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Autore: Gwen Chan    09/04/2013    5 recensioni
Non sentiva più le gambe. Ricordava di aver avvertito un dolore atroce quando qualcosa le aveva colpite, ma ora persino quello se ne era andato. Ricordava il buio e l‘oppressione data dal fardello che gli schiacciava l’addome, quando la morte lo aveva sfiorato con le sue fredde, scheletriche dita.
Sembrava che le sue gambe fossero scomparse, volatilizzate, perché persino quella familiare condizione di pesantezza data dal semplice fatto di possedere un corpo capace di imprimere la sua forma al materasso o alla poltrona, era smarrita. Temette di averle perdute, di essere diventato un uomo a metà, ma dopo aver a fatica sollevato la testa dal cuscino, inclinando il mento quel tanto che bastava a sbirciare la parte sotto al busto, constatò con sollievo che le lenzuola presentavano ancora i rassicuranti rigonfiamenti delle cosce, delle ginocchia e dei polpacci.

[Accenni al disastro della miniera di Marcinelle]
[AU][Legata a "Dice che era un bell'uomo e veniva dal mare" e "Serenella"]
Genere: Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belgio, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di una famiglia '
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E il treno io l’ho preso

Non sentiva più le gambe. Ricordava di aver avvertito un dolore atroce quando qualcosa le aveva colpite, ma ora persino quello se ne era andato. Ricordava il buio e l‘oppressione data dal fardello che gli schiacciava l’addome, quando la morte lo aveva sfiorato con le sue fredde, scheletriche dita.
Sembrava che le sue gambe fossero scomparse, volatilizzate, perché persino quella familiare condizione di pesantezza data dal semplice fatto di possedere un corpo capace di imprimere la sua forma al materasso o alla poltrona, era smarrita. Temette di averle perdute, di essere diventato un uomo a metà, ma dopo aver a fatica sollevato la testa dal cuscino, inclinando il mento quel tanto che bastava a sbirciare la parte sotto al busto, constatò con sollievo che le lenzuola presentavano ancora i rassicuranti rigonfiamenti delle cosce, delle ginocchia e dei polpacci.
“Vedo che si è svegliato, meno male!”
Un volto allegro di ragazza entrò d’improvviso nel suo campo visivo, interrompendo bruscamente il contatto semi catatonico con il soffitto grigio. Doveva essere un’infermiera, come suggeriva la cuffietta candida sui corti capelli biondo grano, giovane, con vispi occhi verdi e un musetto che somigliava a quello di un gatto. La sua voce gli giungeva come sfocata, come se fosse stato immerso nelle profondità marine e lei gli parlasse seduta sulla riva. Così era solita fare sua sorella più piccola, quando ancora viveva in Italia e la guerra, la fame e la povertà erano solo spettri lontani. Infilava i piedi fra i flutti e cantava mentre lui s’immergeva a pescare ricci sul fondo sabbioso.
Lovino ebbe paura di stare diventando sordo.
“Come si sente?”
“Fa un male porco!”
Persino parlare risultava faticoso; e, dopotutto, quello che aveva appena detto era una bugia. Non faceva più male ora, non più. La sofferenza si era sublimata nel mero nulla, nello spaventoso nulla. Chissà, forse se di nuovo avesse patito dolore, si sarebbe sentito più tranquillo.
La giovane gli sfiorò il volto per controllare che non avesse la febbre, il tocco era fresco e lieve; poco dopo nella stanzetta dell’ospedale entrò un signore in camice bianco con una cartella clinica sotto braccio e la fronte stanca di chi non dorme da giorni, salvando meno vite di quante vorrebbe. Si avvicinò al capezzale, scambiò un paio di opinioni in francese con l’infermiera e, senza troppi complimenti, tirò indietro le lenzuola.
Lovino si lasciò sfuggire un gemito che avrebbe voluto essere un’imprecazione volta a tirar giù tutti i venerabili santi del Paradiso. Là dove una volta si trovavano le sue belle gambe abbronzate c’era un ammasso di carne e osso, qualcosa di sanguinolento e sfracellato; irrimediabilmente spacciate.
“Riesce a muovere le braccia?”
L’italiano avrebbe desiderato essere lasciato in pace, da solo con i suoi demoni, con l’idea che non avrebbe mai più potuto camminare, ma quei due parevano in vena di domande ed interrogatori. Probabilmente i medici volevano assicurarsi che non fosse del tutto compromesso, che nel suo corpo ci fosse ancora qualcosa di sano. Se riusciva a muovere le braccia? Se la paralisi non lo aveva intaccato del tutto? Sì, ne aveva ancora la sensibilità e per dimostrarlo fletté le dita di entrambe le mani, con uno sforzo che gli imperlò la fronte di sudore. Erano talmente pesanti! Persino la testa aveva cominciato a ronzare, come se l’avesse incautamente immersa in un nido di calabroni nella campagna silenziosa e assolata.
