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Autore: Patta97    10/04/2013    4 recensioni
Posò lo sguardo sull’unica figura della stanza nello stesso istante in cui quella alzava gli occhi su di lui.
Così il 23.03.2010 alle 11:20:05, John Hamish Watson incontrò il suo Soulmate e sentì che il centro del proprio personalissimo universo veniva bruscamente spostato da se stesso a quella nuova, meravigliosa e perfetta creatura.

Note: Soulmate!AU; Johnlock
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Hola!
Prima mia one-shot così lunga (7.305 parole e 19 pagine Word) e prima mia AU. Ho deciso di scegliere una Soulmate semplicemente perché non potevo non farlo, dopo aver letto le splendide Meant to be Alone di Yoko Hogawa e Una porta di vetro e notte di e m m e. Inoltre vagabondando nei siti inglesi ho letto un prompt di farawisa, secondo il quale i Soulmate toccandosi potessero sentire i pensieri l'uno dell'altro. Da cosa nasce cosa e il risultato è... questo: una specie di universo alternativo in cui si nasce con impresso sul polso la data in cui si incontrerà il proprio Soulmate; questa Data sparisce entro il primo o il secondo anno di età, ma i bambini la imparano a memoria quasi di riflesso, praticamente come si sa il proprio nome.
Nel capitolo si seguirà A study in Pink, soprattutto nella parte centrale. In quella iniziale il punto di vista sarà di John (con scene e incubi piuttosto angst sul periodo di guerra) e i restanti tre quarti si guarderà dagli occhi del nostro sociopatico.
Spero non chiuderete la pagina prima della fine, ci vediamo giù.
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Close in an instant



Quando John Hamish Watson nacque, pesava tre chili e mezzo e il suo primo strillo assicurò la robustezza dei suoi piccoli polmoni.
 
I medici dell’ospedale annotarono sulla cartella clinica i dati relativi alla nascita; poi, con la maggior discrezione possibile e con l’ausilio di una lente d’ingrandimento, un’infermiera esaminò e trascrisse la data e l’ora esatta dell’Incontro che il neonato avrebbe affrontato, un giorno.
 
Alla fine di queste azioni di routine, il piccolo fu affidato alle cure dei genitori e della sorellina di cinque anni, la quale osservava con occhi stupefatti le enumerazioni sul piccolo polso.
 
La piccina non aveva mai visto una Data: le cifre sparivano dopo il primo anno d’età e, sui suoi libri pieni di figure, non c’erano fotografie che ritraessero quella particolare e misteriosa incisione.
 
Harriet Watson non sapeva esattamente cosa fosse, perché la madre rispondeva sempre enigmaticamente alle sue domande piene di curiosità. La bambina sapeva solo che, quando sarebbe arrivata alla Data sul polso, nel secondo esatto, allora le sarebbe accaduto qualcosa di stupendo, come nelle fiabe: un Incontro che avrebbe cambiato la vita.
 
*
 
John prese un respiro profondo e si guardò intorno per l’ennesima volta.
 
La stanza era quadrata e le pareti di cemento scuro. Sembrava un piccolo e claustrofobico bunker, con nulla dentro. Non ricordava come ci fosse finito e non una sola porta era lì ad indicare come era potuto entrare lì dentro.
 
Poi John sentì di avere qualcuno dietro di lui che lo fissava e strinse più forte il fucile nelle proprie mani.
 
Si girò lentamente, con l’indice sinistro pronto a premere sul grilletto.
 
Ma alle sue spalle vi era solo un tabellone automatico, come quelli delle partite a basket.
 
Scritti lì a numeri cubici e rossi non vi erano i punteggi di due squadre avversarie: si trattava di una data. La Data. Per l’esattezza, la Data di John.
 
Il ticchettio si fermò quando John osservò il tabellone: 23.03.2010 11:20:05.
 
Il soldato rimase ad osservare quei numeri, che sapeva a memoria, in eterno o forse giusto il tempo necessario perché tutto quello gli ricordasse quanto odiasse la propria Data. Rimase fermo, col fucile in mano, ansimante e sudato, spaventato e perduto…
 
Poi lo udì: il pianto.
 
Guardò per terra, sul pavimento lercio, e scorse un corpo magro, nudo e scosso da singhiozzi, raccolto in posizione fetale.
 
Sempre rimanendo in guardia e stringendo convulsamente l’arma, si accovacciò accanto alla macabra figura.
 
L’uomo, parecchio anziano e deperito, rivelò il proprio volto e John sobbalzò, strisciando via il più veloce possibile scalciando.
 
Ma il vecchio era innocuo ed immobile, si limitava a fissarlo con il volto – il volto di John – rugoso e con gli occhi inverosimilmente infossati e vuoti. John allora si alzò da quella posizione vergognosa e si diede un contegno, avvicinandosi nuovamente.
 
Restò in piedi, stavolta, limitandosi a guardarlo dall’alto.
 
Allungava una mano verso di lui, ma non riusciva a parlare, emettendo sospiri e rantoli e sbuffi, troppo lontani dalle parole per sembrare che volesse parlare con John.
 
- Come posso aiutarti? – chiese il soldato, disperato ed angosciato, dopo interminabili minuti di sguardi vuoti e smorti.
 
Il ticchettio alle spalle di John riprese, ma non sapeva cosa significasse.
 
Una goccia di sudore gli scese dalla tempia mescolandosi a una lacrima solitaria e cadendo fra i capelli grigi e sporchi del vecchio.
 
Quel corpo si riscosse e parve trovare la forza di parlare.
 
- Trovalo! – urlò con voce roca e John sobbalzò di nuovo, impietosito e spaventato. – Trovalo! Trovalo! Trovalo! -.
 
Continuava a gridare con l’ultima aria che aveva nei polmoni e si mise in ginocchio, mettendo in mostra un costato visibile sotto un sottilissimo strato di pelle e un buco. Un enorme, inquietante, lacerante buco dove avrebbe dovuto trovarsi il cuore, un buco dai margini tagliuzzati e impastati da sangue rappreso.
 
John provò a distogliere lo sguardo da quell’orrenda visione, ma quel relitto continuava a urlare e urlare e urlare, aggrappandoglisi ai vestiti mimetici e tirandolo verso il basso.
 
Quando il soldato cadde accanto a lui, l’uomo rafforzò – con una potenza inaudita per quella piccole braccia – la presa sui lembi della giacca verde e appoggiò una guancia rasposa e rugosa su quella di John.
 
