo!» esclamò quello tastandomi con un
indice la guancia libera dalla barba. Quel tastarmi non fece che trasformarsi
in una carezza e io, sul serio, alle sue carezze non riuscivo a resistere. Le
sue mani erano più fresche, visto che veniva da fuori, e fu un sollievo
sentirle sulla pelle che scottava.
Quindi alla fine lo baciai lo stesso, anche piuttosto insistentemente, le
bocche che si mangiavano a vicenda, l’aria che non riusciva a passare e non ci
permetteva di respirare, lo spazio ristretto che di certo non ci aiutava. Avevo
brividi di freddo spaventosi su tutto il corpo, eppure quello era il bacio più
bollente e famelico che, probabilmente, ci fossimo mai dati. E, sarà stata
l’intensità del bacio, o l’aria mancante, o molto più semplicemente la febbre,
non ci volle molto perché barcollassi, a un passo dallo svenire.
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«Guarda che riesco a stare in piedi. E’ stato solo un leggero giramento di
test-»
«Tu non ti alzi da qui,» mi interruppe Valerio col tono severo delle mammine in
pensiero, e mi rimboccò per l’ennesima volta le coperte, come se nella camera
da letto ci fosse una bufera di neve in corso e lui dovesse proteggermi a tutti
i costi.
«Ho preparato tutta quella roba… Andiamo a mangiare e
dopo mi stendo di nuovo,» gli dissi quasi piagnucolando al pensiero del tempo
impiegato per fare il polpettone. Io che non cucinavo da mesi, e che
sinceramente non ero questo gran chef.
«Deciderò io cosa fare dopo che ti sarai misurato la febbre,» disse serio serio mentre apriva la scatoletta contenente il termometro.
Lo scaricò muovendo il braccio a scatti e me lo porse. «Sei stato dolcissimo a
prepararmi la cena, io, davvero, non mi sono mai sentito tanto amato, ma in
questo momento sono più preoccupato per la tua salute,» mi informò dopo essersi
assicurato che mi fossi infilato il termometro sotto l’ascella.
«Ma non sto per morire!» gli feci notare sollevando la parte superiore del
corpo per mettermi a sedere, ma lui mi spinse nuovamente sul cuscino.
«Vado a prenderti qualcosa di fresco da mettere sulla fronte e… che pillole prendi di solito?»
«No, non ci siamo capiti. Se devo starmene steso a letto, tu non ti devi
muovere da qui. Non ti vedo da più di due settimane, adesso non voglio perderti
di vista neanche per un istante,» gli dissi pizzicandogli la pelle del braccio,
e lui fece un mezzo broncio prima di sedersi sul materasso.
«Ti seccano le persone premurose, ho capito».
Non risposi alla sua domanda indiretta, perché era vero che sopportavo a fatica
i premurosi, e mi limitai a sorridere, le membra bollenti, gli occhi che
facevano male ogni volta che li sollevavo per guardare in faccia il ragazzo.
«Stai bene con questi capelli,» mi complimentai per la scelta del taglio mentre
gli carezzavo il braccio, e lui con un “Dici?” sembrò arrossire nuovamente,
anche se non ne avevo l’assoluta certezza, visto che con la febbre, seppur
leggera, avevo una visione distorta del mondo. Magari i capelli non se li era
neanche tagliati e mi stavo immaginando tutto, ne ero ben capace.
«Non ci credo, è ancora lì,» esclamò Valerio quando s’accorse del filo rosso
ancora legato al dito.
«Visto?»
«Mi stupisci,» confessò mentre ci passava sopra il pollice. «Adesso puoi
toglierlo, però. In effetti dà fastidio anche a me quando mi lavo le mani,» e
tentò di slegare il nodo del filo, ma io ritrassi la mano e mugulai
come annoiato.
«Stenditi, ché mi stanco a tenere il collo sollevato per guardarti in faccia.
Tanto probabilmente ti ho già regalato il virus e domani sarai anche tu
costretto a letto,» diedi una pacca al materasso accanto a me. «Così mi
racconti le tue vacanze natalizie».
«Va bene, mamma,» annuì e fece il giro
del letto per poi accoccolarsi tra le coperte, tirando subito dopo un sospiro
di sollievo, quasi aspettasse da tempo di riposare nuovamente su quel
materasso.
E ci raccontammo davvero le rispettive vacanze, in modo dettagliato, senza
omettere alcun particolare. Lui mi disse di aver avuto il fiato di suo padre
sul collo 24 ore su 24, che gli aveva permesso solo una volta di vedere i suoi
amici – aveva dovuto invitarli a casa a prendere il tè – e che a momenti non lo
accompagnava neanche dagli zii. Non era una forma di punizione però, mi disse
ancora, ma una sorta di perfettamente comprensibile possessività. Bruno amava
suo figlio, e voleva tenerselo ben stretto almeno per quei pochi giorni. E magari
evitare che parlasse di continuo con me, giustamente.
