Sabbia bianca e piedi nudi
Quando sei piccola, -sai quando ti alzi sulle punte e ti
accorgi che non arrivi nemmeno alla cinta di tuo padre o quando guardi il pesce
nella boccia tonda e opaca e l’unica cosa che riesci a vedere è il tuo naso
spalmato contro la plastica?- quando sei piccola tutto è di più. Il dolore è pianto disperato, lo zucchero è pura
adrenalina, l’erba è più verde, un fiume è oceano e l’oceano…
Oceano: vasta distesa
d'acqua salata presente sulla superficie terrestre.
Manca una pagina dall’enciclopedia illustrata che i miei zii
mi hanno regalato nel Natale del ’70,
tra Oca e Ontaria*; l’ho strappata per un motivo ben preciso. Chicago non è mai
stata casa mia, sapevo in un modo viscerale che i piedi scalzi e lo skate di
mio fratello sempre sotto alle mutande bianche di cotone e con i fiocchetti
gialli ai lati mi avrebbero portato da qualche altra parte. Non che il Michigan
non mi piacesse, adoravo mischiarmi alla fanghiglia e alla pioggia,
semplicemente perché non potevo far a meno di far imbestialire mia madre. Il
problema era togliersi la corteggia di fango da dosso, sembrava merda e avevo
smesso di usare il pannolino da un bel po’ di tempo, speravano di non vedermi
più roba del genere addosso. Forse è per questo e forse è perché le pozze
d’acqua non hanno mai attirato mio padre e me, ma alla fine siamo scappati. Mio
padre ha tirato giù l’enciclopedia dalla libreria e mi ha piantato quella
pagina, tra Oca e Ontaria, sotto il naso; mi ha detto “questa sarà casa tua”, e
poi ha chiuso senza neanche darmi tempo di assimilare che significasse la
parola oceano.
Prima di partire ho strappato quella pagina e l’ho infilata
nella tasca della gonna, mia madre era una che ci teneva a certe cose, i
cambiamenti le facevano rispolverare congetture e tradizioni che nella nostra
famiglia avevano smesso di esistere dai tempi della bisnonna Eva; una tipa
arzilla, andava in giro con un fucile e, se ti avvicinavi di poco alle piante
di pomodoro nel giardino sul retro di quella che più che una casa somigliava
tanto a un raduno per barboni, ti sparava a vista. Quindi, con la buona
educazione fornita da nonna Eva e la sua combriccola di barboni e con una
pagina di enciclopedia nella gonna, abbiamo detto addio alla pozza d’acqua del
Michigan in vista di quella prospettiva di ampliamento liquido che attirava
tanto mio padre.
Vasta distesa d’acqua
salata presente sulla superfice terrestre.
Per i baffi di nonna Eva, l’immagine nella gonna ritraeva
quella… roba come una specie di pozzo d’acqua all’occhio di bue, volevo quasi
strappare quella dannata enciclopedia, mi aveva insegnato un mondo troppo
piccolo per i miei bisogni o semplicemente per la mia meraviglia.
Quando sei piccolo tutto sembra… di più.
Ho incontrato per la prima volta Eddie lo stesso giorno in
cui mi sono trasferita a San Diego; ricordo di aver semplicemente poggiato la
valigia in cuoio a terra e di esser corsa dietro mio padre. Ci sono poche cose
davvero indimenticabili di cui abbia sinceramente voglia di raccontare e tutte,
senza esclusione, precedono l’esatto istante in cui i miei piedi scalzi hanno
toccato la sabbia. E allora fanculo il fango, fanculo la pioggia, da quel
momento in poi ci sono state solo la sabbia – la morbida e bianca sabbia
dell’oceano-, la tavola da surf di mio padre e gli occhi di Eddie.
Tutto il resto era fango, tutto il resto era pioggia grigia
e sporca.
C’è ben poco da dire, potrei ripetere che “quando sei piccolo tutto sembra..” ma in realtà lui era già di più. Lui era un po’ come la pagina plastificata che tenevo
stretta nella gonna, e posso affermare con certezza, pur senza averlo mai detto
ad alta voce, che il vero problema di Eddie erano e sono i suoi occhi. E anche
il suo sorriso, ma i suoi occhi prima di tutto. Aveva una passione malsana per
l’acqua, era un bisogno fisico e psicologico insieme, come per me lo era stare
in piedi ore a guardarlo remare allungato sulla tavola. I bambini da quelle
parti imparano prima a surfare e poi a respirare, guardare, parlare, mangiare.
Sapevo che era nato a Chicago, anche lui, e questo lo rendeva ancora… di più.
Un di più che mi dava alla testa, un di più che nessuna enciclopedia mi avrebbe
mai potuto insegnare o disinsegnare, ero completamente e perdutamente
innamorata del suo rapporto con quella distesa azzurra. Glielo leggevo negli
occhi e sentivo un male atroce nel petto quando non riuscivo a sentire come
sentiva lui, con quella pienezza, con quella… totalità. Aveva un limite
preciso, dalla punta alla coda, ma sembrava non finisse mai, era tutto lì in
quel corpicino minuto e i capelli biondi, ma io sapevo, io vedevo e sentivo che
c’era di più, che lui era di più.