Da quanto tempo non vedeva un sole brillante e degno di questo nome? Sette anni prima aveva chiuso con lo spago una valigia di cartone e sputo, aveva preso il treno in terza classe e si era lasciato trasportare sino a quel paese freddo e nero di carbone; lui, dall’anima contadina, che finita la guerra avrebbe voluto coltivare distese di rossi e succosi pomodori, si era ritrovato a picconare le viscere ingrate della terra. Viscere pronte a inghiottire gli amanti troppo avventati, vene che tanto davano e tanto chiedevano. Rimaneva curvo per ore sotto un’impalcatura marcia che minacciava sempre di crollare, facendo su e giù con ascensori pericolanti, rovinandosi i polmoni nell’aria viziata e malsana.
Aveva ricordi confusi di quel pomeriggio, né sapeva quanto fosse passato. Un giorno? Una settimana? Quanti erano morti, quanti sopravvissuti?
Quanto era rimasto schiacciato dalle macerie, con il corpo bloccato e il volto ustionato da quell’orribile incendio? Nell’ansia iniziale, con tutta la sua attenzione rivolta alle gambe, si era momentaneamente scordato delle bruciature, ma ora la pelle tornava con violenza a scottare, tanto che avrebbe voluto strapparsela a unghiate dagli zigomi. Bestemmiò a denti stretti. Il panno imbevuto nell’acqua e posato sul viso fu un sollievo.
“Grazie. Dannazione!”
Un pizzicorino gli fece strizzare gli occhi, portando quasi l’illusione di trovarsi ancora nella miniera, ancora a lavorare, con un casco più grande della sua testa, a sfregarsi le palpebre irritate dalla polvere; ma erano solo le lacrime di rabbia che scivolarono silenziose lungo guance e tempie.
“Non deve piangere!” lo redarguì l’infermiera sorridendo apertamente e battendo le mani un paio di volte come a voler rompere una bolla. Si chinò quindi a leggere l’etichetta appesa al letto.
“Ti chiami Lovino? Io sono Bella. Non ti dà fastidio se uso il tu, vero?”
Lovino si strinse nelle spalle. Perché mai gli avrebbe dovuto dare fastidio, se di solito era stato trattato come un cane? In un’altra vita avrebbe fatto apprezzamenti sull’effettiva bellezza della donna, ma non era quello il momento. Cavolo, come avrebbe fatto a correre, a nuotate d’estate, staccando le cozze dagli scogli con il coltello a serramanico, a passare ore nei campi, a raccogliere i limoni, a lavorare senza più le sue gambe? Dannazione, era sopravvissuto a quel terribile primo maggio dal soffocante profumo di ginestre, solo per sputare sangue sul misero carbone. Era fuggito dalle zolfatare per trovare la morte in un nuovo ventre oscuro della terra.Quando aprì di nuovo la bocca non seppe se si stava rivolgendo a se stesso o a Bella, né se usò l’italiano, il dialetto o il suo stentato francese. Voleva solo raccontare.
“Sono il maggiore di quattro fratelli. Mio padre e mia madre sono morti durante la guerra, noi siamo stati più fortunati. Mia sorella Alice è stata la prima ad andarsene, tanti anni fa. Io non ero presente, è stata Chiara a raccontarmelo quando sono tornato a casa dai boschi. L’ho trovata con al collo un marmocchio di tre anni, il figlio di uno dei tanti americani sbarcati sulle nostre coste. Mio fratello Feliciano, quell’ingenuo piagnucolone, si è perso da qualche parte nelle Alpi. Qualcuno dice di averlo visto in una delle città tedesche.
Era la festa del lavoro quando decisi di venire a lavorare qui in Belgio. Doveva essere un giorno di allegria, tutto il paese si era riunito, portando vino e cibarie; invece dall’ombra delle rocce brulle qualcuno iniziò a sparare sulla folla. Afferrai il braccio di Chiara e la spinsi contro l’erba; quasi non riuscivamo a respirare, ma per miracolo ci salvammo. La sera già contavo i soldi per i biglietti del treno.”
Lovino deglutì e artigliò il materasso, rimpiangendo di essere partito, maledicendo i signori della miniera che affamavano i lavoratori, la schiena rotta per un tozzo di pane, i briganti che avevano falcidiato la gente innocente, la guerra che si era portata via la sua famiglia.
Con movimenti lenti si toccò la guancia, dove la carne aveva incontrato le fiamme, nello stesso istante in cui il dottore rientrava e gli comunicava definitivamente che le sue gambe erano irrecuperabili.

