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Autore: MissNothing    10/04/2013    2 recensioni
«..Ti salvo io.» Esordì timidamente il più piccolo, e se non fosse più o meno sicuro di non averlo mai granché fatto in vita sua, avrebbe potuto giurare di essere arrossito. Era difficile fare considerazioni quando Gerard era così, perché le situazioni di sbocco erano tre: o finivi per sentirti un completo idiota, o finivi per sentirti un completo genio, o, come era accaduto poco prima in via straordinaria, finivi a letto con lui. Frank sperava in un misto fra le ultime due, ma d'altronde non c'era da biasimarlo. «Quanto potrà mai essere difficile?» Domandò, chiedendo mentalmente a sé stesso se mai la sua voce fosse suonata così stridula in vita sua, se mai le sue gambe fossero state così intorpidite, se mai si fosse sentito così lontano dalla realtà e dalla concretezza che lo circondavano.
[Dall'inizio, una storia il più realistica possibile.]
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Nuovo personaggio, Ray Toro | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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16. What's life like bleeding on the floor?

 

 

 

Quel mattino si svegliarono tutti di buon umore: eccezion fatta per Gerard, al quale nessuno faceva più caso siccome sembrava vivesse continuamente in uno stato di profondo e cosmico scazzo, dal momento in cui apriva gli occhi fino a quello in cui andava a dormire. Era quasi routine.

E si poteva dire quasi che il motivo della felicità che accomunava quattro su cinque di loro era sicuramente il fatto che stessero per partire, lasciando (finalmente) alle spalle proprio quella routine e qualsiasi cosa, persona o abitudine che la riguardasse. Eccezion fatta, anche questa volta, per Gerard, che invece sembrava quasi contrariato all'idea di non avere più un pretesto per fare ogni sera qualsiasi cosa potesse, a lungo andare, ucciderlo. Eppure nessuno ci fece caso: era solo un abitudine e sarebbe passata una volta imboccata l'autostrada che li avrebbe portati a casa, pensavano tutti.

Tutti tranne Frank.

L'idea che quella situazione potesse perpetuarsi più a lungo di quanto non avesse già fatto era insostenibile e molto spesso cercava di scacciarla, eppure restava lì a tormentarlo nei momenti meno opportuni, come un incubo. Non che le sue fossero paure infondate, a dire il vero: quelle di Gerard non erano solo cattive abitudini e il suo comportamento non si poteva semplicemente giustificare così, pensando alle “brutte influenze” che aveva avuto in quell'ultimo periodo o qualcosa del genere, manco fosse un liceale alla prima sigaretta. Frank sapeva che la più brutta di tutte le brutte influenze per Gerard era proprio sé stesso, e il fatto che non potessero aiutarlo era peggio di tutto. La verità era che poteva proteggerlo dal mondo intero e per anni ci aveva provato, senza capire quanto fosse inutile tenerlo in quella campana di vetro quando poi era lui stesso a farsi del male. Non che non avesse fiducia in lui, anzi. Il problema era che si trattava pur sempre di sostanze tossiche, che indipendentemente da chi ne facesse abuso rendevano l'individuo dipendente, senza distinzioni: il fatto che fosse Gerard, che si fidasse di lui nonostante tutto, che fosse ancora il suo migliore amico e forse anche un po' di più non aveva nulla a che vedere con tutto ciò. Questa volta la fiducia non c'entrava: e anche se ci fosse entrata qualcosa, Frank cominciò veramente a chiedersi se fosse ben riposta, e non appena schiuse gli occhi, parte del sollievo che lo aveva preso in un primo momento lo abbandonò di fretta e furia, lasciandolo ad un ennesimo dibattito mentale con la pecora nera (così la definiva, ogni volta che gli metteva in testa cosa che per quanto fossero giuste si rifiutava di credere) del suo cervello.

Non c'era tanto da fidarsi di lui, in effetti, e pian piano lo stava capendo;

Lo aveva pregato più e più volte di darsi una calmata con qualsiasi cosa stesse facendo, ed il fatto che lo sentisse già lamentarsi per la mancanza di alcool alle sette e trentadue del mattino era una chiara prova che si era rifiutato di ascoltarlo. Lo aveva trascinato via da chiunque avesse anche solo l'aspetto di qualcuno che potesse peggiorare la situazione, a costo di sembrare una di quelle madri apprensive e paranoiche, eppure era corso indietro come se non avesse nessun altro a cui aggrapparsi. Ma più di tutto, questa volta non solo lui, gli aveva chiesto di rivalutare quello che stava facendo e di chiedersi se ne valesse la pena.. e di nuovo, il fatto che avesse trovato una mezza bottiglia di birra avanzata dalla sera prima e la stesse anche finendo (alle sette e trentaquattro del mattino), rendeva ancora più ovvio il tutto.

