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Autore: La Mutaforma    10/04/2013    2 recensioni
Rebecca si appoggiò al muro, chissà dove, e si nascose il viso tra le mani come a voler proteggere quel segreto che faceva male più di qualunque altra cosa. Il cellulare bruciava ancora lì dove aveva da poco smesso di vibrare. Era un bruciore che andava oltre la pelle, oltre i suoi pensieri, e che non si poteva curare.
Mi chiamo Rebecca Crane, e sono un’assassina.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lucy Stillman , Rebecca Crane, Shaun Hastings
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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La fangirl vera è quella non si ferma mai.
Ho iniziato un’altra long, per dare sfogo ai miei feels delle mie amiche carissime, Najmee e blazethecat31.
La storia nasce da un’idea stupida in una mattinata. È così che nascono le mie fanfic.
Il titolo è di riferimento ad una famosa canzone dei Coldplay, Fix you, un brano tratto dall’album X&Y;
In ogni capitolo ci sarà una frase di una canzone dei Coldplay perché –perché poi lo scoprirete, dannati;  
La fanfic è ambientata nel 2001, quindi i personaggi non sanno ancora nulla di Des, né dell’Animus;
Cercherò di rendere storicamente attendibile la storia. Musica e apparecchiature elettroniche saranno del tempo specifico, non vedrete una Rebecca studentessa fare i compiti sull’i-pad;
Ho fatto una forzatura poco elegante alla cronologia. Lucy per regola dovrebbe avere tredici anni, ma nella mia mente lei e Rebecca erano compagne di scuola, e avevano la stessa età. Pazienza, ho messo l’avvertimento “what if” proprio per questo;
Queste sono le premesse, la storia penserà a spiegare il resto.
 

Fix You
 

When the future's architectured
By a carnival of idiots on show
You'd better lie low
Coldplay, Violet Hill, Viva la Vida

 

Lucy l’avrebbe odiata.
Probabilmente avrebbe anche cambiato appartamento –se avesse avuto i soldi per trasferirsi da sola–
Osservò prima la stanza, poi sé stessa.
“Sarebbe il caso di dare una ripulita”
Sarebbe stato il caso, certamente, e tuttavia quella consapevolezza non la convinse a riportare ordine nella camera, né magari togliersi il pigiama. Rimase alla scrivania, davanti al computer acceso e con un pacco di biscotti vicino.
Il rumore del campanello la mandò nel panico.
 
“Rebecca, ti odio”
Ma guarda un po’.
“Anche io sono felice di vederti Lucy” fece la mora, provando ad abbracciarla. L’altra la guardò con occhio severo.
“Cosa ti avevo detto? Non vivere come un animale. Sono stata fuori solo tre giorni. Tre dannati giorni. Non puoi dirmi che questo casino l’hai fatto da sola in tre giorni!”
“No. Ho solo organizzato un mega party approfittando della tua assenza. Ci siamo fumati tutta la marujana che avevi nascosto nel cassetto” disse con tono piatto Rebecca.
“Conoscendoti, se avessi organizzato una festa non ci sarebbe venuto nessuno. Piuttosto credo che tu sia rimasta al computer notte e giorno, mangiando occasionalmente schifezze varie. Probabilmente non sei uscita dal letto”
La mora annuì lentamente. Lucy sospirò, affranta, massaggiandosi le tempie.  
“La mia famiglia mi ha dato dei soldi. Ho bisogno di vestiti nuovi. E tu verrai con me”
 
