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Autore: Grey    08/04/2013    2 recensioni
Due fratelli che non si conoscono, vari destini che si intrecciano, una leggenda che avvolge tutto ed un lungo viaggio di sfondo.
Scrivo perchè mi piace, e spero che ciò che invento piaccia anche a voi.
Sarei felice di ricevere commenti e critiche di tutti i tipi così da poter migliorare il mio operato!!
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tutto ebbe inizio in una sera d'Autunno. Le ultime foglie stavano per staccarsi dai rami per lasciarsi cullare dal vento invernale che oramai bussava alle porte. I paesaggi erano come dipinti da un pittore pazzo che nell'intento di mischiare i colori sulla sua tavolozza ha ottenuto una miscela perfetta con la quale ha pitturato foglia per foglia e nuvola per nuvola rendendole tutte uniche, diverse fra loro. Gli abitanti della città di Kober iniziavano a rincasare, scappando dalle ombre portate da una sera calata troppo presto.
Di tanto in tanto spuntava una piccola lanterna fuori da case e locande ad illuminare la strada per permettere ai pochi girovaghi di ritrovare la via del ritorno.
Il sole stava emanando i suoi ultimi raggi colmi di tiepido calore quando una donna spirò dando alla luce due bambini.
Erano dei bambini bizzarri. Non assomigliavano né al padre, né tanto meno alla madre.
Uno aveva i capelli dello stesso colore del fuoco che ardeva nel camino, ormai perennemente acceso per il freddo, e gli occhi neri come il buio che imperterrito giungeva, l'altro portava i riflessi del ghiaccio nei capelli e le sfumature più affascinanti dell'oceano negli occhi. Sebbene fossero completamente diversi, vi era una strana cosa ad accomunarli, una sorta di voglia sul polso, che passò però in secondo piano dinnanzi a queste loro strane caratteristiche.
Poco prima di morire, la donna sussurrò le sue ultime volontà allo sposo che, in preda alle lacrime, si prestò ad ascoltarle.
«Caro, ti prego, ascoltami con attenzione.» Disse dolcemente carezzandogli una gota.
«Questi bambini sono il frutto del nostro amore, abbine cura, trattali con riguardo e da loro tutto ciò di cui avranno bisogno.» Una lacrima le rigò il volto seguendo i perfetti lineamenti fino a cadere nei lunghi capelli scuri. «Io non potrò vederli crescere, non sentirò le loro risate, non assisterò alla loro vita... Ma tu si, quindi, tratta loro come tratteresti la cosa più preziosa ed importante in tuo possesso.»
«Te lo prometto.» Disse baciandole con tenerezza la fronte e poi continuò. «Cara, dimmi, quali sono i nomi da te scelti per i futu...» La frase fu interrotta dall'arrivo di una domestica che, mortificata e arrossita, si affrettò a recuperare delle stoffe e ad uscire dalla stanza.
Una leggera risatina accompagnata da una voce flebile uscì dalla bocca della morente che disse indicando il bambino dai capelli bianchi: «Lui si chiamerà Noah» e, indicando l'altro, aggiunse «Lui, invece, Jake.» Fece una breve pausa. «Cosa ne pensi?»
«Penso che siano perfetti» rispose con un sorriso triste e malinconico.
L'amava come si ama la persona con la quale si desidera invecchiare. Avrebbe dato la vita per poter salvare quella donna, gliel'aveva giurato il giorno delle nozze. Aveva anche promesso di proteggerla da ogni male, di starle sempre accanto qualunque cosa fosse successa.
Si ricordava di quel giorno, adesso. Quel giorno pieno di gioia. Quel giorno tanto atteso. Il giorno più felice della sua vita. E adesso, cosa stava accadendo? Non era stato in grado di mantenere la sua promessa. Era lì, sempre più vicina alla morte, e lui non poteva fare niente, se non starle vicino. «Inutile», pensava. Mentre le stringeva la mano si accorse che, anche se lentamente, la stretta si stava allentando.
Quando non sentì più il suo respiro, scoppiò in un pianto a dirotto, stringendo forte a se il corpo immobile.
Le domestiche accorsero numerose, addolorate e cupe. Coprirono la sagoma con un telo e lasciarono i bambini e loro padre soli, a dare l'ultimo addio a colei che ha perso la vita per darne.