Sapevo che aveva problemi con il padre, non perché ci
parlassi o ne parlassi, lui era semplicemente una pagina stropicciata che
tenevo infilata chissà dove stretta nell’elastico dei pantaloni. Sapevo perché
lo vedevo, ferire le onde dico, gridava come un pazzo, gridava quando un’onda
gli moriva davanti e gridava quando la prendeva così bene, quella parete
d’acqua, che sembrava le prendesse lui stesso. Avevo questa teoria, io. Ne
avevo prese tante di botte prima di affondare i piedi nella sabbia e ogni
volta, ogni volta che la faccia mi si gonfiava o le ginocchia mi cedevano, ogni
volta che tutto quel male finiva, io sospiravo, come svuotata; era finita, ero
libera di alzarmi e camminare e far finta che non sentissi nulla, che fossi
forte abbastanza da pensare che tutto andasse bene, che tutto fosse perfetto. E
lui ce le prendeva di brutto in acqua, ne prendeva a sufficienza per rompersi
ogni singolo osso, fino allo sfinimento, fino ad imprecare a denti stretti per
poi esplodere in un grido primitivo. Un attimo prima era pieno, gonfio di
rabbia e frustrazione, l’attimo dopo era… oceano.
Poi, una mattina, mi sveglio e lui non c’è. Era tornato a
Chicago dalla mamma. Le bugie non sono mai state il mio forte e credo nemmeno
il suo, aveva quegli occhi che trasudavano sensazioni e non mentivano, mai. Si
è reso conto troppo tardi che sincerità non porta altra sincerità e che spesso
le persone che mentono più facilmente sono quelle che ti sono vicine, la scusa
è proteggerti. Fanculo. Suo padre, quello vero, era morto di sclerosi multipla
e il patrigno finito nel dimenticatoio insieme a tutto il resto, a tutta la
merda. Restava solo un vuoto, credo. Dico credo perché è rimasto lì a Chicago
per troppo tempo, nel frattempo io trovavo casa mia; mentre lui conosceva Beth
io capivo che stavo crescendo e mi rendevo conto che le ginocchia non cedevano
più, che amavo i miei genitori nonostante tutto. C’è sempre un nonostante
tutto. E’ quella frase che ti fa capire che forse sei cresciuto, che forse sei
pronto a capire che l’enciclopedia incasella l’oceano in un pozzo all’occhio di
bue solo perché è semplicemente più facile, se ognuno finge che quel di più non
ci sia, che sia facile da mandare giù.
Perciò, nonostante tutto, continuavo ad amare mio padre
perché continuava ad essere la ragione per cui m’infilavo la muta e scivolavo
in acqua, con il sole, con la pioggia, con le onde che mi divoravano, non
contava nulla di tutto questo; eravamo solo io e quel grido, giù nella pancia
dell’oceano. Sapevo che sarebbe tornato, il Michigan non fa bene a un tipo come
lui, fango e pioggia dopo un po’ ti si seccano addosso.
Quando non sei più un bambino, le cose diventano più
piccole, tutto diventa più misero, meno vivo. Dicono che sia normale anche
semplicemente per una questione di misure, tu cresci il resto rimpicciolisce.
Nessuno ti dice però che puoi anche essere alto due metri e lavorare nel circo
insieme ad Ewan McGregor e a un lupo mannaro**, ti sentirai sempre dannatamente
piccolo e misero per il mondo in cui vivi.
Nella vita di tutti i giorni cercavo di essere nessuno;
dicevo spesso che nessuno fosse stato
lì, che nessuno avesse fatto questo o
quello. Nessuno era ovunque ma mai in
acqua. Quel posto era mio e lì dentro io ero quel qualcosa di misero ma
infinitamente grande, grande quanto l’oceano.
Aveva vent’anni quando è tornato a San Diego con Beth. Lei
lo guardava dalla spiaggia, seduta, con il costume bianco e i capelli neri
tendenti al violaceo; lui ritrovava se stesso in acqua. Mi sono resa conto solo
in quel momento di quanto fossi cambiata, non ero più con i piedi sulla sabbia
a immaginare cosa potesse provare, ero in acqua con lui. E questa volta sentivo
tutto, ogni cosa, sentivo anche me stessa e forse rivedevo anche un po’ me
stessa nei suoi occhi. Il problema sono sempre quei fottuti occhi. Merda, sono
sempre stata incapace di capire se quell’azzurro è troppo grigio o quel grigio
è troppo azzurro, è come se San Diego e Chicago si fossero mischiati insieme in
previsione di un futuro stracolmo di pioggia per una testa sempre bagnata da
dell’acqua salata.