Poi mi raccontò di suo zio, o più precisamente, del marito di sua zia, e di
come fosse convinto da anni che Valerio avesse una ragazza e di come gli
regalasse sempre manciate di
preservativi perché “Non si sa mai che
n’estate rrii cu nu piccinnu an brazze
e sinti ancora vagnunceddhu”.
Valerio gli diceva ogni volta “Zio, non
c’è pericolo, io sono…”, ma quello, ancor prima
che il nipote finisse di parlare, gli chiudeva la mano con dentro i preservativi
e poi gli dava pacche sulle spalle: “La sacciu ca sinti
prudente e giudizioso, ma credi a zio, usa questi e stai apposto, mh?”
«Vorrà dire che lo accontenteremo,» gli dissi carezzandogli la guancia col
dito. Lui fece un sorriso sghembo e nascose la faccia nell’incavo del mio
collo.
«Scotti come l’inferno,» commentò passando un orecchio fresco sulla parte più
calda del mio collo e lanciandomi un brivido su tutta la schiena.
«Hai già avuto un assaggio dell’inferno?» gli chiesi, e mi resi conto che quei
brividi erano tutt’altro che fastidiosi: mi instillava il piacere carnale che
soleva prendermi ogni qualvolta mi ritrovavo a contatto con Valerio. Ma quella
volta, la voglia di sentirlo contro di me, fresco come l’aria di gennaio, era
davvero troppa. Volevo starmene inerme sotto di lui, che passava una mano su
ogni mio centimetro di pelle marchiandolo col tocco freddo.
«Diciamo così,» fece lui, un retrogusto leggermente malinconico. Parlando
d’inferno gli venne in mente qualcosa, e si appoggiò sui gomiti parlandomi da
vicino. «Prima che rincomincino le lezioni andrò a trovare mio fratello.
Verresti con me?»
«Lo sai che gli ospedali non mi-»
«Voglio fartelo conoscere. E voglio che lui conosca te. Anche se ho paura che
mi tradirai con lui, è cento volte più attraente di me,» mi disse con una
smorfia infastidita, e io mi dissi che non andare a trovare suo fratello perché
non mi piacevano gli ospedali sembrava piuttosto una banalissima scusa.
«In effetti credo di aver bisogno di scambiare due parole con mio cognato,» dissi
quindi, accettando finalmente la sua proposta. Lui mi ringraziò abbassando
leggermente le palpebre, e si allungò a baciarmi sul mento. Restò fermo su quel
punto e poi iniziò a dare piccole lappate, sperando che io m’abbassassi e gli
lasciassi libero l’accesso alla bocca. Lo sentii emettere un sospiro frustrato
non glielo permisi, l’accesso, e invece di salire, scese sul collo appena
privato della barba, strusciandosi indecentemente contro la mia gamba tra le
sue. «Vuoi farlo, vero?»
Lui deglutì e annuì ripetutamente, gli occhi velati di lussuria e impazienza,
il respiro già affannoso.
«Ce la fai?» mi chiese, ancora così preoccupato per quella mia febbricciola da niente.
«Non credo,» mentii facendolo aderire ulteriormente alla mia gamba. «Ma tu sì. E
anche io voglio farlo, ho aspettato troppo a lungo».
«Che vuol dire “Ma tu sì”? Non vorrai che sia io a-»
«Solo quando l’avrai fatto staremo ufficialmente insieme,» inventai qualcosa
per convincerlo a prendere in mano le redini, almeno per una notte. Mi resi
conto che solo in quel modo mi sarei davvero sentito cosa sua, e ci avevo
pensato per tutte le vacanze. «Così potrai scriverlo anche su facebook,» risi, e quello era così immerso nel pensiero
della mia frase appena precedente, che si trovò un attimo spaesato.
«Io… cosa?»
«Perché ti fai tanti problemi? Non me ne sto facendo io!» gli feci notare, e
quello fece una faccia da “Lo sapevo che prima o poi sarebbe arrivato questo
momento”. Intrecciò una mano alla mia e prese un finto respiro profondo, perché
sì, se lo aspettava, glielo leggevo negli occhi socchiusi. E non ci mise molto
a convincersi che l’avrebbe fatto, questa volta.