Frank non poteva fidarsi di Gerard.

Nessuno poteva, a dire il vero.

Non in quel momento.

Si ricordava ancora il periodo in cui si era fidato talmente tanto di lui che era quasi comico: aveva avuto abbastanza fiducia in lui da lasciargli il suo numero il primo giorno che lo aveva conosciuto dopo sì e no dieci minuti di conversazione, si era fidato di lui quando gli aveva proposto di fare un cazzo di scherzo di merda alla sua famiglia ed aveva accettato, dopo essersi lasciato convincere che nessuno ce l'avrebbe avuta con lui una volta giunti al termine di esso, ma la prova più eclatante di tutte stava nel fatto che si era fidato così tanto della stessa persona che adesso a malapena gli rivolgeva la parola da perdere la verginità con lui, okay, e per quanto fosse imbarazzante anche solo pensarlo non c'erano mezzi termini, era così.

E adesso lo guardava e non sentiva nient'altro che pentimento.

Frank non era il tipo che di solito si pentiva delle cose che faceva. Era sempre stato convinto che bisognasse fare tutto ciò che si desiderasse, a patto di rivalutare tutto a tempo debito.. eppure in quel periodo cominciava a pentirsi di un sacco di cose, e fra tante c'era quella. Ancora più ridicolo, forse, era il modo in cui tutte le altre gravitavano comunque intorno a lui.

Frank si stropicciò il volto, lasciando perdere tutto quello che aveva in testa: per quel giorno ne aveva fatte abbastanza delle sue riflessioni zen, e giungere alla conclusione che non poteva avere fiducia nel ragazzo di cui era innamorato, era già tanto per un giorno solo. Sospirò, prima di uscire dal suo scompartimento e cominciare ufficialmente una nuova giornata. Non nel migliore dei modi, ma almeno era ancora vivo.

Tossì un paio di volte per schiarirsi la voce, e senza neanche guardarsi allo specchio, raggiunse i tutti a tavola (per quanto si potesse considerare tale uno di quei tavolini da pic-nic pieghevoli), rendendosi conto di essere l'ultimo. Si mise a posto, rispondendo al coro di “buongiorno”, “ecco la bella addormentata”, eccetera, eccetera, e con la consapevolezza che forse non era più così contento come la sera prima. Sospirò, cercando di fissare lo sguardo sulla tazza di cereali che gli avevano già piazzato sotto il naso, manco avessero paura che morisse denutrito, e di non pensare all'inopportuna sistemazione dei posti e al fatto che Gerard fosse lì, davanti a lui, e lo stesse guardandolo come se si aspettasse che gli dicesse qualcosa. Anche se, non avendo proprio niente da dire, rimase zitto.

Frank affondò controvoglia il cucchiaio nella sua tazza, quasi disgustato dal modo in cui quei cereali sembravano essere stati a mollo in quel latte per una notte intera. Ne inghiottì una cucchiaiata o due, giusto per ricaricarsi con un minimo di zuccheri prima di mettersi in viaggio per una giornata intera, e poi la spinse leggermente in avanti, solita abitudine.

«Lo sapevate che dobbiamo lasciare il bus qui?» Mikey, fra tutto il chiacchiericcio mattutino, fu l'unico ad attirare l'attenzione di Frank, con quella frase: sgranò gli occhi al massimo delle sue possibilità, in quanto pochi minuti prima avesse trovato difficoltà anche nel tenere le palpebre schiuse, e lo guardò in cerca di maggiori spiegazioni. «Mh-mh..» Annuì fra sé e sé il più piccolo dei fratelli. «In pratica è proprietà dello sponsor che l'ha fornito e ci serviva solo per “accamparci” qui. Che puttanata.» Sbuffarono tutti alla notizia, consapevoli che si sarebbero beccati di nuovo quel vecchio van che funzionava per miracolo e puzzava di piscio, piuttosto stupiti di non averci pensato prima.

«Voleranno delle teste.» Borbottò Matt, alzandosi per riporre la tazza di caffè che stava sorseggiando -ormai vuota- nel lavello, dove a quel punto si accumulavano un numero indefinito di supplementi da cucina sporchi e non.

«Abbiamo resistito per secoli in quel coso, direi che possiamo farcela per un giorno, mh?» E come al solito, Gerard dovette trovare un motivo per lamentarsi: e non per lo scomodo mezzo per viaggiare, ma per il fatto che gli altri avessero iniziato una conversazione che a quanto pare a lui non importava. Come ogni cosa, dopotutto. «Apprezzate almeno il fatto che ce l'abbiano dato.» Continuò, dopo essersi reso conto che dopo la sua affermazione era caduto il silenzio per la prima volta in almeno mezz'ora da quando si erano svegliati tutti.