Le labbra secche si attaccarono all’orecchio dell’altro e rimasero fermi per un attimo, ansimando. John strinse gli occhi, perché sapeva perfettamente cosa quella macabra versione di se stesso nel futuro gli stava per bisbigliare con quella voce isterica, roca e al limite della follia.
 
- Trovalo il 23 Marzo. Trovalo a quell’ora. Trovalo… trovalo… - sussurrò e poi la presa cedette e il vecchio cadde a terra.
 
John tentò ancora di allontanare la propria vista da quegli occhi svuotati e spalancati, da quel rivolo di bava che colava impietoso da un angolo della bocca, ma si accorse che non poteva.
 
Non poteva perché semplicemente quel corpo era il suo ed era lui che sarebbe restato a guardare quel tetto di cemento scuro in eterno, mentre il buco nel petto sarebbe rimasto inesorabilmente vuoto, la tana di vermi, topi o scarafaggi…
 
*
 
Il giorno dopo John era spossato e tremava.
 
Essendo un soldato, ma anche un medico, e trovandosi nel mezzo di un paese Afgano attaccato dai nemici, non poteva permettersi cose come stupidi tremolii alle mani e spasmi respiratori. Eppure li aveva.
 
Aveva sempre saputo – e studiato – che, avvicinandosi il momento del proprio Incontro, si potevano avvertire quelle sensazioni, insieme a nausee notturne e mal di testa continui: erano semplicemente il corpo e la mente che si preparavano psicologicamente e fisicamente a ricevere il proprio Soulmate.
 
Ma sussulti come quelli non erano l’ideale mentre si cercava di ricucire tagli o estrarre pallottole.
 
John si ritirò in un angolo della tenda, calda come una serra di vetro, ad osservare i propri commilitoni, più giovani o più vecchi di lui, che si lamentavano e gli altri medici che cercavano di rimediare come potevano. Fuori si udivano urla, sospiri, qualche sparo e, a tratti, silenzi che facevano pensare agli scenari peggiori.
 
Era il dieci gennaio e tra poco più di due mesi avrebbe incontrato il suo Soulmate. Mancavano solo settantadue maledetti giorni e lo avrebbe visto. Non sapeva se fosse una ragazza o un ragazzo, ma poco importava: sarebbero stati anime gemelle, l’uno fino alla morte dell’altro, non compagni passeggeri o per divertimento.
 
Era una cosa seria e a John venne il voltastomaco. Lui era lì, nel deserto, inibito da odore di sudore, disinfettante, sangue e sabbia, mentre la sua anima gemella era a Londra, di sicuro.
 
Era una sensazione che si provava a fior di pelle, quella di sapere dove dover essere: il posto giusto al momento giusto.  E John sapeva che era da qualche parte a Londra, quel posto.
 
Un suo compagno venne portato dentro la tenda sopra una barella sorretta da due giovani infermieri spaventati e inesperti. Il soldato aveva un braccio insanguinato e una gamba maciullata, sicuramente da un crollo di macerie.
 
I due ragazzi chiamarono John per aiutarli, cercandolo con lo sguardo ma non riuscendo a scorgerlo, nascosto com’era.
 
John uscì di corsa dal rifugio, scontrandosi con l’aria tremolante e ustionante del deserto.
 
Uno scenario di bambini aggrappati alle madri morte e di donne che stringevano cadaverini gli si presentò davanti agli occhi. Ragazzi coraggiosi e padri di famiglia da entrambe le parti che si ammazzavano, separati solo da ottusità e da un mirino di precisione.
 
Qualcosa attirò il suo sguardo: un bimbetto col moccio che scendeva dal naso e si riversava nella bocca spalancata per le urla del pianto; i denti da latte scoperti e giallastri, gli occhi spalancati dal dolore mentre strattonava con veemenza il corpo senza vita di un uomo, sicuramente il padre.
 
John si chinò accanto a lui, cercando di rassicurarlo, ma il bambino continuava a piangere copiosamente, urlando, rappresentando alla perfezione tutto ciò che stava loro intorno.
 
John gli scacciò una mosca dai capelli neri e provò a prenderlo in braccio. Fu una fatica più morale che fisica staccare quelle manine scure dal cadavere riverso fra la polvere.
 
Il soldato se lo issò sulle spalle e ripercorse i propri passi diretto alla tenda.
 
Poi successe, il suono secco di un proiettile sparato che fendeva l’aria e si conficcava nella sua spalla destra. John cadde, soffocando il bambino col proprio peso.
 
John cadde e si sentì morire in una bolla: non lo avrebbe mai conosciuto.
 
L’incubo notturno forse era stato premonitore: il suo corpo si sarebbe incartapecorito in una fossa, con un buco al posto del cuore.
 
Non aveva più senso, nulla aveva più senso.
 
Trovalo… trovalo… trovalo… sentì rimbombare nella propria testa prima di svenire fra lacrime e dolore.
 
*
 
Settantadue giorni dopo, John si alzò e rifece il letto con una mano, appoggiandosi al bastone.
 
Bevve una tazza di tè e osservò svogliato la mela lucida che aveva appoggiato accanto al portatile.
 
Era il 23 Marzo e non sapeva cosa fare: rimanere dentro casa?
 
Lanciò un’occhiata al triste orologio a parete: le sette del mattino. Quattro ore, venti minuti e cinque secondi e lo avrebbe incontrato. L’ansia da prestazione gli chiuse lo stomaco e gettò la mela nell’immondizia.
 
Erano poche le possibilità di incontrarlo chiuso dentro quello squallido appartamento e optò per uscire: magari una passeggiata al parco.
 
Al suo Soulmate piacevano i parchi? Stare all’aria aperta?
 
John sperò che non gli piacessero i posti caldi, perché il solo pensiero era per lui troppo doloroso e con un  tremolio alla spalla sinistra e un cedimento della gamba, qualsiasi conversazione si sarebbe chiusa.
 
Ma la sua anima gemella sarebbe stata perfetta per lui e non ci sarebbero stati fraintendimenti di quel tipo.
 
Mentre entrava nella doccia per darsi una veloce lavata, un altro pensiero gli annebbiò la mente: perfetta per lui, ma lui sarebbe stato perfetto per il suo o la sua Soulmate?
 
Erano sempre più frequenti casi come quello: si aveva un Incontro unilaterale e “non corrisposto”. Si era semplicemente il Soulmate di qualcuno che lo era di un altro.
 