«Er… Okay…» assentì, la
mano che già scorreva sul mio addome. Ma per quanto si fosse preparato
all’avvenimento, si dimostrò comunque un imbranato a metà. Un adorabile
imbranato. Mi chiese se poteva togliermi le coperte di dosso e se per caso
sentivo freddo. Io gli dissi che poteva fare quello che credeva, quindi lui,
premuroso sino al midollo, abbassò la coperta sino a sotto l’inguine, lasciando
ben coperte le gambe, che non fecero che sudare per tutto il tempo. Mi baciò
attorno all’ombelico mentre tastava con insistenza in mezzo alle gambe, bramoso
di potersi finalmente riempire la bocca, dopo settimane di frustrante attesa. O
almeno, questa era la mia sensazione mentre lo sentivo respirare forte sui
boxer che spuntavano appena dai pantaloni. Mi sbottonò i jeans con attenzione, poi me li
stropicciò sulle gambe e li lasciò lì sulle caviglie, mentre si contorceva
tutto su un solo punto del mio corpo, ci si chiudeva a riccio, le membra che
fremevano quasi più delle mie.
«Però dopo mi scopi tu, okay?» chiese a un certo punto con la lingua
indolenzita a causa del continuo leccare, rompendo inevitabilmente l’atmosfera.
«Dipende da quanta febbre ho. E ti ho detto che non mi piace quando usi quei
termini,» risposi secco, più che altro per gli ansiti che tentavo di
trattenere. Lui tornò col capo tra le mie gambe borbottando un “Vecchio
caprone” e solo in quel momento prese a succhiare forte, quasi a farmela pagare
per avergli risposto male. E, come se non fosse abbastanza, appena mi lasciavo
andare a sospiri più rumorosi e a movimenti del bacino che mi permettevano di
sistemarmi meglio nella sua bocca, quello sollevava il capo e smetteva di
lavorarmi, guardando compiaciuto come tendessi il bacino bisognoso in avanti,
frustrato di quelle interruzioni improvvise.
«Che carino,» e mi rise sul pene. Una risata che alle mie orecchie arrivò
erotica, ma parecchio, e il che non m’aiutò, perché quello era impegnato a
ridermi in faccia piuttosto che continuare quello che stava facendo. Ora capivo
come si sentiva lui ogni volta che mi comportavo allo stesso modo, che mi
fermavo a guardare le sue espressioni mentre la mano che lo masturbava rallentava
inevitabilmente.
Ma almeno adesso sembrava essere entrato nello spirito giusto.
«Te l’ho già detto che hai il cazzo più bello che abbia mai visto, o toccato, o
succhiato?» mi chiese retoricamente mentre mi guardava il membro dal basso,
quasi stesse osservando meravigliato chissà quale opera d’arte.
«Mi raccomando, continua a riportarmi alla mente il tuo passato da risucchia-tutto. Soprattutto adesso. Mi raccomando,» gli
dissi tutto dolorante, e andai inconsciamente a posargli la mano pesante sul
capo, facendo poi una leggera pressione in modo che continuasse quello che
aveva interrotto. Ma lui a quel punto si alzò e frugò nel cassetto del comò in
cerca del lubrificante. Prese anche un preservativo e lo sventolò come fosse una bustina di
zucchero. E io che me ne stavo lì disteso supino a soffrire.
«Con o senza?» chiese semplicemente, e sembrava tranquillo e compassato, ma la
guancia gli tremava, e il cavallo dei pantaloni era straordinariamente
rigonfio. Che è, gli era cresciuto durante le vacanze di Natale?
Non gli risposi, ma gli feci segno con la mano di avvicinarsi al letto, come i
malati terminali che vogliono dire l’ultima parola al proprio erede. Lui mi
raggiunse mettendo a fatica una gamba davanti all’altra e nel mentre si sfilò
la felpa pesante, lasciando che i primi brividi andassero ad occupargli le
braccia. Aprii la mano in attesa del preservativo, e lui me lo diede non senza
uno sguardo di disappunto. Ma parlò solo quando gli sbottonai i pantaloni e
aprii il quadrato di carta coi denti.
«Guarda che lo so mettere anche io,» disse allungando la mano per riprendersi
il preservativo.
«Lo so, ma non vorrei che facessi il furbetto,»
«In che modo, sentiamo,»
«Magari facevi finta di mettertelo e poi invece lo rifilavi a me,»
Lui stette zitto per qualche secondo col fiato sospeso – e io avevo l’erezione
lì sotto che non ce la faceva più -, poi si mosse e mi aiutò a tirargli giù
pantaloni e boxer.
«Ti pare che vado ad architettare certi stratagemmi?» chiese tutto serio, segno
che sì, ci aveva fatto un pensierino. Sorrisi tra me, poi scartai il
preservativo, e lui guardò altrove mentre glielo infilavo con cautela, entrambi
rossi in faccia per la posizione in cui eravamo. Non era ancora capitato che io
me ne stessi steso e lui in piedi accanto a me, la sua nudità a pochi
centimetri dalla mia faccia.