«Ci dispiace, Gandhi.» Esordì Ray, ridacchiando fra sé e sé con quel ghigno che avrebbe potuto far scoppiare a ridere anche nel pieno di un funerale, riemergendo da chissà dove. Per fortuna il moro sorrise, calmando stranamente i suoi improvvisi istinti un po' troppo hippy. E Frank, come al solito, continuava a tacere, limitandosi ad un sorriso.

«Dico solo che entro domani sera saremo a casa, cioè, potrebbe andare peggio, no?» Continuò, addentando un toast. Il chitarrista non sapeva cosa ci fosse in Ray (forse era la voce, forse il fatto che avesse sempre un buon modo per sdrammatizzare ogni cosa, ma molto più probabilmente era la pettinatura da cazzone), eppure riusciva a far calmare Gerard ogni santissima volta, e quasi lo invidiava per quella sua capacità. Perché per quanto lui ci provasse, non ci era mai riuscito quanto lui. Non in maniera così spontanea, almeno.

«Dio santo, una doccia vera.» Cortez si beò, affondando ancora di più nella sedia con gli occhi chiusi ed un espressione sognante in volto. Era assurdo il fatto che una cosa semplice e alla portata di tutti come una doccia potesse mancare così tanto, ma nessuno dei ragazzi poteva biasimarlo: di certo dopo aver fatto la loro prima esperienza seria ad un festival avevano capito l'importanza dell'igiene e quanto certe volte fosse un bisogno primordiale sentirsi un po' più profumati di un cavallo morto nell'età del bronzo.

Avevano solo un tubo condiviso, lì: era come una di quelle pompe da giardinaggio, e per mezz'ora al giorno erogava acqua calda. Considerando il numero dei gruppi e la precedenza a quelli che avevano più date, non serviva un genio a capire che a loro, ovviamente, restava il turno degli ultimi due minuti.. ed essendo in cinque, si poteva ben dedurre quanto fosse sempre una lotta. Frank si ricordava ancora quella volta che un anno prima si era lavato a freddo per la disperazione, e il giorno dopo aveva suonato con un trentasette e mezzo di febbre. Eppure, nonostante tutto, non riusciva a pentirsi. Ed il fatto più triste era che non ci riusciva per via delle attenzioni che si era beccato da parte di Gerard nei giorni di convalescenza. Probabilmente era solo perché non gli andava di rimanere con un chitarrista febbricitante per più di due o tre giorni, ma a Frank piaceva credere che fosse per puro volere. Fu proprio quando si sentì interpellare a proposito di un argomento completamente diverso che il ragazzo si rese conto che forse era rimasto a fantasticare per un po' troppo tempo, e decise di ricomporsi, facendosi ripetere nuovamente la domanda e cercando di rispondere al meglio.

«A nessuno piace quel disegno che ti ho fatto vedere l'altro giorno. A nessuno piace mai un cazzo qui. A te piace, vero?» Ci mise un secondo a processare il fatto che era Gerard che gli stesse parlando, e poi cercò di ricordarsi il disegno in questione. «Vero che ti piace?» Il cantante sorrise di gusto, stranamente, e subito il più piccolo si sentì la bocca impastata, le parole bloccate in gola e uno strana felicità che non si sapeva spiegare.

«La scimmia con la testa da uomo?» Improvvisamente si ricordò, ed in effetti era una figata. L'intera storia dietro il personaggio lo era, a dire il vero, ma Frank non riusciva a ricordarsela in quel momento. Era già un miracolo che si fosse ricordato come parlare, figuriamoci.

«È un uomo con un corpo da scimmia.» Gerard sbuffò, roteando gli occhi in quel modo così esasperato che al ragazzo non fece altro che far ridere, eppure decise di contenersi, sghignazzando solo quando il genio incompreso abbassò lo sguardo sulla cartellina con i disegni. E a proposito, quando e da dove era saltata fuori? «Spaceboy.» Disse, facendo una strana smorfia di noncuranza dopo aver trovato il nome che tanto aveva cercato in quegli ultimi giorni e continuando a colorare qualcosa di celeste sulla sagoma del corpo del personaggio.

«Per me hai perso tutta la credibilità già dalla seconda pagina.. chi cazzo le ha messe incinte tutte quelle donne?» Si lamentò Mikey, che stranamente aveva la stessa identica opinione che Frank semplicemente non aveva avuto il coraggio di esprimere. Di solito non si tratteneva se si trattava di dire la sua, ma.. lui era lui. Nessuno gli rispose, ad ogni modo, e cercò nuovamente un modo per attirare l'attenzione. «Io vado a raccattare gli strumenti, chi mi accompagna?» Si alzò l'occhialuto, guardando il gruppo di gente troppo pigra per accettare che si ammassava intorno a lui. Sbuffò, ed in un certo modo ricordò Gerard, prendendo per i polsi Ray e Matt e trascinandoli con sé verso l'uscita del bus che di lì a poco avrebbero dovuto abbandonare.