La stanza sembrava vuota. Vi erano una vecchia libreria piena di tomi polverosi altrettanto vecchi, una piccola seggiola e un tavolo sul quale una candela esalava i suoi ultimi respiri. L'unica fonte di luce era quella proveniente dal camino, situato in un angolo della camera. Con il suo calore, quest'ultimo riusciva a riscaldare tutto tranne l'animo del misero uomo che si sentiva come se tutto quello per cui avesse lottato gli fosse stato tolto così velocemente da non rendersene conto.
Con fatica, cercò di fermare le lacrime e, non appena ci riuscì, guardando e accarezzando il corpo inerme della moglie fu in grado di dire solo una parola prima che le lacrime tornassero e prendessero il sopravvento su di lui. «Perché?»
Piombò il silenzio assoluto. Gli unici rumori che si sentivano erano gli scoppiettii dei ceppi di legno nel camino e le voci lontane delle domestiche che diffondevano la notizia dell'accaduto. Ad un tratto, il silenzio fu rotto dalle risate di un bambino, Jake. Dalla culla dov'era scrutava con sguardo vispo e curioso il padre che lo prese in braccio e lo abbracciò. Ripeté la stessa cosa anche con Noah, il quale nel frattempo si era addormentato.
Seppure a malincuore, abbandonò la stanza per permettere alla servitù di riordinare portando con se i due figli. Attraversò il corridoio che conduceva alle camere da letto fino a giungere nella stanza destinata ai bambini, la quale, dotata solo di un giaciglio per dormire, di un paio di sgabelli scricchiolanti e di una scrivania polverosa, era da assestare.
Calarono definitivamente le ombre ma né loro né il buon vino, che ora si vedeva dimezzato, riuscirono a portare il sonno nelle sue braccia.
Osservava attento e perplesso la sua prole. Non riusciva a spiegarsi il perché delle loro sembianze. «Quando mai si è visto un neonato dai capelli bianchi?»
Li osservò ancora e ancora fino a che i suoi pensieri non furono interrotti dall'arrivo di colei che avrebbe avuto il compito di accudirli da lì in avanti: la balia Aìda.
«Mio signore.» Disse con tono rispettoso e facendo una reverenza al suo arrivo. Dotata di spirito giovanile, pasciuta e quasi in miniatura, aveva le guance rosse quanto mele. Era una persona ilare e verace. Era sempre sorridente e sprizzava allegria in qualunque momento. Era al servizio della famiglia da quando il capo di questa era ancora un ''bamboccio'', come era solita definirlo, e fin da subito era stata accolta a braccia aperte.
Si tirò su la lunga veste che, essendo troppo grande , sfiorava il pavimento.
Avvicinatasi all'uomo gli si accostò, si sedette accanto a lui su uno sgabello di legno che sembrava fatto su misura tanto era piccolo e cercò di rincuorarlo. «Mio signore, sono addolorata per la vostra perdita. So bene quanto voi teniate a lei e, mi creda, con la sua morte è andata via anche una piccola parte di tutti noi. Sappiate che il vostro dolore appartiene anche a me e che, per quanto possa esservi utile, avete tutto il mio sostegno.»
Con sguardo grato per le sue parole, l'uomo le rispose cercando di non sfoggiare in comportamenti puerili: «Se potessi paragonarlo a qualcosa, cara Aìda, lo paragonerei ad una ferita profonda inflitta da una lama ardente.»
«Tutte le ferite con il tempo si rimarginano. Ne rimarrà la cicatrice, questo e' vero, ma, almeno, smetterà di sanguinare.» Rispose pronta.
«Anche le cicatrici possono nuocere.. Ogni qualvolta ch'io la guarderò, ripenserò a lei. E ogni volta ch'io ripenserò a lei, la cicatrice inizierà a bruciare come se il taglio mi fosse stato appena inferto.» Disse aggiungendo un lungo sospiro alla fine, trattenendo le lacrime.
Quasi cambiando atteggiamento, la balia si alzò dallo sgabello con un rapido scatto e con sguardo di rimprovero gli rispose acquistando un tono severo che non le si confaceva. «Ricordate chi siete. Dipende tutto da voi, se perderete la via del cammino, rischierete di mandare tutti noi in rovina. Non dimenticatelo.» Così dicendo, lo esortò a recarsi nella sua stanza per cercare di passare una notte il più possibile tranquilla.
Una volta uscito, Aìda si affrettò a coprire i due infanti e rimase anche lei a contemplarli per lunghi attimi. In colpa per come si era precedentemente rivolta al suo signore, uscì dalla stanza spegnendo delle candele rimaste accese e chiudendo dietro di sé la porta di legno intarsiata.