Indubbiamente Rebecca avrebbe preferito formulare codici tutto il giorno piuttosto che uscire.
Ma Lucy era stata irreversibile, e forse in questo modo l’avrebbe perdonata per il disordine ammucchiato in quei tre bellissimi giorni di totale nullafacenza.
La aspettava fuori un negozio di abbigliamento al centro commerciale della città, osservando la vetrina di un altro negozio elettronica.
Non le serviva nulla, e comunque non aveva i soldi per mettersi niente di quello che vedeva, però era un piacere per lei guardare cose che avevano un nome che sapeva almeno pronunciare.
Guardò per la prima volta il suo riflesso nel vetro. Era il periodo in cui portava ancora i capelli tagliati come un maschio.
Quel giorno Lucy le aveva urlato contro per una settimana.
A lei aveva detto che aveva i capelli bruciati per colpa della piastra. In verità aveva esplicitamente chiesto che le fossero tagliati così. Poi anche Lucy aveva asserito che tanto male non le stavano.
Sotto il giubbotto di pelle portava un maglione di un arancione così brillante da sembrare un pugno in un occhio, ma tanto nessuno –a parte Lucy, si capisce– le aveva mai dato un motivo per vestirsi bene, o almeno, come una persona normale.
Forse.
“Cosa hai comprato di bello?” chiese la ragazza non appena vide l’amica sbucare dalla porta del negozio. 
“Qualcosa di utile. E qualcosa anche per te. Ne avresti bisogno”
“Non credo” fece lei, scrollando le spalle.
“Non ti farebbe certo male”
Rebecca la prese per la mano, ridendo,  per trascinarla nel più vicino Mcdonald’s e riprendere a mangiare.
 
In verità, Rebecca era sempre inquieta.
Lei stessa non se ne accorse subito. Se ne rese conto dopo alcuni giorni, quando era da sola e camminava in compagnia della sua ombra per le vie solitarie. La strada, quando non c’era nessuno, le metteva ansia e avrebbe potuto soffocare nel suo stesso respiro.
Si guardava spesso alle spalle, come i ladri e i bugiardi, e evitava i vicoli solitari di cui era sempre stata una gran frequentatrice.
Non aveva mai detto la verità a Lucy, e questo la imbarazzava e la faceva sentire in colpa, sporca e meschina.
Aveva persino pensato di raccontarglielo, di confessare tutto.
Aveva pensato che questo l’avrebbe salvata, avrebbe guarito il suo malessere.
Non posso. È un segreto. Più segreto della mia password.
Rebecca le aveva detto che ora lavorava in un’azienda di computer; questa bugia, necessaria bugia, le pesava più di qualunque altra cosa addosso.
Sono un’assassina. Ma nessuno dovrà mai saperlo.
 
Se c’era una cosa che proprio odiava tanto era il telefonino la mattina.
“Kate, che cazzo ti dice il cervello?”
La voce di Kate era elettronica, da telefono. Ovviamente.
“Becca” lei odiava quel nome “Becca oggi usciamo vero?”
“Uscire? Io? Sei pazza?”
La mora si abbandonò sul cuscino.
“Dai, usciamo, ti faccio conoscere il mio ragazzo
“Devo studiare”
 