Cazzo. No no no no. No.

Frank si sarebbe letteralmente tagliato un orecchio per non rimanere solo con il più grande dei Way, perché questo avrebbe certamente portato ad un nuovo litigio proprio ora che le acque sembravano essersi calmate, e quando fece per alzarsi i ragazzi erano già troppo lontani, e Gerard lo stava guardando con le sopracciglia aggrottate ed un espressione quasi sul dispiaciuto stampata in volto che gli faceva venire una voglia matta di rimanere, e- e così rinunciò, rimettendosi seduto. Se fosse andato tutto bene, nessuno dei due avrebbe aperto bocca. Sospirò, sentendosi improvvisamente male con sé stesso per aver pensato tutte quelle cose appena qualche minuto fa. Si mordicchiò il labbro, nervoso, prese a mangiucchiarsi le unghie e a picchiettare il piede a terra, e tutto questo non servì ad altro se non a rendere ancora più ovvio il fatto che in quel momento si sentisse in tanti modi, ma di certo non a suo agio.

«Tutto okay?» Domandò Gerard, alzando lo sguardo assorto dal suo block notes.

«Mi dispiace.» Frank non rispose alla domanda, ma disse certamente quello che l'altro voleva sentirsi dire, e ancora una volta aveva ceduto. Non credeva di essere colpevole quella volta, eppure proprio non era riuscito a trattenere quelle due parole. Gerard era il suo migliore amico, e secondo questo presupposto, sarebbe dovuto essere il primo a venire a sapere di Jamia. Eppure le cose si complicavano perché, in effetti, almeno dal lato di Frank ci si metteva in mezzo qualcosa di un po' più grande della semplice amicizia ed era così difficile che gli aveva semplicemente fatto rinunciare a tutto. Era brutto sapere che, qualsiasi tipo di contatto avessero mai avuto, sarebbe stato sempre Frank a dare di più: era più innamorato, più clemente, più stupido, per così dire.

Succedeva quasi in tutte le relazioni: c'era sempre chi era disposto a fare di più dell'altro, ma le coppie normali (e bastava pensare al fatto che loro non fossero nemmeno una coppia per rendersi conto di quanto la bilancia cadesse da un sol lato) avevano un equilibrio che Frank invidiava tanto, e che permetteva ad entrambi di vivere bene insieme, senza quasi nemmeno accorgersene.

Gerard gli aveva sempre dato una parte di sé, questo non poteva negarlo; aveva capito più cose su sé stesso e su quello che lo circondava in generale da quando conosceva quel ragazzo che in tutta la sua vita, eppure pareva che gli venisse naturale comportarsi da mentore con tutti, senza considerare differenze di età o circostanze varie. Dopo tanto tempo Frank era arrivato alla conclusione che Gerard era un'artista, ed essere geniale in quel modo gli veniva naturale. Quella parte di sé che gli stava donando non apparteneva solo a lui, ma a chiunque avesse avuto modo di parlarci anche solo per cinque minuti, perché lui era così.

Quello che ogni giorno Frank gli donava era più implicito: non erano lezioni di vita o frasi di quelle che gli facevano pensare. Non erano lunghe chiacchierate notturne che lo aiutavano a placare quei pensieri che gli impedivano di dormire, e nemmeno quelle cominciate per caso quando, invece, aveva veramente bisogno di qualche ora di sonno: era la comprensione. Era Frank che metteva in gioco qualcosa che non gli veniva naturale, qualcosa che doveva sforzarsi per fare.

E infondo, quello che faceva non era negli istinti di nessuno. Si scusava, diventando carnefice anche se era vittima. C'era sempre per lui, e non con le parole, perché con quelle non era lui l'esperto, ma anche solo per abbracciarlo quando era giù. Gli aveva perdonato tutto e pian piano gli stava offrendo ogni pezzo di sé, convinto che un giorno non ne sarebbe rimasto più molto.

Eppure Gerard sembrava darlo per scontato; anzi, a dire il vero, sembrava quasi non gradire quello che ogni giorno Frank provava a dargli (perché infondo voleva). Come uno di quei maglioni di lana fatti a mano dalla zia. Di quelli che ti regalano a Natale, e che anche se vorresti buttare nella spazzatura, ti ostini a tenere giusto per pietà.

Il più piccolo dei due si trovò così immerso nei suoi pensieri che nemmeno si accorse del fatto che Gerard si era alzato, posando sul tavolo colori e fogli e avvicinandosi a lui. Lo abbracciò, semplicemente, con un espressione illeggibile che non era né un sorriso e né un broncio. Frank inalò il più possibile di quell'odore così buono che gli era mancato così tanto che quasi faceva male, e poi ricambiò, stringendosi ancora più forte contro il corpo caldissimo dell'altro. Nemmeno si accorse di aver lasciato che il suo volto affondasse nell'incavo del collo del ragazzo, facendoci caso solo quando Gerard cominciò a parlare e sentì il suo fiato caldo nei capelli.