Sapevo che aveva cominciato a suonare e che cantava, più che
altro cantava. Pensavo che fosse perfetto per lui, insomma, con tutte quelle
grida inghiottite da tonnellate d’acqua, era ora che qualcuno lo sentisse;
qualcuno che non fosse nessuno. Scriveva
da una vita su quaderni scuri, migliaia, tutti uguali, uno che ha così tanta
roba da dire… insomma, è una cosa che non mi ha sorpresa.
Andavo a sentirlo cantare ogni tanto, era sempre un po’
fuori luogo con quella sua voce profonda, mi faceva ridere un casino, era così
piccolo rispetto agli altri. Era come se fosse rimasto un bambino, come se il
mondo non lo avesse inghiottito e fatto lievitare. Era immune allo schifo,
immune a qualsiasi tipo di contaminazione, lui era sempre lui così come lo
avevo visto la prima volta. Aveva quella forza dentro che ti faceva tremare e
tremavi per davvero, per il nervoso. Se ne stava per la maggior parte del tempo
a sussurrare, le grida le risparmiava sempre per l’incontro mattutino con
l’oceano. Faceva incazzare tutti e finiva per esser sbattuto fuori il più delle
volte e a lui andava bene così, a lui andava tutto bene così. L’importante era
che la mattina avesse sempre qualche onda da dilaniare e che Beth fosse lì con
lui. Andava in giro canticchiando un pezzo degli Who, i capelli consumati dal
sole e la pelle bruciata; lavorava come un matto. Il giorno prima lo vedevi
alla pompa del benzinaio, il giorno dopo vendeva birre al bar sotto casa.
Erano i ’90 e si sentiva che qualcosa stava cambiando.
C’era il punk, c’era Neal Young, c’erano i Red Hot e poi
c’era una città, un buco di culo perennemente bagnato dalla pioggia, quella
pioggia. Era Seattle e gliela leggevi negli occhi ancora prima che venisse a
conoscenza di quella richiesta da parte di Stone e Jeff. Irons gli voleva bene
e a Eddie andava bene così, come sempre, e sapeva che era arrivata l’ora per
quel minuscolo uomo di avere la sua parte. Andava bene anche a Beth. Andava
bene a tutti ed è andata bene anche per il buco di culo di città e più tardi
per l’emisfero asciutto.
Ogni tanto tornava a San Diego, la scusa era Beth ma credo
che il vero motivo fosse che gli mancava l’oceano. Lo avevo visto scrivere Alive sulle pareti di quell’onda enorme,
l’unica; lo avevo visto completamente nascosto dalla nebbia, era meno di una
macchia. E la nebbia lo ha accompagnato per un bel po’ di tempo, prima che
tirasse fuori la voce ci son voluti molti aerei, molte notti e tanta paraffina.
Poi un giorno Eddie è diventato i Pearl Jam e il mondo ha cominciato ad amare la
sua voce come si amavano le droghe. Quello stato di totale mancanza di ossigeno
nei polmoni, come se ti tenessero la testa nell’acqua e t’impedissero di
risalire su. Ti senti bruciare e poi esplodere e poi bruciare ancora, un
continuo boato tra polmoni ed esofago, un continuo graffiare in cerca d’aria,
aria respirabile.
E ho capito.
Oceano: vasta distesa d'acqua salata presente sulla
superficie terrestre.
Che merda di definizione. Eppure me la sono cucita nella
tasca interna del giubbotto verde militare.
Eddie non fa che rotolare, Eddie non fa che gettarsi in
cadute libere e sfiorare le teste di centinaia, migliaia di persone che come
lui fremono, esplodono. E’ un corrodersi a vicenda e non c’è una fottuta fine a
tutto questo, c’è solo Eddie che canta, Eddie che grida, Eddie che va bene
così. C’è un oceano in quegli occhi, c’è un oceano in quella voce e l’unica
cosa che ti viene da pensare è che quei dannati non fanno altro che rendersi
nessuno.
Siamo una massa di
nessuno. Siamo solo umani.
Ed è vero, sono sempre loro; uomini non lievitati.
Uomini meravigliati e innamorati.
Alla fine, solo alla fine come all’inizio, restano solo le cose importanti: la sabbia, l’oceano e Eddie.
Ammetto di averci preso gusto. Non mi bastava più ascoltarli, dovevo scrivere di loro, anzi più che altro di lui. Ieri mi son ritrovata quella gif tra le mani e non ho resistito. La frase giù in basso, quella in corsivo, sapete no? Quella che dice "Siamo solo umani", è di Mike ed è perfetta.
* Ontaria, non si dice così, la mia beta è subito accorsa(che brava donna che è), però è il modo in cui mio padre chiama l'otaria anche se per lui ha la faccia di Ringo anche se Ringo è un tricheco e non un'otaria. Quindi onore e gloria al mio sommo padre che inventa animali per le mie storie.
**parlo di Big Fish, è un film colmo di assurdo ma di un realismo impressionante. So che è sia cacofonico che paradossale ma è la pura e mera realtà.
Dopo cotanto schifume di note io vi abbandono.
Tanta marmellata per voi!