Nel mese precedente, costretto in una stanza d’ospedale sintonizzata sempre su canali di talk show spazzatura, John aveva udito parecchie interviste a singhiozzanti e patetici partner, che si ritrovavano ad amare persone che appartenevano ad altri, le vite ridotte a quelle di un cane bastonato dal proprio padrone. Dicevano che vedere gli occhi dell’amore della propria vita brillare incrociandosi con quelli di qualcun altro era come… come morire un po’, ogni volta.
 
Il medico uscì dalla doccia e si asciugò con l’asciugamano, sperando di spazzare via quei brutti pensieri insieme alle goccioline d’acqua.
 
La sua vita era stata un inferno, fino a quel giorno: aveva o no diritto anche lui a un po’ di felicità?
 
*
 
10:45:00.
 
John controllò per l’ennesima volta l’ora mentre zoppicava attraverso il parco, cercando di non guardarsi attorno speranzoso come un bimbetto in un negozio di caramelle.
 
- John! John Watson! -.
 
John s’immobilizzò e cercò di fermare il cedimento di gambe, ancorandosi al bastone. Tentò di razionalizzare: non poteva essere lui. Non era ancora l’Ora.
 
Prese un respiro e si voltò col sorriso di circostanza più convincente che riuscisse a fare in quello stato di stress.
 
Fu strano per lui riconoscere il viso troppo tondo di Mike Stamford.
 
*
 
John non sapeva perché stava ansimando su per le scale del St. Bartholomew’s Hospital al seguito di un suo vecchio compagno di college a due minuti e tre secondi mancanti al suo Incontro.
 
Trovare un coinquilino non era assolutamente la sua priorità, al momento: lo era trovare il suo Soulmate.
 
- Scusami per le scale – ansimò Mike, più affannato di lui. – Ma l’ascensore è rotto, di nuovo -.
 
- Non c’è problema – replicò John non appena arrivati al piano corretto: laboratori di chimica.
 
Lasciò che Mike lo precedesse, zoppicandogli un passo dietro.
 
- Il tuo amico. È un chimico? – chiese distrattamente, gettando un’altra occhiata all’orologio: un minuto.
 
L’altro dottore scoppiò in una breve risata. – Lui è un po’ tutto, credo che i nostri due cervelli messi insieme non facciano il suo QI – rivelò, scuotendo piano la testa. – E sta tranquillo, lui non lascia passare giorno in cui non te lo ricordi -.
 
Si fermarono davanti a una delle porte. – Svariate volte – aggiunse con un sorrisetto amaro, prima di abbassare la maniglia e spingere la porta per lasciare passare John.
 
Mancavano cinque secondi e il medico militare si chiese perché diavolo fosse andato lì invece di cercare il luogo dell’Incontro, mentre entrava in un laboratorio asettico affollato da microscopi e computer di ultima generazione.
 
- Be’, molto diverso dai miei tempi! – commentò John.
 
Quella fu l’ultima frase coerente della sua vita. In seguito si pentì che fosse stata così stupida, superficiale e stonata col contesto armonico di ciò che sarebbe successo di lì a un millesimo di secondo.
 
Posò lo sguardo sull’unica figura della stanza nello stesso istante in cui quella alzava gli occhi su di lui.
 
Così il 23.03.2010 alle 11:20:05, John Hamish Watson incontrò il suo Soulmate e sentì che il centro del proprio personalissimo universo veniva bruscamente spostato da se stesso a quella nuova, meravigliosa e perfetta creatura.
 
 
 
 
 
Sherlock si sentì stordito.
 
In un attimo, in un secondo, poté dire di essere radicalmente cambiato, mutato nel DNA.
 
Aveva potuto avvertire ogni cellula del corpo trasformarsi e il cuore iniziare a battere con un ritmo differente e rabbioso.
 
Tutto a un tratto, le sue gambe protestavano, perché volevano andare incontro a quelle dello sconosciuto. Le mani esigevano di staccarsi dalle manopole del microscopio per dedicarsi allo scopo di esplorare il volto e i capelli di quell’uomo anonimo, attorno a cui girava l’intero universo.
 
Si sentì scoperto, annichilito, annullato: era inebriante e spaventoso, eccitante e nauseante.
 
In un secondo il suo brillante cervello capì che era stata l’Ora, era accaduto il suo Incontro. Quello zoppo di bassa statura e dagli occhi smarriti dentro i suoi… era il suo Soulmate.
 
Abbassò lo sguardo per sottrarsi a quello dell’altro, così bisognoso e innamorato come sapeva essere stato il suo, per un istante da dimenticare.
 
Una rapida occhiata a Mike Stamford e capì che quell’uomo sarebbe voluto diventare il suo coinquilino. Sarebbe. Avrebbe comunque voluto, adesso? Anche dopo ciò che aveva idea di fare?
 
Mentire era sempre stato facile, per Sherlock. Alterare la verità, la realtà, sarebbe stato diverso ora che ogni fibra del suo stesso essere gli era contro? Ora che era coinvolto?
 
Aveva avuto sei secondi per pensare: se ne fossero passati più di otto Mike si sarebbe insospettito e la bugia non avrebbe retto con lui.
 
Così blindò risoluto tutte quelle domande e le richieste d’aiuto del suo cuore in un angolo remoto della sua testa e decise: mentì.
 
- Mike, potresti prestarmi il telefono? – chiese Sherlock con il tono di voce meno spezzato che riuscì a fare. – Il mio non ha segnale -.
 
- Che c’è di male nella rete fissa? – domandò Mike.
 
Sherlock non rivolse gli occhi al cielo solo perché troppo occupato a non correre incontro a lui e abbracciarlo forte.
 
- Preferisco i messaggi – rispose spiccio.
 
Mike si controllò brevemente nelle tasche. – Scusa, è nel cappotto -.
 
Sherlock sospirò rincuorato da quell’ovvia risposta: non restava che sperare in…
 
- Ecco, usi il mio – disse la sua voce. Era rotta, incerta: stava pensando al peggio, eppure gli stava facendo un’offerta cordiale. Una persona buona.
 
Quanto è stato ingiusto il destino con te. rifletté rivolto a lui, mentre gli si avvicinava.
 
- Oh, grazie – si limitò a dire.
 
Mentre gli tendeva il cellulare, lui cercava il suo sguardo: tentava di capire se Sherlock stesse provando lo stesso.
 
E se con “lo stesso” si intendevano battiti accelerati, nervi a fior di pelle, bocca arida e spossatezza, allora sì: stava provando esattamente e dolorosamente lo stesso.
 
- È un mio vecchio amico, John Watson – si spiegò Mike.
 
Sherlock interruppe la sua avanzata per un secondo, increspando le labbra in un sorriso ebete che si affrettò a cancellare: John. Un nome semplice.
 