«Mi manca il mio migliore amico.» Fu quasi un sussurro, e la sua voce suonò così spezzata che Frank quasi ci credette. «Mi manca quando mi dicevi tutto, ed è per questo che mi sono comportato da stronzo..» Il più piccolo lo strinse ancora più forte, desiderando solo di rimanere così per sempre. «In realtà so che è colpa mia.. ed è a me che dispiace.» Per poco non si sentì mancare al suono di quelle parole: gli avrebbe potuto dire mille cose in quel momento. Era l'attimo perfetto per dirgli che lo amava, per dirgli quanto era stato male in quel periodo o semplicemente per dirgli quanto fosse contento che finalmente si stesse scusando. Eppure non disse niente di tutto quello.

«È tutt- tutto okay..» Balbettò, in maniera piuttosto patetica. «Ti voglio bene..» Continuò, e quella fu più o meno la frase di chiusura di quel momento. Desiderò di non averla mai detta, quando Gerard si allontanò da lui e gli sorrise, ma infondo le cose non andavano così bene da chissà quanto, e non poteva ritenersi insoddisfatto.

Frank si rimangiò tutto;

Quello era decisamente il risveglio migliore degli ultimi due mesi.

 

 

**

 

Che Gerard avesse sempre avuto una certa fissa per il sangue, la pelle, il corpo umano e tutto ciò che lo riguardasse, era una cosa risaputa: il problema stava nel capire quando quella semplice fissa si fosse trasformata in autolesionismo e per quale motivo, e nonostante riuscisse con facilità a ripercorrere i suoi passi sulla strada dell'ossessione, era difficile da un lato più personale.

Aveva solo tre o quattro anni quando sua madre cominciò a portarlo con lei dall'estetista, troppo spaventata di tornare e trovare la casa sottosopra al ritorno.

Per qualche strano motivo, uno dei suoi primi ricordi (e, più di vent'anni dopo, lo sentiva ancora come se fosse ieri), era un discorso fra sua madre e la proprietaria di quel piccolo centro di bellezza in cui parlavano della pelle di Donna. Ora, Gerard da bambino non aveva la minima idea di cosa tutto ciò volesse dire, ma nella sua mente arrivò alla conclusione che la pelle fosse come uno scudo, come una corazza. E sapere di essere ricoperti da un'armatura del genere, insieme alla curiosità e alla fantasia di un bambino, a cosa lo aveva portato? Semplice.

Quella sera stessa, quando si mise a letto, non riuscì a smettere di pensare a quello che aveva sentito quel giorno: cominciò a pizzicarsi, grattare piccole aree di pelle con le unghie, tirarne qualche minuscola parte via, incurante di quel poco dolore già attenuato dalla soddisfazione di aver scalfito finalmente quella “indistruttibile” corazza di cui era ricoperto il suo corpo.

Non passò molto prima che i suoi genitori se ne accorgessero, e nonostante fosse ovvio che ad un bambino di massimo quattro anni non passassero per la mente certi meccanismi psicologici, quando il medico di famiglia gli consigliò di portarlo da uno psicologo, pensarono bene di farlo.

Venne fuori che aveva una brutta forma di dermotillomania, un disordine ossessivo-compulsivo che lui non poteva fare molto per fermare, trattandosi di un paziente così giovane, ma che sua madre riuscì almeno ad attenuare con dei piccoli sotterfugi come farlo dormire con dello scotch fra le dita, tagliargli spesso le unghie, delle pillole di valeriana per farlo dormire meglio.

Il disordine passò nel giro di due mesi, e fu ben presto dimenticato ed archiviato dall'intera famiglia come un semplice brutto periodo che ormai si era già concluso.

Anche Gerard se n'era quasi dimenticato, ma, quando alla scuola elementare cominciarono le lezioni di scienze, per quanto basilari furono ugualmente capaci di risvegliare quel suo piccolo tic che, a nove anni compiuti, riprese più forte che mai. Certo, ancora non si rendeva conto che doveva nasconderlo ai suoi genitori, e fu per questo che, per la seconda volta, lo psicologo “di famiglia” si trovò nuovamente alle prese con il ragazzo, questa volta era già più capace di esporre i suoi problemi.

Apparentemente, a far scattare la scintilla della sua dermo, fu la lezione sul sangue: ora era abbastanza grande e cominciava a capire le funzioni del suo corpo, e trovò così affascinante il fatto che a far funzionare tutto fosse un semplice liquido, che di nuovo, prese a grattare via la pelle alla ricerca di esso. Questa volta in sezioni sempre più ampie, ed in maniera sempre meno superficiale.