 

***

Era Bella, la dolce infermiera venuta da un paesino nei pressi di Bruxells, che ogni pomeriggio spingeva la sua carrozzina nello spiazzo davanti all’ospedale, nei lunghi giorni della malattia, perché pareva l’unica con cui Lovino volesse aprirsi, senza prenderla a male parole e senza bestemmiare in dialetto. La ragazza, con la sua vivacità e le sue mani profumate di cioccolato riusciva a scalfire gli astiosi silenzi dell’italiano, specialmente quando lo caricava in macchina e guidava fino a raggiungere in campi fioriti lontano dai cumuli gelidi di carbone. Bella non perdeva mai il sorriso, del resto se non lo aveva perso da piccina durante gli anni dell’occupazione tedesca, quando l’orfanatrofio era stato l’unico orizzonte per lei e per il fratello maggiore, di sicuro non lo avrebbe più smarrito. Aveva ventiquattro anni e il cuore colmo di speranza.

In quei giorni lenti Lovino aveva un nuovo compagno di stanza, uno spagnolo ciarliero ed espansivo, con un perenne sorriso sulle labbra. Si chiamava Antonio (più uno di quei lunghissimi cognomi iberici) ed era diventato sordo in un’esplosione durante la guerra civile. Un altro incidente si era portato via i suoi occhi. Lovino si domandava come potesse essere tanto contento, avere così tanto da raccontare se da anni il diretto contatto col mondo gli era precluso. E siccome non udiva chi gli intimava di smettere, non taceva finché non si stancava del battere della lingua su denti e palato. Parlava di tutto e di nulla.
Raccontava ogni minimo aneddoto della sua turbolenta, passionale vita, a partire dal galletto nero che aveva addestrato per le lotte di gallinacei organizzate dal paese, dove aveva lavorato come garzone del lattaio. Parlava delle scorribande di gioventù insieme ai suoi inseparabili e poco raccomandabili amici di sempre, conosciuti tra i banchi dell’università.
La prima volta che, sotto probabile consiglio di Bella, Antonio si avvicinò a tentoni alla sedia a rotelle dell’italiano e lo prese in braccio per poi caricarselo sulla schiena, Lovino imprecò e agitò le braccia, gridando che quel dannato spagnolo lo avrebbe di sicuro fatto cadere.
“A destra, a destra, bastardo!” urlava, dimentico che l’altro non poteva sentirlo; quando se ne accorgeva (e già le scale si erano fatte pericolosamente vicine), gli afferrava le orecchie e senza troppi convenevoli gliele tirava per dirigerlo. Formavano una strana coppia, un paio di gambe senza occhi e un paio di occhi senza gambe, due metà che insieme diventavano un unico. L’italiano imprecava ogni volta che passeggiavano in quel modo, con le mani fra i folti capelli castani di Antonio, ma, sebbene non lo avrebbe mai ammesso, in fondo si divertiva. Forse fu per questo che quando gli giunsero le stampelle e le gambe finte di cellulosa non le provò subito e preferì ancora scendere fino alla tabaccheria insieme allo spagnolo, né in futuro le avrebbe usate spesso, lamentando che gli causavano terribili irritazioni. Fatto questo, che non faceva altro che peggiorare il suo orribile carattere. Quindi, in fondo, nessuno si preoccupava se rimanevano nell’armadio e se il più delle volte fungevano solo da gioco per i bambini.
Antonio, diventato a dispetto della sua condizione un cantante d’opera di successo, lo andò a trovare in Italia anni dopo. Lovino si era ritirato in una casetta, dove passava le sue giornate ad ammirare un orticello di pomodori che apriva il cuore e a scrivere; come prima cosa l’italiano si fece portare in spalla fino in spiaggia e lì, aspirando l’aria salmastra, descrisse con le sue mani ruvide il rumore di nenia delle onde sulla rena, la stessa sabbia dove gli americani avevano impresso le loro orme, la sabbia che aveva dato il colore ai capelli di suo nipote, e il colore profondo del mare.
 
Note
Quarto episodio della serie “Cronache di una famiglia”, dove a ogni one-shot si creano almeno due o tre spunti per altrettanti spin-off. Questa volta il protagonista è Lovino, scelto perché per correttezza storica dovevo inserire come personaggio anche Belgio, ripreso non durante la guerra, ma molti anni dopo. Infatti l’episodio che mi ha dato l’ispirazione è stato il disastro avvenuto nel 1956 nella miniera delle Marcinelle, dove a causa di un terribile incendio duecentosessantacinque minatori persero la vita.
Inoltre, per la serie “prendere due piccioni con una fava”, siccome qualche idea per un’altra fan fiction mi ronzava in testa, ecco che ho preferito inserire anche Spagna mentre ascoltavo la canzone “Pablo” di Francesco de Gregori.
Ultima nota storica, il massacro cui accenna Lovino è quello del Primo maggio a Portella delle Ginestre.
La storia è comprensibile anche da sola, ma se volete avere un quadro a tutto tondo, vi consiglio di andare a leggere anche “Dice che era un bell’uomo e veniva dal mare” e “Serenella”.
Scusate per l’OOC.
 

   
 
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