Ignorò il suo sguardo bisognoso e afferrò il cellulare.
 
Costoso, incisione, regalo: fratello. Zoppia psicosomatica, abbronzatura: soldato.
 
- Afghanistan o Iraq? – chiese per completare il suo puzzle mentale, per poi appenderlo in bella vista in una stanza del suo Palazzo e custodirlo come un avaro.
 
- Mi scusi? – chiese lui, John, sempre più spaesato.
 
- Dove è successo? In Afghanistan o in Iraq? – disse nuovamente, sperando che quella lentezza fosse momentaneamente dovuta agli ormoni in subbuglio.
 
- Afghanistan – rispose John. – Scusa, ma come…? -.
 
La porta del laboratorio si aprì ed entrò Molly.
 
- Ah, Molly, caffè, grazie – salutò, ritornando il cellulare a lui e allontanandosi un po’, anche solo per riprendere fiato.
 
- Cos’è successo al rossetto? – chiese poi alla patologa, incapace di non far notare al proprio cervello particolari così insignificanti anche in quello stato.
 
- Non mi stava bene – pigolò Molly, tormentandosi le mani.
 
- Davvero? Lo trovavo un grosso miglioramento. La tua bocca è troppo… piccola, ora – commentò Sherlock, bevendo dal bicchiere di carta un sorso generoso di caffè bollente.
 
- Okay… - sussurrò la dottoressa prima di uscire nuovamente.
 
- Cosa ne pensa del violino? – chiese allora Sherlock, ansioso di andarsene di lì per riflettere.
 
- Mi scusi, cosa? – disse John, confuso.
 
- Suono il violino mentre penso e a volte non parlo per giorni. Le dà fastidio? Dei potenziali coinquilini dovrebbero conoscere i difetti dell’altro – spiegò l’altro, allacciandosi la sciarpa e indossando il cappotto con qualche difficoltà: anche imbarazzo e scoordinamento erano cause dell’Incontro, evidentemente.
 
- Gli hai parlato di me? – sbottò John, rivolto a Mike.
 
- Non una parola – rispose quello, candidamente, con un sorrisetto divertito.
 
- Allora chi ha parlato di coinquilini? – domandò ancora il soldato.
 
- Io – disse Sherlock, guardandolo, ma non negli occhi. – Stamattina ho detto a Mike che sarebbe difficile per me trovare un coinquilino. Ora è tornato, chiaramente tornato a casa dopo il servizio militare in Afghanistan. Non è stato difficile da capire -.
 
- Come faceva a sapere dell’Afghanistan? – chiese John, chiudendo prima gli occhi, per un istante, come se stesse invocando chissà quali entità ultraterrene.
 
Forse stava chiedendo loro la forza per non cadere tramortito, proprio come Sherlock.
 
- Ho messo gli occhi su un posticino niente male nel centro di Londra, insieme dovremmo potercelo permettere. Incontriamoci lì domani sera alle sette in punto – lo informò. – Scusi, ma devo andare, credo di aver scordato il mio frustino all’obitorio – aveva davvero tanta fretta di andarsene.
 
- Quindi è tutto? – la voce di John trapanò le orecchie di Sherlock, con già una mano sulla maniglia.
 
Si girò a guardarlo: si era schiarito la voce con un colpetto di tosse e gli occhi tenevano stretti domande troppo dolorose e importanti da porre.
 
- È tutto cosa? –. Sperava davvero che non intendesse affrontare quell’argomento lì, davanti a Mike, senza che Sherlock avesse potuto riflettere un po’ sull’accaduto.
 
- Ci siamo appena incontrati, e lei vuole dividere un appartamento con me? -.
 
Sherlock realizzò che, fra tutte le perplessità possibili, quella era davvero la più stupida da palesare.
 
- Problemi? – chiese alzando un sopracciglio. C’erano davvero troppe domande perché quella potesse essere classificata come una conversazione.
 
- Non sappiamo niente l’uno dell’altro. Non so dove ci dovremo incontrare, non so nemmeno il suo nome – rispose il soldato. Non so se anche lei è il mio Soulmate o se sono rimasto fregato. Sherlock poté leggergli quell’altra affermazione sulla fronte.
 
- So che lei è un medico militare, e che è stato ferito in Afghanistan. Ha un fratello preoccupato per lei, ma non vuole andare da lui per chiedere aiuto, perché non lo approva, forse perché un alcolizzato, più probabilmente perché ha rotto di recente con sua moglie. E so che la sua terapista pensa che la sua zoppia sia psicosomatica, abbastanza corretto, temo. Questo è abbastanza, non crede? – snocciolò, per poi praticamente correre all’uscita. Dopo di che si fermò di colpo e si affacciò alla porta. – L’indirizzo è il 221B di Baker Street e il mio nome è Sherlock Holmes – aggiunse.
 
Sherlock poté leggere la sorpresa sul volto di John nell’apprendere il suo nome, giusto un attimo prima di mormorare un “buon pomeriggio” a Mike e di correre via, come se fosse stato inseguito dal peggiore dei criminali.
 
*
 
Fu solo dopo qualche ora, mentre riesaminava l’Incontro in ogni minimo dettaglio, che si accorse di aver strizzato involontariamente l’occhio, piegandolo in un occhiolino con tanto di schiocco delle labbra. E allora maledisse il proprio corpo e le proprie stupide emozioni da Incontro.
 
Se solo John fosse stato intelligente un quarto di quanto lo fosse lui, avrebbe potuto scambiare quel gesto involontario come un segno di intesa, o, peggio, di speranza.
 
Ma con lui e per lui la speranza era un’incognita da scartare, una busta da non aprire, un regalo da rifiutare. Non c’era nulla che potesse richiamare alla speranza, in Sherlock Holmes. E lui non doveva commettere mai più un errore come quello.
 
L’errore più madornale, comunque, era stato quello di andare a vivere insieme. Sarebbero stati coinquilini solo per le spese, si sarebbe sforzato di essere il più distaccato possibile.
 
Oltre a un primordiale senso di autoconservazione – perché sembrava impossibile per Sherlock guardare lui senza provare un piacevole senso di distruzione interiore -, vi era anche una parte di altruismo: sentimento nuovo e apparentemente del tutto immotivato, ma c’era.
 
Mentre giaceva sdraiato sul divano di quello che, ne era certo, sarebbe divenuto il loro appartamento, non riusciva a formulare pensieri lucidi o coerenti senza che la faccia – diventata familiare con estrema e disarmante facilità – di John Watson occupasse tutto come una macchia gigante su una lente d’ingrandimento.
 