Lo psicologo cominciò a credere che volesse attirare l'attenzione: diede la colpa alla nascita di suo fratello e alle premure che i suoi genitori, probabilmente, stavano rivolgendo in maniera maggiore al piccolo Mikey piuttosto che a lui, e nuovamente, la famiglia accettò il verdetto, dimenticando (volontariamente) di considerare i problemi che Gerard stava avendo con i suoi compagni di classe.

Di nuovo, con la prescrizione di un leggero farmaco di valeriana, tutto si fermò in meno di un mese, per poi ricominciare nel peggiore dei modi in seconda media.

Gerard era cresciuto, e il non avere amici, in quel momento, cominciava a pesare. Quando hai ancora otto o nove anni non è un problema, ma quando cominci a vedere tutti crescere sotto i tuoi occhi, comitive che si formano a più non posso, quando comincia quel momento in cui si inizia ad uscire e si torna relativamente tardi la sera e tu ti rendi conto che stai passando il sabato da solo a casa mentre tutti sono fuori con gli amici, allora, cominci a pensare che ci sia qualcosa di sbagliato in te. E se fino a quel momento Gerard non aveva mai pensato che quello che faceva con la sua pelle potesse rilassarlo, dovette ricredersi quando cominciò a punzecchiarsi con una matita durante le ore di lezione. Non si trattava più di semplice fascinazione nei confronti della sua “corazza”: anni di studio gli avevano fatto capire che la sua pelle non era indistruttibile. Il problema era che più il tempo passava, più lui stesso rimaneva distrutto dal modo in cui i suoi anni da adolescente stavano passando. Quelli che gli avevano sempre dipinto come “gli anni migliori”.

Non era nemmeno rilassante, in un certo senso: non lo era affatto, a dire il vero, era semplicemente l'unica distrazione che aveva lì a portata di mano. A volte si isolava nei suoi pensieri, ma come al solito, questi ultimi finivano sempre per toccare quei tasti dolenti che lo avevano spinto a volersi allontanare dalla realtà esterna. E non puoi scappare dalla tua stessa mente.

Perciò, detto fatto, si metteva come sempre nell'angolo della classe, solitario e con un temperamatite sempre a portata di mano. Una volta aveva punzecchiato, grattato, tirato così tanto lo stesso punto che aveva preso a sanguinare in classe.

E aveva sorriso.

Non aveva mai pensato di poter sorridere per del dolore fisico, eppure era successo. Le delusioni si accumulavano l'una sull'altra, come una pila di fogli simile a quella dei suoi test andati male, e non solo sul piano sociale, a quel punto della sua vita. La scuola andava male, in famiglia si litigava, e dubbi di ogni tipo cominciavano a pesargli sulle spalle. L'unica cosa che lo liberava un po' da tutto questo, era il piccolo “vizietto” che negli anni, nuovamente, non aveva fatto altro che peggiorare.

La prima volta che si tagliò seriamente fu all'ultimo anno di liceo, in pieno inverno: Gerard non era sicuro di come avrebbe dovuto gestire la situazione, e se qualcosa fosse andato storto, avrebbe almeno potuto nasconderlo sotto strati di magliette e felpe, dando la colpa alla gelida aria del Jersey nel mese di febbraio. Era febbraio, per l'appunto, il ventidue, quando il suo rasoio trovò anche una seconda occupazione. Il primo fu un taglio netto, preciso e poco profondo: Gerard doveva ammettere che, nonostante stesse pensando di farlo da un bel po', la paura era ancora tanta. Ricordava chiaramente il momento in cui, con delle lacrime agli occhi che non aveva lasciato scendere, osservò un rivolo di sangue colargli lungo l'avambraccio, sorridendo. Si sciacquò immediatamente, medicandosi ed aspettando che la ferita fosse completamente rimarginata prima di provarci di nuovo- perché era ovvio, a quel punto, che ci sarebbe stata una seconda volta. E una terza. Una quarta. Una quinta.. finché, già due mesi dopo la prima incisione, non perse il conto.

Dopo un po' di tempo, in effetti, smise persino di aspettare che i tagli si rimarginassero per farne di nuovi: aveva capito che dopo un po' scomparivano sempre, anche totalmente, e non aveva nessun motivo di preoccuparsi che in qualche modo si potessero vedere, ad estate giunta. Sarebbe bastato solo evitare qualsiasi contatto con il rasoio che non includesse la barba come tramite per le due settimane precedenti alla loro vacanza al mare e sarebbe andato tutto bene, no?

Certo, quando a marzo aveva organizzato tutto con così maniacale precisione, non avrebbe mai immaginato che non sarebbe riuscito a smettere.