Magari avrebbe potuto trovarla una scusa migliore. Kate non le aveva creduto e l’aveva costretta ad uscire con lei.
Ed era buffo il fatto che quella non era stata semplicemente una scusa buttata lì per non lasciare casa-letto-computer.
Si portò dietro il libro di storia, sapendo che Kate sarebbe arrivata in ritardo.
Magari avrebbe studiato qualcosa per strada, nell’attesa.
Si sedette su una panchina, a gambe incrociate, e pensò a sé stessa.
Rebecca. La ragazza con la felpa di superman troppo larga.
Rebecca, che aveva un cappello a righe colorate.
Rebecca che era un’hacker e un’assassina e nessuno lo sapeva.
Scosse la testa e provò a studiare, ma sotto i suoi occhi scorrevano mille codici, tutti i numeri della sua vita.
Com’è possibile che riesca a combinare i numeri in quel modo e che non riesca a ricordare quattro cifre in sequenza così logiche e insignificanti?
Rebecca di storia non ci capiva mai niente, e anche in classe restava a pensare ai suoi numeri, e ai suoi misteri.
Kate arrivò, come si aspettava, con venti minuti di ritardo. Rebecca quasi non se ne accorse. Accanto a lei un ragazzo coi capelli …biondi? No, a guardarlo bene aveva i capelli rossi. E gli occhiali. E la faccia dell’entusiasmo.
“Ciao Becca!”
Rebecca” la corresse lei, alzandosi dalla panchina.
“Lui è Shaun” disse la ragazza, con un sorriso. Il ragazzo tese la mano in avanti per stringere la sua. Rebecca ci batté contro il palmo, come le sembrava ovvio.
L’espressione che risultò in lui le fece credere di aver sbagliato qualcosa.
“Salve Shaun”
“Piacere di conoscerti” il tuo tono era incerto, l’accento inequivocabile.
“Sei straniero” disse lei “Scommetto che sei inglese”
Correct. Ma vivo da parecchi anni qui” spiegò il ragazzo. Dietro le lenti aveva gli occhi azzurri. A Rebecca piacquero così tanto che sorrise. In modo stupido.
“Su ragazzi, perché non andiamo a bere qualcosa?” propose Kate, mettendosi sotto braccio con Shaun. 
Si diressero verso il bar più vicino.  
Rebecca non poteva smettere di pensare a quanto si sentisse inadeguata e brutta. Con quel cappello colorato brutto sui capelli brutti. Le sue bugie brutte, e tutti quei codici che le scorrevano nella testa.
Si sedettero al primo tavolo libero che trovarono, e posò il libro di storia.
“Quel libro è pessimo” disse Shaun. Il suo tono di voce era chiaro e fastidiosamente sarcastico. Se non fosse stato il fidanzato di una sua amica lo avrebbe massacrato. A calci in bocca.
“Perdonalo, Becca” Cristo di nuovo? “Shaun è un appassionato di storia. E di libri”
Rebecca annuì, fingendo che la cosa la interessasse.
Appassionato di storia, che noia. Non poteva esserci persona più noiosa al mondo, oggi.
Una cameriera chiese loro l’ordinazione.
Kate chiese un frullato, lei la sua solita maxi cocacola.
“E tu Shaun?”
“Uno yogurt”
Yogurt? Dico, ma stai scherzando?
Rebecca inizialmente pensò si trattasse di una battuta, allora si preparò per una risata convincente. Nessuno rise.
La cosa la inquietò, soprattutto quando Shaun cominciò a mangiare quello yogurt.
Non aveva mai mai mai mai visto nulla di così strano.
Mai.
Prima che avesse la possibilità di dire qualcosa, sentì il telefonino –un nokia 3310, una bomba– vibrare nella tasca dei jeans.
Era un messaggio.
Kate e Shaun videro gli occhi castani della ragazza riempirsi piano di un’inquietudine strana, mentre leggeva il messaggio.
“Dannato figlio di puttana…” mormorò tra i denti la ragazza, bevendo d’un sorso la cocacola e alzandosi dal tavolo.
“Che succede Becca?”
La mora si bloccò per qualche istante, in riflessione. Sospirò, scrollando le spalle.
“E’… il mio capo. Mi aspetta il turno in azienda. Mi hanno avvisato solo ora. Scusa Kate, devo proprio andare”
Parlava, eppure non guardava Kate. Guardava gli occhi azzurrini di Shaun.
Si chiese se il cielo inglese avesse quel tipo di colore.
Il ragazzo la osservava senza dire nulla, un’espressione che lei non avrebbe potuto comprendere. Era strano, vedeva chiaramente il terrore nei suoi occhi, eppure lui non giudicava. Non parlava.
 
Rebecca uscì senza voltarsi indietro.
Fuori faceva freddo.
Si strinse nel cappotto nero e affondò nel collo della felpa di un blu così elettrico che avrebbe potuto mandare scintille nell’aria funesta della sera.
Avrebbe voluto piangere, lei.
Avrebbe voluto accasciarsi in un vicolo, e piangere finché ne avrebbe avuto bisogno.
Ho paura.
Ripensò al messaggio. Quelle piccole lettere nere sul fondo verde del nokia 3310 le scorrevano ancora sotto i suoi occhi, con la stessa violenza di uno schiaffo.
Abbiamo intercettato un’email di GuyFawkes.
Rebecca si appoggiò al muro, chissà dove, e si nascose il viso tra le mani come a voler proteggere quel segreto che faceva male più di qualunque altra cosa.
Il cellulare bruciava ancora lì dove aveva da poco smesso di vibrare. Era un bruciore che andava oltre la pelle, oltre i suoi pensieri, e che non si poteva curare.  
Io sono un’assassina.
Ebbe paura.  
Mi chiamo Rebecca Crane, e sono un’assassina.   

   
 
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