La paura che John scappasse di fronte al suo rifiuto era inaccettabile. Anche se si sarebbero visti anche solo durante una riunione mensile seduti al tavolo della cucina per dividersi le spese delle bollette, vivere con lui era un’allettante attrattiva ed era necessario. Vederlo era necessario come respirare e lo aveva visto e studiato solo una volta.
 
Sperò con tutto se stesso che quel sentimento gonfio come un palloncino pieno di elio sarebbe stato capace di volare via e non di scoppiare al momento meno opportuno.
 
*
 
Quando il taxi accostò di fronte al 221B, Sherlock scese come un lampo trovando John ad attenderlo davanti alla porta scura.
 
Mollò il costo della corsa al tassista e prese un bel respiro.
 
Era stato fuori tutta la mattina: aveva un solo caso fra le mani e, stranamente, non gli andava di vegetare sul divano insieme a qualche cerotto alla nicotina. Aveva sbollito un po’ di frustrazione fisica camminando dalle undici del mattino fino alle sei e mezza del pomeriggio, quando aveva chiamato il taxi per arrivare in tempo all’appartamento, dall’altra parte di Londra.
 
- Salve – salutò, cercando di suonare il più amichevole possibile.
 
- Signor Holmes… - disse John. Aveva occhiaie pesanti sotto gli occhi: sicuramente non aveva dormito per tutta la notte.
 
- Sherlock, la prego – lo corresse l’altro, automaticamente, e gli porse la mano.
 
Fu un gesto semi involontario, compiuto praticamente di riflesso: la convenzione sociale e il desiderio di contatto fisico avevano avuto la meglio sul buon senso, per entrambi.
 
Le loro mani si strinsero e una potente scarica elettrica si propagò dal palmo e dai polpastrelli di Sherlock per arrivargli dritta nel cervello come una dose di cocaina, bruciando tutto quello che trovava lungo il passaggio: organi, muscoli, tessuti, vene, capillari, nervi e cuore. Il cuore fu stretto in una morsa senza scampo e ridotto a una pompa annerita, incendiato dalla chimica naturale, quella solo loro.
 
Sposarono subito le mani e Sherlock fece finta di nulla, John fu meno bravo a dissimulare la potenza del contatto appena subito e donato. Fu lui, comunque, a rompere per primo il silenzio.
 
- Un quartiere di lusso – commentò. – Deve essere molto costoso -.
 
- La signora Hudson, la proprietaria, mi fa un prezzo speciale, mi deve un favore – spiegò Sherlock, dissimulando il proprio turbamento interiore con un aggrottamento di sopracciglia, facilmente scambiabile per un ostentazione di modestia. John avrebbe presto capito che “modestia” non era una parola presente nel suo vocabolario.
 
- Qualche anno fa, suo marito fu condannato a morte in Florida, io riuscii ad aiutarla – continuò, guardando da qualsiasi parte che non fosse il viso di John, deducendo qualsiasi cosa attorno a lui che non fosse l’espressione del medico.
 
- È riuscito a bloccare quell’esecuzione – completò il soldato, con tono incerto.
 
- Oh, no. La confermai – sorrise Sherlock all’espressione basita dell’altro.
 
Per fortuna, la padrona di casa si decise ad aprire la porta. – Caro Sherlock! – esclamò, abbracciandolo.
 
Sherlock si beò di quel contatto materno, fresco e avvolgente dopo quello scottante con… lui.
 
- Signora Hudson, il dottor John Watson – li presentò, con un lieve sorriso.
 
- Piacere -.
 
- Si accomodi – invitò lei, cordiale.
 
Sherlock precedette John lungo i consumati diciassette gradini e aspettò che salisse anche lui per aprire la porta dell’appartamento.
 
Il 221B si presentò loro come la più confortevole e la più disordinata delle dimore. Proprio come Sherlock. Forse fu per questo che a John piacque subito così tanto, che si sentì a casa tanto presto.
 
- Potrebbe essere delizioso – commentò infatti il medico, dopo aver lasciato vagare lo sguardo sul salotto pieno di scatole e oggetti alla rinfusa. – Davvero delizioso -.
 
- Sì. Sì, lo credo anch’io – concordò Sherlock, dondolando leggermente sul posto.
 
E poi parlarono nello stesso istante.
 
- Per questo ho già traslocato… - disse Sherlock. – Una volta tolta tutta questa robaccia… - disse John. E si guardarono.
 
Il fraintendimento a parole fu spigliato e disinvolto in confronto all’imbarazzante disagio che seguì, mentre si rendevano entrambi conto di essere per la prima volta soli nella stessa stanza. Completamente soli.
 
Sherlock si allontanò di scatto e iniziò a spostare le proprie cose da un posto per poi rimetterle in un altro, dove creavano ancora più confusione. Infilzò persino delle carte con un piccolo pugnale, sulla mensola sopra il camino: la signora Hudson si sarebbe infuriata.
 
Odiava tutta quella tensione, sperava davvero che passasse il più presto possibile.
 
- Quello è un teschio – osservò quindi John, indicando il cranio umano appoggiato sul camino.
 
Sherlock studiò la sua reazione con un piccolo sorriso. – Un mio amico – chiarì Sherlock. – E con amico intendo… - lasciò volutamente la frase in sospeso, infilandosi le mani nelle tasche del cappotto.
 
Fu una fortuna che quel giorno la padrona di casa possedesse un tale tempismo a salvarli da momenti di profondo imbarazzo. – Che ne pensa, dottor Watson? – chiese la donna, entrando nel salotto con le mani sui fianchi.
 
- C’è un’altra stanza da letto, di sopra – comunicò, alzando gli occhi al soffitto. – Se vi occorrono due stanze da letto… -.
 
- Certo! – la voce di John, due ottave più acuta del solito, fece voltare Sherlock: non sapeva se sentirsi ferito, divertito o in colpa.
 
Il medico si schiarì la voce per farla tornare normale. – Certo che ne occorrono due -.
 
Sherlock optò per un sorriso nascosto.
 
*
 
Il rumore della candela che veniva poggiata sul tavolo di legno fece risvegliare Sherlock dai suoi pensieri.
 
Stava pensando a John. Cosa alquanto stupida, perché John era seduto di fronte a lui.
 
Eppure quel grattare di vetro sul legno aveva distolto la sua mente dallo studio di una parola: fantastico.
 
Quante volte aveva detto, sentito, letto quell’aggettivo superlativo? Aveva vari significati e sinonimi a seconda dell’uso: stravagante, insolito, stravagante, falotico, fuori dal comune, straordinario.
 