Era stato Mikey il primo a notarlo: Mikey notava sempre tutto. Erano in spiaggia, e Gerard era rimasto per quindici minuti buoni nella cabina per cambiarsi, deciso a non uscire come se il tempo passato lì dentro lo avesse potuto aiutare a far scomparire tutti quegli orrendi graffi che andavano dal polso fin quasi alla piegatura del braccio. Continuò a rifiutare, rifiutare, rifiutare persino quando suo fratello lo implorò di uscire, dicendo che quelli erano gli ultimi mesi insieme prima della sua partenza per New York, dicendo che non voleva che stesse male, qualunque cosa fosse successa, dicendo che si sarebbe divertito, dando persino la colpa ad una semplice vergogna di mostrarsi in costume, e Gerard rifiutò di nuovo. A quel punto Mikey entrò, temendo il peggio e trovando esattamente quello. Il più grande si nascondeva, seduto in un angolino, rannicchiato su sé stesso con le gambe strette al petto, e quando fu obbligato a mostrare i polsi, entrambi si trovarono davanti alla innegabile verità: c'era qualcosa che non andava. Gerard lo pregò di non dirlo ai loro genitori, terrorizzato dalla reazione che avrebbero potuto avere -temette persino che non lo avrebbero mandato a continuare i suoi studi da solo-, ma ancora una volta non fu ascoltato, e nuovamente era in quello studio dalle pareti giallognole, seduto di fronte allo stesso uomo che anni prima gli aveva prescritto della valeriana per un piccolo tic e che adesso gli stava prescrivendo dello Xanax per un problema di autolesionismo. Il ragazzo accettò di nuovo il verdetto, tornando a casa ed inghiottendo la prima di una lunga serie di pillole non solo metaforiche.

Le cose in famiglia erano cambiate drasticamente: adesso era come se Gerard fosse il più piccolo. In quei due mesi prima della sua partenza era sempre stato obbligato a stare in compagnia di qualcuno, che si trattasse di Mikey, sua cugina, sua nonna, Andy o Ray -suo unico amico al tempo-, che nonostante fosse all'oscuro di tutto ciò che stava succedendo, era abbastanza per tenerlo sotto controllo. Ogni giorno sua madre gli controllava qualsiasi posto possibile in cui avrebbe potuto tagliarsi; era la cosa più imbarazzante che avesse mai provato, e probabilmente lo era anche per sua madre, ma i complimenti che riceveva alla fine della “perquisizione” erano l'unico motivo per cui si sentiva anche solo minimamente vivo. La pillola che era costretto ad assumere ogni santissimo giorno teneva a bada le sue emozioni; Gerard non sentiva più bianco e nero, ma solo grigio, ugualmente moderato dall'azione calmante delle compresse. Ogni giorno si guardava allo specchio e sentiva di non essere sé stesso, ed esattamente in quel momento cominciarono i problemi. Poco dopo la sua partenza, decise di prendere una decisione che avrebbe deluso tutti, ma che forse sarebbe stata l'unica cosa giusta da fare per il rispetto di sé stesso e della persona che aveva lottato tanto per costruire negli anni: smise di assumere i suoi farmaci, nascondendolo alla famiglia. Le domane a telefono d'altronde erano sempre le stesse, e non era difficile rispondere semplicemente con un “sì” e all'ultima, fatidica domanda con un “no”.

“Gerard, hai preso le pillole?”

“Sì.”

“Gerard, tutto apposto?”

“Sì.”

“Gerard, non ti stai facendo del male, vero?”

“..No.”, rispondeva ogni volta, sapendo che infondo non diceva il falso, ma sentendosi ancora completamente morto. Perché era ovvio che non era solo l'assunzione di antidepressivi ad avere effetti collaterali, ma anche l'interruzione della cura che aveva intrapreso con essi- specialmente se era fai-da-te come quella del ragazzo.

Non aveva mai voglia di uscire dalla sua stanza- per carità, non ne aveva avuta tanta nemmeno quando stava “bene”, figuriamoci adesso. Era sempre stanco e non riusciva granché a concentrarsi. Quelle poche volte che dormiva (l'insonnia era fra i principali motivi della sua stanchezza, ma quella non era una novità), dormiva per ore nonostante gli incubi, e molto spesso saltava delle lezioni senza nemmeno volerlo. Non era colpa sua: semplicemente si svegliava e si rendeva conto che erano le cinque del pomeriggio. E tutto questo andò avanti per i primi tre mesi, finché non conobbe il suo nuovo compagno di stanza: Sam.