Le stagioni passarono in fretta. I due bambini avevano quasi raggiunto un anno di vita e mancava solo un giorno al compimento di quest'ultimo.
Tra la gioia e i sorrisi di tutti, venivano messi a punto i preparativi per l'imminente festa. Addobbi e fronzoli furono posti ovunque in giro per la dimora. I camini erano tutti colmi di legna e la sala principale, adornata con nastri azzurri e bianchi che pendevano da ogni dove, avrebbe ospitato almeno un centinaio di persone.
Stanchi per il duro lavoro svolto durante il giorno, si ritirarono tutti nelle loro stanze e i bambini furono messi a letto.
Quella notte pareva più buia rispetto alle precedenti a causa delle scure nubi che coprivano la grande luna piena. Nella dimora tutto taceva. Si sentivano solo in lontananza i rumori di alcune guardie che facevano un giro di pattuglia nei dintorni.
Nel frattempo Jake e Noah, che erano calati in un sonno profondo, furono svegliati da un rumore nuovo per loro: un rumore di cocci di vetro che s'infrangevano al suolo. Una sagoma entrò dalla finestra che portava su una grande balconata e scostò le tende lentamente, per assicurarsi di non essere stata notata da nessuno. Indossava un lungo mantello nero che la rendeva invisibile nel buio pesto della stanza. Si avvicinò con fare sicuro e lesto ai due piccoli e li scrutò attentamente come un predatore avrebbe fatto con la sua preda. Accertatasi che fossero i suoi obiettivi, li prese in braccio avvolgendoli in un telo così da coprirli e, calandosi giù dalla balconata, grazie all'aiuto di un'altra figura, li portò fuori dalla casa.

Si guardarono intorno: non c'era nessuno. Le guardie stavano facendo il solito giro che gli intrusi conoscevano abbastanza da poter evitare di essere scoperti.
Si allontanarono lentamente aspettando il momento in cui, tra loro e le guardie, si sarebbe creata una distanza tale da far si che non venissero colti in flagrante. Ma qualcosa andò storto; Noah scoppiò a piangere urlando. Le guardie lo sentirono e, chiamando i rinforzi, si precipitarono subito verso i rapitori.
Costoro corsero più veloci che potettero passando attraverso viottole sconosciute e passaggi ombrosi riuscendo a fuggire illesi nascondendosi dietro un muro di pietre.
«Abbiamo rischiato grosso questa volta Edo.» disse una delle due persone all'altra senza fiato. Tirando un lungo sospiro questo rispose «Qualcuno lassù ha deciso di aiutarci!» Riprese fiato.
«Non gioire troppo presto.» Lo rimproverò.
Edo annuì e poi, preso da un impeto di curiosità, puntò lo sguardo sui due rapiti e implorò: «Irma, mi mostreresti i bambini..? Vorrei constatare con i miei occhi se ciò che viene detto sul loro conto è reale.»
La donna si tolse il cappuccio scuro dalla testa permettendo così ad una miriade di boccoli rossi di circondare il suo piccolo viso scarno, facendo risaltare i suoi occhi verdi incastonati simili a smeraldi. Spostò il mantello e spuntarono due piccoli musetti. Tolse definitivamente il telo che li avvolgeva e apparvero due cornici: una bianca e una rossa. Edo rimase a bocca aperta, colmo di sorpresa. Non fece in tempo ad enunciar parola che il suo volto assunse un'espressione di dolore; una freccia l'aveva appena colpito trafiggendogli il collo e facendo schizzare flotti di sangue addosso ad Irma ed ai bambini. Urla disperate uscirono dalla bocca della donna che, rischiando la cattura, dovette scappare abbandonando il corpo del compagno nelle mani delle guardie.