John, solo un paio d’ore prima, davanti al cadavere di una donna vestita interamente della stessa improponibile tonalità di rosa, davanti a Lestrade, davanti all’intera casa piena di insopportabili e zotici agenti di Scotland Yard… lo aveva definito “straordinario”.
 
Sherlock gli aveva letto quella stessa parola almeno altre dieci volte da quando lo aveva conosciuto la mattina precedente, intesa in ogni sua sfumatura di significato. Ma quella volta, dopo le sue deduzioni, il medico militare lo aveva palesato a voce alta.
 
Si concentrò sul brillio soffuso della piccola fiamma, carezzandola con lo sguardo.
 
Perché ci si ostinasse a dire che il fuoco fosse fatto esclusivamente di colori caldi era un mistero, per lui. Vi erano sfumature tra l’amaranto spento e l’azzurro, a seconda di quanto rapido fosse il processo di ossidazione esotermica di gas del combustibile.
 
La fiamma di una candela, in particolare, per quanto flebile e facile da soffiare via, racchiudeva dentro di sé un grande mistero: era fatta di blu e giallo pallido, poteva quasi apparire glaciale; eppure emanava un aura di calore, bruciava ossigeno, emetteva luce grazie alle sue molecole che si diffondevano nello spazio.
 
In quel, Sherlock si sentiva proprio come la fiamma di quella candela. Ed era un pensiero alquanto stupido. Lui era un uomo letterato, certo, e conosceva tutte le regole grammaticali inglesi e di almeno altre cinque lingue, ma non era mai riuscito a cogliere appieno le metafore.
 
Eppure, in quella sera piena di contraddizioni, lui si paragonava a quella specifica fiammella di quella specifica candela.
 
Due ore prima, John lo aveva acceso pronunciando quell’aggettivo con tono ammirato, improvvisamente e inaspettatamente come Angelo aveva accostato l’accendino allo stoppino ricoperto di cera. Lui era stato illuminato dal suo Soulmate, e poi posto sul tavolo della loro vita grattando la superficie, solo per rischiarare e far luce, solo per bruciare, solo per emanare calore, solo per apparire comunque distaccato e freddo.
 
- La gente non ha acerrimi nemici – disse improvvisamente John, alzando gli occhi dal foglio giallo del menu.
 
Sherlock sollevò lo sguardo dalla candela e lo guardò, interrogativo. – Mi scusi? – si sforzò di dare del lei, nonostante dentro se stesso stesse iniziando ad accettare appieno quell’ingombrante sentimento nei suoi confronti.
 
- Nella vita reale – precisò il dottore. – Non esistono acerrimi nemici -.
 
- Davvero? – il consulente investigativo alzò brevemente un sopracciglio. – Mi sembra un po’ limitato -.
 
- Chi era quel tipo? – chiese ancora John, evidentemente sperando di prenderlo in contropiede.
 
Ma a Sherlock non andava per nulla di parlare di Mycroft o di spiegare cosa fosse per lui: “fratello maggiore” suonava riduttivo o eccessivo. – Che cos’hanno le persone reali nella… vita reale? –.
 
- Amici. Persone che conoscono, che apprezzano, che non apprezzano – l’altro bloccò per un istante il proprio elenco e lo guardò di sottecchi. – Soulmate -.
 
- Un po’ limitato – sbottò. – Credo -.
 
- Lei non ha un Soulmate? – sputò fuori John. Gli stava davvero facendo quella domanda? Non capiva che quell’Incontro l’aveva provato pure lui? Che la Data di John era identica a quella che era sbiadita sul polso di Sherlock entro il primo anno d’età?
 
- Anime gemelle? No, non è il mio genere – rispose il consulente, spostando lo sguardo sulla strada, in cerca del loro serial killer.
 
John si fermò con un boccone a mezz’aria e lasciò ricadere la forchetta nel piatto. – Oh, certo. Vedovo o in attesa? -.
 
Sherlock arcuò ancora di più un sopracciglio per dissimulare la propria voglia di ridere: già, John non capiva davvero. Decise di non rispondere.
 
Poté chiaramente sentire il respiro di John farsi irregolare mentre cercava di ricominciare a mangiare. Forse pensava di aver fatto una domanda eccessiva, troppo invadente.
 
Sherlock si morse il labbro per non ridere, pensando al momento in cui gli avrebbe detto quanto fosse stato stupido a non dirgli immediatamente che l’Incontro fosse stato reciproco e pienamente condiviso.
 
Non ebbe comunque molto tempo per farlo, perché ci fu la corsa dietro a un taxi e un tassista che lo attendeva, ritornando al 221B di Baker Street.
 
*
 
L’uomo aprì la porta di legno e accese le luci. Erano nella terzultima stanza del primo piano dell’edificio gemello a destra.
 
- Che ne pensa? – chiese con quella vocetta acuta, fastidiosa, calcolatrice.
 
- Mi dica lei – soppesò Sherlock teatralmente, analizzando con sufficienza le innumerevoli superfici lisce e lucide dei tavoli in mogano, le sedie di finta pelle nera, i pilastri spogli.
 
- È lei che morirà qui – rispose l’altro, mellifluo.
 
- No, affatto – Sherlock corrugò la fronte, quasi indispettito. Semplicemente non poteva permettersi di morire: aveva cose da dire, confessare, fare nell’immediato futuro. Sarebbe stata solo una partita, una banale e noiosa partita a scacchi.
 
*
 
Non era sicuro. Non ne era sicuro per niente.
 
Sherlock si sforzava di mantenersi lucido e obiettivo, ma sentiva pervadersi da una certa ansia. Un’ansia non sua. Era stato seduto e non aveva fatto nessuno sforzo fisico, eppure aveva il cuore a mille come se stesse correndo per corridoi senza fine con un’angoscia estrema addosso.
 
Ma doveva concentrarsi, pensare, esternare quelle sensazioni non sue: chi era lo “sponsor”? Chi era il suo “ammiratore”? La pillola che aveva scelto era corretta? Perché era ancora inchiodato in quella stanza e non stava scappando via? Perché si stava sottoponendo ai mediocri giochetti mentali di quel folle?
 
- Scommetterebbe la vita? – domandò il tassista.
 
Sherlock sollevò la testa dalla boccetta e le gambe gli tremarono.
 
Non era più nella stanza con la luce bianca, ma in una buia. E vedeva se stesso, in lontananza e di spalle, come se si stesse guardando attraverso i vetri di due finestre diverse.
 