«Lo so mettere meglio io,» mi comunicò per poi scavalcarmi bellamente
rischiando di darmi una ginocchiata nei gioielli di famiglia. Emisi un gemito
di dolore.
«Ti ricordo che ho la febbre e che…» mi interruppi,
le mani chiuse a coppa sul mio povero membro che non ne voleva sapere di
rilassarsi.
«Che…?» mi incitò lui, sistematosi a cucchiaio dietro
di me, il preservativo viscido che lasciava tracce sulla pelle, in una
sensazione non del tutto piacevole, mai provata in vita. Forse ero davvero
destinato ad essere io l’attivo.
«L-lascia stare»
«Guarda che non me ne sono dimenticato,» disse poi, un soffio dietro il mio
orecchio, le mani che si posavano sulle mie a coppa e le allontanavano
lentamente, non facendo altro che aumentare la mia frustrazione. Quindi prese a
toccarmi lui, portandomi in breve tempo nuovamente a quel limite per il quale
riuscivo a emettere suoni che andavano dai guaiti di cani feriti, al piagnucolìo dei bambini, al miagolare dei gatti.
«Va bene…» dissi quando sentii di esserci quasi.
«Va bene cosa?» fece lui divertito, contento di potermi stuzzicare come io
facevo con lui.
«Va bene, puoi andare. Devi andare,
non ho voglia di venire in questo modo,» risposi, ché lo sentivo già vicino
alla mia entrata, che scivolava tra i glutei. Lo sentii soffiarmi nuovamente
sul collo, poi poggiò la fronte alla mia schiena, si aggrappò con un braccio
alle mie spalle e con l’altro si guidava, sperando che questa volta andasse
meglio della prima.
Fu quasi un disastro, in realtà. Sentii più dolore di quanto m’ero aspettato –
l’avevo detto che gli era cresciuto il pacco – e lui era stanco di spingere a
metà dell’opera. Non riuscì a toccare la prostata, quindi tutto ciò che
ricevetti fu dolore acuto, come se mi stessero strappando le membra. Ma venni
comunque, ché era impossibile non venire con quella voce rotta che ti ansima
nelle orecchie.
«Aspetta, aspe-» mi pregò dopo aver notato il mio
orgasmo, ché lui doveva ancora arrivarci. Stanco contro la mia schiena, la
bocca aperta che però non raccoglieva aria, si limitava a strusciare il membro
dolorante sulla gamba. Stavo per allungare la mano per aiutarlo, ma venne da
solo subito dopo, riprendendo finalmente a raccogliere aria nei polmoni, in
respiri lunghi ma spezzati. Giurai di poter sentire da quella distanza il
battito del suo cuore.
«…Non è andata troppo bene, vero?» fece lui dopo
minuti di silenzio, la fronte sudata contro la mia schiena e le braccia
avviluppate alla vita.
«A ripensarci, credo che mi piaccia più stare sopra,» ammisi, provocandogli una
risata sollevata.
«Come ti senti?»
«Non sono del tutto in forma. Ma mi dispiace non mangiare il polpettone,»
«Pensi ancora al polpettone tu?!»
«Ho fame!»
Mi tirò un pugnetto sulla schiena, disse “Va bene, ho
capito,” e rotolò giù dal letto preparandosi per una doccia calda. Mentre io
pensai al fatto che, per quanta fame avessi, non ero ancora in grado di
mettermi a sedere, figuriamoci di alzarmi in piedi.
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Argh,
non sono in grado di descrivere rapporti sessuali inversi (?). Valerio è un passivone, non ce lo posso vedere così lol,
ma era necessario un tentativo da parte sua. Spero sia stato comunque di vostro
gradimento.
Le frasi in corsivo dette dallo zio sono in dialetto leccese (la mia terra
<3): “Non si sa mai che un’estate arrivi con un bambino in braccio, e sei
ancora ragazzino”. “Lo so che sei prudente e giudizioso, ma credi a me, usa
questi e stai a posto, mh?”
Chiedo perdono per il ritardo, ma avevo un calo d’ispirazione. Non solo per
Inerzia, ma per qualunque cosa. Ci sono periodi in cui scrivo a macchinetta,
una shot ogni due giorni, drabble,
olé, chi più ne ha più ne metta. E periodi in cui
vorrei solo guardare la tv. Che noia, eh? Sì, lo so.
Il prossimo capitolo sarà l’ultimo, sperando di aver fatto bene i calcoli.
Alla prossima :)
Mirokia