Come un'antilope scappa da un leone affamato, così Irma correva cercando di fuggire dalle sentinelle agguerrite.
Doveva portare da sola i bambini; era appesantita, affaticata e inciampava ripetutamente, ma non si diede per vinta e continuò a correre nascondendosi ora dietro una casa, ora fra dei cespugli. Quando credette di averle seminate si accasciò dietro ad un vecchio pozzo. Ripensava e ripensava, sconvolta, a quello che era successo. L'immagine di Edo non l'abbandonava. Si sentiva impotente. Aveva paura. Si. Aveva paura. Paura di venir scoperta, di morire. Ma, ancor di più, paura di ciò che le sarebbe potuto succedere se non avesse portato a compimento la missione.
Si accertò dello stato dei bambini, li osservò. Erano disorientati e spaventati.
Li cinse a se, cercando di tranquillizzarli.

''Il loro destino è morire. Sai quello che accadrebbe se loro restassero in vita, vero Irma?
Non puoi fermare il corso degli eventi. Ho deciso di affidare a te questa missione perché sei colei della quale mi fido di più. Non mi deluderai, vero?''


Queste parole riecheggiavano nella sua mente e più ci pensava, più si chiedeva se quello che stava facendo fosse giusto. Avrebbe dovuto ucciderli. Quei bambini così piccoli, indifesi, ancora estranei a tutto ciò che riguardava il mondo. «Sono adorabili.» pensò. Non riusciva a toccarli con cattive intenzioni, non riusciva ad avvicinare il pugnale ai loro piccoli corpi. Non riusciva, o meglio, non voleva fargli del male. Se l'avesse fatto sarebbe stata divorata giorno e notte da sensi di colpa. Alzò lo sguardo al cielo stellato cercando inutilmente le risposte ai suoi dubbi fra le stelle. Si lasciò cullare dal vento notturno e, anche se per un attimo, tutti i suoi problemi, le sue paure e le sue ansie furono portati lontani da lei da quella fredda brezza. Riabbassò il capo e rimase immobile ad osservare l'orizzonte. Poco dopo, aguzzando la vista, scorse uno, due, cinque, innumerevoli lumi. Un velo di speranza l'avvolse e, dopo aver pronunciato un nome sottovoce, si alzò e corse in direzione di quei lumi. La città di Ispor era vicina.

«Ve lo siete lasciati scappare?»
«Signore, noi..»
« Silenzio! Non voglio sentire scuse! Avete un briciolo di consapevolezza della gravità della situazione in cui ci troviamo adesso? Continuerete a cercarlo finché non avrete più forza neanche per vivere, razza di incapaci! Sono stato chiaro?»
«Si..»
«Ho detto, sono stato chiaro?»
«Trasparente.» E, così dicendo, le guardie ripresero le loro ricerche.

Irma era ormai lontana da Kober e si stava avvicinando sempre di più ai confini della città di Ispor. Era sfinita, ma il pensiero di essere vicina alla meta la rincuorava spingendola a proseguire.
Il sole era prossimo a sorgere quando giunse finalmente davanti al portone di una piccola casa circondata da rovi, artefici di molti degli strappi sul suo mantello.
Con fare timoroso bussò e continuò a farlo fino a che un uomo alto e robusto non le si parò davanti, armato di vanga.
«Chi sei tu?» Disse scocciato.
«La donna che non vorresti bussasse alla tua porta.» Rispose con un accenno di sorriso.
«Rivelati donna.»
E così fece. Si tolse il cappuccio con fatica e si mostrò. «Sarà difficile dimenticarmi di te, Irma.»
«Sbaglio o furono le ultime cose che mi dicesti?» Un sorriso malizioso apparve sulle sue labbra.
«Ne è passato di tempo, eh Theon?»
L'uomo trasali'.
«Irma... Cosa vuoi da me? Come hai fatto a trovarmi? Se sei venuta qui per riportarmi indietro hai sprecato il tuo tempo! Io non ho intenzione di...» non fece tempo finire il suo discorso che Irma gli adagiò un dito sulle labbra quasi totalmente nascoste dalla folta barba invitandolo a tacere e rassicurandolo. Gli mostrò i due bambini e lo pregò di farla entrare garantendogli spiegazioni.
Quando Irma abbandonò la casa di Theon il sole stava per sorgere. Decise di affrettarsi. Dopotutto, le guardie la stavano cercando. Stava per cimentarsi in un'impresa molto difficile, forse troppo, ma doveva farlo. La sua meta era la città di Petra.
  
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