Scosse velocemente la testa e riacquistò la propria vista, non capendo cosa fosse successo.
 
- Scommetto che si annoia, non è così? – continuava il tassista. – Un uomo come lei, così intelligente. Ma che gusto c’è a essere intelligenti se non si riesce a dimostrarlo? -.
 
Sherlock fece scivolare la pillola sulla propria mano e, tenendola tra pollice e indice destri, la avvicinò alla luce del neon più vicino per guardare la luce filtrare attraverso essa.
 
- Ne è dipendente. Ma questo è proprio ciò di cui non riesce a fare a meno. Lei farebbe di tutto, qualunque cosa, per interrompere la noia -.
 
La pillola gemella fra le dita del tassista seguiva i suoi stessi movimenti, avvicinandosi e allontanandosi dalle labbra. Doveva essere quella giusta, doveva dire quello a John. Era necessario.
 
- Ora non si sta annoiando – sorrise il tassista, la pillola a un centimetro dalla bocca. – Si sta… -.
 
Lo sparo.
 
Sherlock sentì come se le proprie gambe corressero via, fuggendo da un qualche atto tremendo, eppure era fermo, immobile.
 
Scavalcò il tavolo che lo frapponeva dalla finestra e guardò oltre il vetro: solo una stanza buia nel palazzo di fronte.
 
*
 
Moriarty. Assassino misterioso. Moriarty. Assassino misterioso. Moriarty…
 
Sherlock si sentì mettere sopra le spalle una coperta: per l’ennesima volta.
 
- Qualcuno vuole scattare qualche fotografia – spiegò un sorridente Lestrade, mettendo in mostra i denti bianchi.
 
Il consulente investigativo avrebbe voluto rispondere male all’ispettore, ma il pensiero di un altro incontro a tu per tu con Mycroft che gli ripeteva quanto fosse sgarbato insultare il Soulmate del proprio fratello maggiore... quel pensiero era così rivoltante che gli fece tenere a freno la lingua.
 
- Qualche traccia di chi ha sparato? – chiese allora, curioso.
 
- È sparito al nostro arrivo, ma suppongo che un uomo del genere abbia avuto dei nemici. Uno di loro potrebbe avervi seguito… - ipotizzò l’ispettore. – Ma non abbiamo alcuna traccia –
 
- Oh, questo non lo direi – sorrise Sherlock, canzonatorio.
 
Lestrade conosceva alla perfezione quel tipo di sguardo. – D’accordo, parla -.
 
E il consulente iniziò a snocciolare tutto ciò che si poteva dedurre, quando il suo sguardo si posò sul viso del proprio coinquilino, fra le luci blu delle volanti.
 
Si allontanò immediatamente da Lestrade, ignorando le polemiche dell’ispettore.
 
- Bel colpo – disse Sherlock a John, sovrastando le sue inutili chiacchiere inventate.
 
- Sì, è partito da… quella finestra – annaspò il medico.
 
- Mi ha capito – sorrise l’altro. – Si è tolto la polvere da sparo dalle dita? Vorrei evitarle il tribunale… -.
 
John tossì rumorosamente, distogliendo lo sguardo.
 
- Si sente bene? – chiese Sherlock, davvero preoccupato.
 
- Sì, certo -.
 
- Ha appena ucciso un uomo -.
 
- Sì. Succede –John allargò le labbra in un sorriso stirato. – Era per una giusta causa -.
 
- Ma davvero? – domandò il consulente.
 
- Oh, andiamo, io smetterò di dire bugie se lo farai anche tu – e Sherlock cercò di ignorare il naturale cambiamento da “lei” a “tu”, mentre John continuava a parlare. - C’è stato quell’attimo. So che hai visto dai miei occhi perché anche io ho visto dai tuoi. Sono cose che succedono solo se… entrambi, ecco – il medico terminò velocemente.
 
Ma Sherlock capì: certe coppie riuscivano a leggere alcuni pensieri o a vedere immagini dagli occhi dell’altro. Succedeva solo dopo anni di convivenza, eppure…
 
- Mi dispiace – si scusò.
 
- Non c’è nulla di cui scusarsi. Ero… sono spaventato anch’io – lo rassicurò il soldato. – Soprattutto poco fa, perché… ti prego, dimmi che non l’avresti ingoiata davvero. Solo per provare la tua intelligenza -.
 
Il consulente rimase in silenzio e con lo sguardo arrabbiato come un bambino che subiva un rimprovero dai genitori.
 
- Inutile mentire. Sono stato nella tua testa, so che volevi farlo. Ma ti prego, prometti che non metterai più a rischio te stesso in quella maniera. Almeno non quando io non sarò lì – raccomandò John, cercando di apparire iperprotettivo il meno possibile.
 
Sherlock avvertì un sincero tono di preoccupazione nel tono dell’altro e sollevò lo sguardo verso di lui. – Ma tu eri lì -.
 
- Non potevi saperlo -.
 
- Sì, invece. Inutile mentire, sono stato nella tua testa – lo scimmiottò il consulente. Si sorrisero. - Cosa si fa? In questi casi -.
 
- Quando si scopre chi è il proprio Soulmate a più di un giorno dall’Incontro? – suggerì John, con un velo di rimprovero giocoso negli occhi.
 
Sherlock imparò presto che avrebbe sempre amato quello sguardo. E desiderava davvero togliersi di dosso l’occhiata adorante che sapeva di avere e smorzare quel traboccante sentimento dal proprio petto. Si sentiva orgoglioso di John, come se fosse sua madre – e davvero non era una buona idea, odiava gli incesti – o come se fosse il suo fidanzato. Ma non era il suo fidanzato: era davvero molto, molto di più; qualcosa di più intimo, eterno, marchiato e privato.
 
– No, intendevo quando si spara a un tassista serial killer – scherzò.
 
- Leva pure quel “tassista”. Era davvero pessimo – commentò il medico.
 
- Già, vedessi che giro ha fatto per arrivare fin qui! – scherzò l’altro.
 
Risero simultaneamente, soffocando le risate nel bavero del cappotto e allontanandosi velocemente dall’ambulanza e dalle volanti.
 
*
 
Sherlock si sentiva strano. Entrò nell’appartamento e si gettò sul divano senza togliersi il cappotto di dosso.
 
Aveva tante per la testa: la conversazione con Mycroft avuta sulla scena del crimine – noiosa, decisamente da buttare -, le rassicurazioni per la signora Hudson di soli cinque minuti prima – aveva stranamente preso male il fatto di aver dialogato con un serial killer -, il misterioso nome “Moriarty” – da riporre con cura in un angolo del proprio Palazzo Mentale, per rifletterci su il prima possibile – e poi John.
 