Sam era un ragazzo della sua stessa età, sveglio, festaiolo, alto, abbronzato e biondo. Aveva l'aria del tipico ragazzo che al liceo lo avrebbe picchiato perché preferiva l'ora d'arte a quella di educazione finisca, eppure era un fotografo, e sembrò addirittura apprezzare Gerard, trascinandolo ovunque andasse e presentandolo ai suoi amici di classe.. e amiche. Fra di esse, appunto, Eva (soprannome di Eveline Perrier, ancora se lo ricordava), la sua nuova dipendenza. E parlando di dipendenze, tra l'altro, Eva sfortunatamente non era l'unica. Nonostante fosse sempre riuscito a liberarsi da esse, passati gli anni all'Accademia, quelle come alcool, droga e pillole erano ancora lì con lui, come un peso sulle spalle che doveva portare con sé continuamente. E come se non bastasse, ora che si trovava chiuso nel cesso di un McDonald's con in mano la stessa lametta che portava con sé da una settimana, aveva capito che anche quella che fra di essere temeva di più era tornata: dopo anni e anni aveva ripreso a tagliarsi, e questa volta finalmente capiva perché.

Non aveva mai ben compreso quale meccanismo della mente umana scattasse quando la gelida lama percorreva una linea immaginaria sulla sua pelle diafana e la lasciava macchiata di rosso, eppure riusciva sempre a farlo stare meglio: solo adesso capiva.

Capiva che aveva sempre sentito di meritare il dolore, implicitamente.

Quindi, da una settimana a quella parte, portava con sé quel maledetto pezzo di acciaio. Sempre. Ed era questo che faceva la differenza fra una dipendenza ed una mania: il fatto che non riuscisse a separarsi dal suo carnefice, che fosse una persona o un oggetto. Era successo con Eva, con le famose “pillole con la X”, e adesso stava succedendo con quello. Perché apparentemente non c'era niente che in quel momento riuscisse a farlo sentire completo, quindi tanto valeva farsi a pezzi.

Ignorò il rumore osceno di qualcuno che pisciava nel bagno affianco e cercò di moderare i suoi stessi singhiozzi, incidendo più profondamente possibile sui polsi, parte del corpo che aveva accuratamente evitato perché gli ricordava troppo vividamente il suo primo taglio e tutta la catena di eventi che si era susseguita dopo esso. Il suo braccio, internamente, era un disastro. Le sue cosce, poi, sembravano un campo di battaglia.. per non parlare dei fianchi, precisamente la zona poco sopra le ossa, che dopo giorni continuava a sanguinare di tanto in tanto.

Aspettò pazientemente che uscissero tutti, sperando che nel mentre non entrasse nessun altro; aveva bisogno di lavare via il liquido, del quale, cominciava a pensare dopo un minuto intero passato lì seduto sulla tavoletta abbassata del cesso, aveva già perso un po' troppo. Quando finalmente pensò di essere solo e pronto per la parte più dolorosa -niente uguagliava il bruciore che provava nel dover toccare ferite appena fresche, ma se non voleva infettarsi doveva-, vide davanti a lui l'ultima persona che avrebbe voluto vedere: Frank.

Continuarono a fissarsi, immobili e shoccati dalla situazione, Gerard completamente debole e con i peggiori capogiri della sua vita, Frank con le gambe tremolanti e lo sguardo fisso sul braccio sinistro del ragazzo, praticamente tinto di rosso. Il più grande deglutì, facendo appena un passo avanti e temendo seriamente di cadere.

«Lavati e vai immediatamente nel van.» Il chitarrista disse, monotono, e suonò più come un ordine che come una proposta o una domanda di qualsiasi genere. Gerard credeva di non averlo mai visto così incazzato in vita sua: non gli urlava contro come al solito, per poi mettersi a piangere abbracciato alla stessa persona a cui aveva poco prima tirato i peggiori insulti di sempre. Era tutto nel suo sguardo, quello che aveva da comunicargli, ed in un certo senso era meglio così.

Frank andò via, sbattendo la porta, e Gerard eseguì.

E strada facendo, ebbe finalmente il coraggio di liberarsi dal suo carnefice.

 

**

 

Allora, okay.

Premettendo che questo capitolo mi piace proprio tanto............. continuo a non sapere se sia in qualche modo coerente con la vita reale.

Nel senso, non conosco l'autolesionismo in prima persona e non so se sia possibile che cominci così e mi scuso se ho sparato una marea di cazzate anche con tutte quelle persone che ci convivono ogni giorno, non so se comprendete (?)

Tutta st'idea un po' malata nacque sentendo Pretty Handsome Awkward dei The Used, che si vocifera sia dedicata a Gerard e ha una frase che dice qualcosa come “You bleed just like you puke while running a mile”...

Mi sono seriamente evitata di analizzare quel “puke” per non arrivare a cose che non avrei saputo nemmeno gestire e mi sono concentrata sul “bleed” c:

Però sta a voi dirmi se questa concentrazione è effettivamente servita a qualcosa. (?)

Il titolo non sto nemmeno a dirvi da dove l'ho preso (<333333) e spero davvero che vi facciate vive (?)

(MANCANO SOLO DUE CAPITOLI BITHCES)

Sciaooooooo <3<3<3

   
 
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