Appena terminata l’operazione di sfoltimento di nozioni, riaprì gli occhi e si tirò su a sedere. Il medico era rimasto in piedi al centro della stanza: non sembrava aver più bisogno del bastone.
 
- E ora? - chiese retoricamente non appena sentì l’attenzione di Sherlock su di sé. – Viviamo insieme – concluse titubante.
 
- Constati l’ovvio – ribatté l’altro con un sopracciglio e un angolo della bocca sollevati.
 
- Ma due… - John si schiarì la voce. – Due Soulmate non possono vivere insieme così, senza conseguenze -.
 
- Constati nuovamente l’ovvio – commentò Sherlock, annoiato.
 
- Ma prima tu pensavi che noi potessimo…? -.
 
- No. Non tecnicamente, no – Sherlock si sporse in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia.
 
- E quindi tecnicamente… che si fa? Sul serio – chiese il medico, leggermente infastidito dal sorrisetto dell’altro.
 
- Quello che tecnicamente ci si aspetta da due Soulmate -.
 
- Paura che la gente parli? – disse John, ironico.
 
- Perché, la gente fa altro? – domandò Sherlock, retorico.
 
John sorrise e distolse lo sguardo. – Lo hai sentito anche tu? E non fare quella faccia, sai a cosa mi riferisco. Quando ti ho visto in quel laboratorio, io… il mio universo, il mio stesso essere si è spostato su di te. Non so davvero come tu abbia fatto a camuffarti così bene, io sarei corso verso di te e… - lasciò cadere la frase in sospeso, imbarazzato.
 
- E mi avresti abbracciato per non lasciarmi mai più? – mormorò il consulente investigativo, sollevando la testa su di lui. Il medico annuì con un sorriso.
 
- E quando ci siamo stretti la mano mi sono sentito come se… - si sfiorò il petto con la mano destra, deciso nel trovare le parole giuste. – Come se mi sentissi bruciare il cuore, come se si fosse carbonizzato insieme a tutto il resto. Avrei voluto di più, credo – ammise, vergognandosi come un ladro.
 
- Anche io avrei voluto. E vorrei adesso – confessò l’altro candidamente.
 
John si avvicinò al divano e Sherlock affondò la testa nel suo maglione troppo spesso, a livello dello stomaco.
 
Il medico gli sfiorò i capelli, stando attento a non toccare la cute. Trattenevano il sospiro, in tensione, timorosi e vogliosi di sentire nuovamente quella potente scarica elettrica. Di poterla moltiplicare per dieci stando pelle su pelle.
 
John si inginocchiò davanti al suo viso e gli baciò la fronte.
 
Sherlock sentì la fiamma arrivargli dritta al cervello e gli si dilatarono le pupille, il fiato mozzato e le labbra socchiuse. Avvicinarono i propri volti contemporaneamente, scontrando i nasi: altri nervi a fior di pelle, altri brividi caldi. Le labbra si alitarono un po’ l’una sull’altra prima di sfiorarsi.
 
Fu una sensazione particolare, perché dopo quell’incontro breve e delicato, Sherlock sentì le labbra di John imprimersi sul proprio cuore e per il medico fu lo stesso con la bocca del consulente. E come si può resistere a ciò che è scritto sul proprio cuore? Si baciarono di nuovo e la dolcezza era decisamente terminata, mentre John mordeva le labbra di Sherlock e ne disegnava il contorno con la lingua calda, mentre Sherlock succhiava il collo e la mandibola del compagno per togliergli il respiro.
 
Seguirono fino in camera la scia di baci e di carezze come fossero stati molliche di pane e rimasero smarriti e incerti ed eccitati fra le lenzuola del letto come Hansel e Gretel nella foresta.
 
Ed era la cosa migliore che potessero fare: stare insieme nel groviglio di lenzuola macchiate e odorose e bollenti di loro, sentendo l’uno nei pensieri dell’altro cosa fare, provando entrambi il piacere dei gemiti che si infondevano a vicenda.
 
Fu delizioso come fare l’amore con un dio, appagante in una maniera pericolosamente vicina all’autoerotismo. Quando crollarono tremanti, bagnati di lacrime, sudore e ormoni, rimaneva solo una cosa da fare. Lo avevano letto da bambini nelle fiabe come lieto fine romantico, nei libri di scienze come quasi inevitabile reazione fisiologica; lo avevano visto in film, telefilm, talkshow, ma non avevano mai capito, fino ad allora.
 
- Sherlock. Avevo temuto di non essere ricambiato. Ma ora so che il mio dolore è il tuo, che il mio piacere è il tuo, che vivrai sempre della mia allegria dipendente dalla mia – recitò il medico, le parole dettate dalla bocca di Sherlock marchiata sul suo cuore pulsante e accelerato.
 
- John, così come ha voluto la Data impressa sul mio polso, così come ha prescritto il Fato il giorno del nostro Incontro, così come mi dettano i tuoi occhi ogni volta che fissano i miei: ti accetterò e custodirò come mia anima gemella finché il mio essere sarà – mormorò Sherlock tra un sospiro e l’altro. - Perché io ti amo… -.
 
- E io amo te – sorrise John, carezzandogli uno zigomo. – E nulla potrà cambiare questo, perché siamo chiusi in un Attimo -.
 
*
 
- Che cos'è un'anima gemella?

- È come un migliore amico, ma anche di più.

 - È la persona che ti conosce meglio di chiunque altro al mondo.

- Qualcuno che ti rende una persona migliore.

- No, in realtà non lo fa, sei tu che ti migliori perché lui ti ispira.

- Un'anima gemella è qualcuno che ti porti dietro per sempre.

- È l'unica persona che ti conosce, ti accetta, e crede in te prima di chiunque altro, e a dispetto di chiunque altro.

- E non importa cosa accada, lo amerai.

- Per sempre. Niente potrebbe cambiarlo.



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Rieccomi anche qui!
Giusto un paio di cosette: ringrazio (sono ripetitiva, lo so) la mia dolce beta Lauur, che mi ha consigliato di fare una scena nell'appartamento e chiunque ha avuto la buona volontà di leggere questo poema (lasciate anche una recensione, mi salvereste davvero la vita! xD).
C'è qualche mezza citazione di vari film, telefilm e canzoni nel mezzo del testo e anche dialoghi presi dalla 1x1, anche se tutti con qualche piccola modifica.
Grazie grazie grazie,
Chiara :*
  
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